Una vita sul set, insieme. Intervista a Lino Capolicchio

Pupi Avati n. 10/2019

Nove film insieme, in quasi cinquant’anni di conoscenza reciproca. Lino Capolicchio è il volto più ricorrente e connotativo del cinema di Pupi Avati, quello al quale l’autore ha affidato i panni di se stesso (Jazz Band) e le redini recitative di molte tra le sue opere più personali, intime, amate. Su tutte, quel Le strelle nel fosso (1979) recitato all’impronta, in totale simbiosi e fiducia tra cast e regista. Per Avati, Capolicchio è stato il divo sul quale puntare per una rinascita professionale in tempi di magra (La casa dalle finestre che ridono [1976]), per la consacrazione televisiva (Jazz Band, Cinema!!!), per camei-sicurezza che potessero dare quelle sensazioni di intimità e amicizia indispensabili alla riuscita dei suoi set (Ultimo minuto [1987], Fratelli e sorelle [1991], Una sconfinata giovinezza [2010]). Oggi, durante le riprese di Il signor Diavolo (2019), Avati lo soprannomina giocosamente «Clint» per via di una certa, tardiva somiglianza con Eastwood. In quel nomignolo c’è tutta la confidenza per un attore ormai “di famiglia”, per il compagno di un’avventura chiamata cinema. E chiamata vita, che del cinema, per entrambi, è sinonimo.

Quando hai conosciuto Pupi?

Mi ha telefonato a casa nel 1971. Era impazzito, aveva guardato tutta una serie di miei film e gli piacevo molto come attore, credo anche fisicamente. All’epoca ero un divo assoluto, avevo una risonanza enorme, i giornali parlavano in continuazione di me, quindi c’era tutto un insieme di fattori che contribuiva alla mia immagine. Lui poi aveva visto in me un attore diverso dal solito anche perché non avevo una fisionomia tipicamente italiana, avevo quest’aria un po’ anglosassone. Non mediterranea, ecco. Quando incontrai Stanley Kramer, lui mi disse: «Sto cercando una figura italiana un po’ meridionale, ma lei sembra quasi russo. Non so, come la mettiamo?». Gli risposi: «Guardi, signor Kramer, non la mettiamo proprio, mi sembra di capire che non sono adatto per il ruolo che lei sta cercando». Lui, a quel punto, ammise: «Effettivamente è così». Questo per dire che avevo una figura inconsueta, fisicamente insolita per l’Italia. Poi ovviamente avevo talento e un viso molto particolare, molto espressivo, anche. Per questo piacevo moltissimo a Pupi. Diciamo che si era “invaghito” di me, come molti all’epoca.
Così mi telefonò: «Mi chiamo Avati, sono un giovane regista, ho fatto due film, vorrei farne un terzo e ho pensato a lei come protagonista». Mi fece vedere il suo secondo titolo, Thomas… gli indemoniati (1969, ndr), che non mi piacque per niente. Però capii che lì dentro c’era una sorta di inventiva, molto curiosa, e quindi lo tenni comunque in considerazione. In ogni caso lui voleva fare questo film insieme e la prima cosa che mi dette da leggere fu un trattamento che si chiamava Fuori dal bosco di Erpin: la storia un po’ visionaria del rapporto tra un padre e un figlio in una sorta di paesaggio incantato, pieno di incantesimi strani. Quello scritto rafforzò l’idea di trovarmi di fronte a una personalità molto viva e intrigante. Pupi voleva Alec Guinness per la parte del padre e me per la parte del ragazzo. Tutti i distributori da cui andava, però, gli dicevano: «Capolicchio va benissimo, Alec Guinness va benissimo, ma ci vorrebbe un regista!». Lui a quel punto rispondeva: «Il regista vorrei essere io che l’ho scritto, e che comunque ho fatto due film…». Ma a quelli dei suoi primi due film non fregava assolutamente nulla.

Del resto, Balsamus. L’uomo di Satana (1968) e Thomas erano andati male.

Sì, non erano entrati nel mercato. Erano un po’ così, un po’ fuori quota, non avevano attecchito. Lui continuava a scrivere sceneggiature e propormele, ma non si riusciva a concludere nulla. Mai niente di niente, tutto andava sempre disperso. Fino a che, un giorno, mi mandò un trattamento e mi disse: «Guardi, le ho mandato questo trattamento che mi sembra possa interessarle». Era La casa dalle finestre che ridono. Il problema è che io il trattamento l’ho ricevuto nel 1972, ma il film l’abbiamo fatto quattro anni dopo…

