"Una sconfinata giovinezza". Storia di un amore

Matteo Berardini
Pupi Avati n. 10/2019

Con più di 40 film realizzati tra cinema e televisione, Pupi Avati ha composto nei suoi cinquant’anni di carriera un affresco dell’Italia che va dal ’68 al mondo di oggi; un ritratto frammentato ma assieme vivissimo e accorato che coglie dettagli, emozioni, desideri della “piccola gente” evocata in un quadro di trasformazioni sociali e culturali lunghe mezzo secolo. Tutti i personaggi del cinema di Avati sono emanazioni mnestiche o frutto dell’osservazione; in entrambi i casi sono figli di uno sguardo interiore sempre attento all’evolversi dei costumi e dei riti collettivi, del pensiero e della morale comune.
In un cinema così vasto e al contempo fedele a se stesso, che da sempre affabula appassionandosi al racconto intimo e sciaborda come acque del tempo avanti e indietro sul bagnasciuga della nostalgia, un film come Una sconfinata giovinezza (2010) diventa il punto di raccolta e assieme di sfida ai temi di tutta una filmografia. Filmare la dissolvenza interiore generata dall’Alzheimer, per un regista come Avati, si rivela infatti l’occasione per testare la resistenza all’oblio di un cinema legato alla memoria e all’inganno, al ricordo autobiografico alterato dal tempo e dalla volontà inarrestabile di giocare con parole, persone, eventi, per estendere sempre e comunque il tessuto del racconto. Un fiume in piena in cui scorrono tante piccole esistenze ma che qui appare in qualche modo contenuto, indirizzato nei margini di una storia d’amore grazie a cui Avati può esorcizzare forse le sue paure più grandi: la perdita della moglie e della memoria che in fondo, dopo decenni di matrimonio, non sono forse la stessa cosa?
In una carriera già di per sé prolifica e variegata, Avati trascorre l’ultima parte dei primi anni Duemila in piena attività. Tra il 2008 e il 2010 escono quattro dei suoi migliori film (Il papà di Giovanna [2008], Gli amici del bar Margherita [2009], Il figlio più piccolo [2010], Una sconfinata giovinezza), opere diverse tra loro in cui il regista passa senza soluzione di continuità dal dramma padre-figlia all’amarcord felliniano, dal ritratto borghese incattivito e affilato all’elegia del ricordo come ritorno all’infanzia nel perseverare dell’amore. Inoltre, ognuno di questi titoli viene anticipato da un romanzo, che in una sorta di metodo-Avati nasce come testo autonomo per poi diventare, già nella mente scrivente e poi nel concreto del fare cinema, la base forte della trasposizione filmica, a cui il regista arriva vitalizzando il racconto con l’occhio sempre discreto, intimo, umile, di chi si pone al servizio della storia e dell’umanità che contiene.
Come raccontato da Avati stesso nella sua autobiografia, Una sconfinata giovinezza è una storia che intrattiene un rapporto privilegiato con la vita del suo autore; i suoi ricordi d’infanzia infatti, quando bambino lascia Bologna per la campagna in seguito alla morte del padre in un incidente d’auto, ritornano fedeli nelle memorie pre-adolescenziali del giovane Lino – il protagonista, che del padre di Avati porta il nome – per il quale