Quindi l’idea esisteva da un po’…

Il trattamento esisteva, gli dissi che mi piaceva molto e che ne ero entusiasta. Lui, allora, mi rispose che avrebbe scritto la sceneggiatura, e lo fece in brevissimo tempo. Solo che poi, appunto, tra una cosa e l’altra non riuscimmo a montare immediatamente il progetto. Nel mentre lui realizzò altri film, La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1975, ndr) e Bordella (1976, ndr). Quando gli fecero causa per Bordella, con tanto di processo e sequestro della pellicola, Pupi si incazzò e disse: «Questo film non uscirà più, e io cosa faccio adesso con Minervini? Perché non giriamo La casa dalle finestre che ridono?». Così andarono dal direttore della Eur International che disse «Sì, vi diamo un minimo garantito molto, molto basso, e con questi soldi dovete fare il film». E con quei soldi fecero il film. L’unico che pagarono fui io, perché ero l’unica stella.

In effetti tu, in quel momento, hai in qualche modo scommesso su Avati.

Sì. Infatti Pupi, quando cominciammo a girare, aveva un atteggiamento molto subalterno nei miei confronti: ero un divo conclamato, e lui si trovava a lavorare con un divo senza esserci preparato. C’era già stato Tognazzi nella sua vita, certo, però io ero una “star” e lui aveva questo atteggiamento molto umile nei miei confronti.

Da quel momento, però, avete cominciato a inanellare un titolo via l’altro, tra cinema e tv…

Perché ci eravamo connessi, avevamo capito di possedere una sensibilità speciale, che ci univa. Andavamo d’accordo. Lui diceva una cosa e io la facevo, lui chiedeva quel preciso particolare che aveva in mente e io glielo rendevo immediatamente. Questo gli piaceva moltissimo.

I tuoi ruoli venivano scritti pensando a te?

Sì, assolutamente. Jazz Band e Cinema!!! sono stati scritti pensando a me come protagonista assoluto, perché realizzando La casa dalle finestre che ridono avevamo trovato un’empatia molto forte. E Pupi aveva deciso che voleva continuare a fare film con me.

Hai mai messo mano alle sceneggiature?

No. Io allora non pensavo mai di scrivere sceneggiature, il mio interesse era unicamente attoriale. All’epoca ero molto determinato a fare delle cose come attore, naturalmente cercando di accettare sempre ruoli che mi interessassero, senza fare film tanto per farli, di quello non me ne fregava niente. Ero molto preso da me stesso in quanto interprete, l’idea di scrivere una sceneggiatura mi è venuta molto più tardi nella mia carriera.

In quella vostra prima fase di collaborazione c’è mai stato un momento di attrito o, semplicemente, di scarsa identità di vedute?

Mi è successo con molti altri registi, ma non con lui. Con lui non ho mai avuto divergenze tranne quando abbiamo fatto il penultimo film insieme, Una sconfinata giovinezza. In quel caso c’è stato un momento di frizione, perché pioveva e io non volevo stare sotto la pioggia, nonostante lui insistesse dicendomi che la scena non sarebbe stata lunga. Allora mi sono incazzato e ho detto: «Pupi, io sotto la pioggia non ci sto. Non me ne frega niente, mettimi dove ti pare, ma non lì sotto». Ecco, quello è stato l’unico caso di tensione – sebbene minima – in una relazione professionale lunghissima.

Dal 1976 dell’esordio al 1987 di Ultimo minuto, hai notato una crescita nell’Avati direttore di attori?

Assolutamente sì. In questo senso lui è sempre andato crescendo, diventando una sorta di maestro di recitazione. Interviene moltissimo anche oggi, come ho notato nell’ultimo film che abbiamo fatto (Il signor Diavolo [2019], ndr). Lì ho visto che lavora tanto, non soltanto con i ragazzini – che ovviamente sono da dirigere molto da vicino – ma anche con gli attori più esperti. Anche con me che, insomma, non si può dire non sappia recitare. Però lui interviene per trovare le sfumature. Ha la stessa qualità che riscontravo in Vittorio De Sica: si lavora davvero sulla recitazione quando non lo si fa sulla battuta in generale, ma sulle sfumature che bisogna darle. Lui ci si dedica molto, agendo per sottrazione – come faceva De Sica – e poi concentrandosi sull’idea di trovare il tono, il colore giusto per recitare la battuta. È cresciuto tantissimo, è diventato veramente un maestro di attori. Con lui diventi bravo anche se non lo sei.

Andando al di là di Pupi, in quel primo periodo si può parlare di una vera e propria factory Avati, fatta di cast e crew sempre più o meno uguali. Tra di voi si percepiva quest’essere cinematograficamente un corpo solo?

Decisamente sì, circolava una gioia pazzesca. Pupi era riuscito a stimolare all’interno di attori e membri della troupe un grande entusiasmo, una specie di frenesia per arrivare a completare l’opera. Mi ricordo che andare sul set era come andare a una festa. Questa era la sensazione, questo il clima che era riuscito a creare: tra noi non c’era antagonismo, ognuno aveva il suo ruolo, lo faceva e poi Pupi decideva come utilizzare le sequenze all’interno del montaggio definitivo.

Per fare questo ci vuole una fiducia totale nel regista.

Certo, infatti noi avevamo una fiducia cieca in Pupi. Quando abbiamo fatto Le strelle nel fosso, addirittura non c’era nemmeno una sceneggiatura. Ci aveva fornito solo un piccolo trattamento, poi di giorno in giorno si presentava al mattino con dei foglietti, delle battute che aveva scritto la sera prima, la notte prima, al mattino presto quando si era alzato. Arrivava, ci dava i foglietti e con questi in mano ci diceva: «È la scena che faremo oggi». Quindi bisognava imparare lì per lì anche le battute; poi è chiaro che provavamo, ma la nostra fiducia in lui era totale. Era una meraviglia. Ho un ricordo straordinario di quel periodo con Pupi, fu uno dei momenti più belli della mia vita professionale, non vedevo l’ora di andare sul set. Non solo io, tutti non vedevamo l’ora di andare sul set, perché capivamo che stavamo facendo un bel film, una cosa bella, artisticamente di rilievo.

Poi invece, dopo Ultimo minuto, per più di vent’anni tra te e Pupi non c’è modo di collaborare. Come mai?

Perché lui ha optato per attori consigliati dalla produzione, che spesso era di De Laurentiis. Forse De Laurentiis preferiva Abantuono o altri a me, perché erano più commerciali, li vendevi meglio. Ho questa sensazione, poi sinceramente non saprei dire se è vera o no.

Ma vi sentivate comunque?

Sì, non ci siamo mai persi. Andai anche a trovarlo sul set, mentre girava quel film costosissimo in costume (I cavalieri che fecero l’impresa [2001], ndr). Mi trovavo lì, negli stessi studi, e passai a salutarlo… Tra noi la relazione non si è mai spenta, siamo sempre rimasti amici e lo saremo sempre. Il bello è questo: non è che se per vent’anni non lavoro più con te, allora ti disconosco. Tra me e Pupi c’è un rapporto profondo, che non viene scalfito se per uno o più film lui pensa a un attore che crede sia più interessante o più giusto di me. Il regista ha una libertà di scelta totale. Io non posso impedire a Pupi di scegliere un attore piuttosto che un altro, lo lascio libero di decidere. Se un giorno decide che io sono giusto per una parte, allora mi chiama. Quando ha fatto Una sconfinata giovinezza ha detto che io sarei stato perfetto per il ruolo del fratello di Francesca Neri, probabilmente anche perché io e lei ci somigliamo fisicamente.

Guardando Una sconfinata giovinezza si aveva la netta sensazione che Avati fosse tornato un po’ ai vecchi amici. C’era anche Cavina, si ritornava a respirare un’aria artigianale.

Era un ritorno alle origini, è vero.

E da quel momento è tornato a lavorare con i suoi affetti. Il signor Diavolo lo dimostra: siete ritornati un po’ tutti.

Sì, proprio in massa. Siccome nel film i protagonisti sono sconosciuti, lui aveva bisogno di metterci una serie di nomi di cartello e, allora, si è inventato queste partecipazioni straordinarie in cui è tornato anche a La casa dalle finestre che ridono. Ha preso me e Cavina proprio come citazione, inserendoci in quel contesto che ricordava il gotico.

Nel tuo ruolo, in particolare, c’è una chiusura del cerchio straordinaria: in La casa dalle finestre che ridono eri il protagonista che in chiesa trovava la morte per mano del prete, mentre in Il signor Diavolo sei dall’altra parte a impersonare quel mondo, quella chiesa.

Curiosa questa cosa, molto curiosa. È vero. Poi Pupi è stato molto deciso, me l’ha subito detto: «Guarda, ti farò fare il ruolo del prete, ti taglierò i capelli molto molto corti, sappilo. Te li taglierò quasi a zero, ti avverto immediatamente». Io, ovviamente, ho accettato.

Dopo La casa dalle finestre che ridono e Solamente nero di Antonio Bido (1978) avevi abbandonato la via del genere. Cos’hai pensato quando ti sei ritrovato di nuovo in un gotico di Pupi Avati?

Ho pensato che era una soluzione giusta e che lui aveva bisogno di me. Allora, siccome La casa dalle finestre che ridono è un mito assoluto – addirittura una mia amica del Belgio mi ha detto che lì il film ha fatto scompiglio e tutti lo adorano – mi è sembrato che questo ritorno alle origini fosse una cosa per certi versi dovuta. Cioè: Pupi lo doveva fare, doveva riscrivere quella cosa che ha avuto e ha ancora un successo così clamoroso, come non mai. Perché lui ha fatto film bellissimi, ma quello che lo ha reso celebre ovunque è stato La casa dalle finestre che ridono. Non c’è nessuno, quando tu dici Pupi Avati, che non dica: «Ah, La casa dalle finestre che ridono!». Succede con chiunque io parli, anche in relazione alla mia carriera: con tutti i film che ho fatto, la gente quando mi incontra cita o La casa dalle finestre che ridono o Il giardino dei Finzi Contini. Non si scappa.
La cosa incredibile è che, secondo me, lui ha sentito l’esigenza di tornare sul luogo del delitto perché a un certo punto ha percepito che era necessario, cioè che la sua autobiografia personale necessitava di questo ritorno alle origini. È stato come un richiamo, e mi sembra anche giusto che sia successo. Forse proprio per chiudere un cerchio.
Io non ho visto il film, non ancora, ma credo che con Il signor Diavolo Pupi abbia recuperato quella sincerità di espressione che aveva quando era ragazzo, quella naturalezza che il mestiere alla fine ti fa un po’ perdere. Ha trovato un’ispirazione nuova che in realtà nuova non è: l’ha semplicemente ritrovata. E questo è bello, bellissimo.

Per restare in un’immagine avatiana, direi che è magico.

Ma Pupi, come sai, è una persona molto particolare, molto speciale. Io sono molto felice di avere avuto questo lungo tirocinio con lui, ben nove collaborazioni. Nove film sono un’eternità, sono tantissimi. L’ultimo giorno che giravamo a Comacchio, lui mi ha detto: «Lino, ti ricordi che eravamo qui a girare le sequenze di La casa dalle finestre che ridono? Sono passati quarant’anni e non ce ne siamo accorti». E io gli ho risposto: «Pupi, lo sai che è il nono film che giro con te?». Una cosa pazzesca, irripetibile. Con qualche regista ho lavorato più volte, con Patroni Griffi ad esempio ho fatto un film e tre lavori in teatro, ma un conto sono quattro collaborazioni, un conto sono nove. È una cifra enorme. È come vivere una vita sul set insieme, insomma, attraverso varie epoche e varie situazioni. Certo adesso ho una certa età, come lui del resto, però è sempre bello ritrovarci e quando ci siamo reincontrati su questo set ho lavorato in un clima di totale tranquillità.

Di questi quarant’anni hai un’immagine particolare che metteresti in quadro come istantanea imperitura del tuo rapporto con Avati, della tua carriera insieme a lui?

Io direi Jazz Band, perché è stato il momento più intenso in quanto a entusiasmo. Quando lessi la sceneggiatura mi commossi, piansi. Poi, mentre giravamo il film, un giorno lui mi guardò e mi disse: «Tu stai impersonando me, però lo fai in una maniera, con una sensibilità che mi commuove. Io vedendoti recitare, oggi, mi sono commosso». Ecco, credo che questo valga, sia molto importante. Non soltanto da un punto di vista professionale, ovviamente, ma umano. Quando tra un attore e un regista si stabilisce un rapporto così profondo, può succedere questo: che il regista, di fronte alla resa professionale ma anche emotiva del suo attore protagonista, si commuova.
Il finale della prima puntata di Jazz Band è un pezzo di antologia, quando mangio le fettuccine e mi rendo conto che la ragazza mi sta guardando e si sta innamorando di me: faccio delle espressioni assolutamente incredibili tra la tenerezza, lo stupore e l’ironia, perché il tutto è anche un po’ divertente, no? Pupi, in quel caso, mi ha detto: «Mi hai commosso, ho trovato commovente questa cosa, perché sei riuscito a esprimere tutta una serie di motivazioni interiori…». Ecco, quello è stato un momento meraviglioso che mi è rimasto impresso. Che vale, come si suol dire, una carriera. Perché il percorso di un attore viene spesso ricordato per alcune rese drammatiche, ma poi ci sono scene con sfumature molto sottili che magari il pubblico non coglie, mentre il regista sì. Il regista diventa il primo testimone della recitazione, della resa recitativa, ed è il primo a farti complimenti oppure no, se pensa non sia necessario. Ma se uno si commuove, viene lì e te lo dice è bello, bellissimo.

Il senso del tuo lavoro è lì, è in quel momento.

Certo. Ovviamente mi fa piacere l’apprezzamento dello spettatore, ma mi fa ancora più piacere quello del regista. E di un regista come Pupi, poi, che ha sensibilità e gusto… Che è un autore.

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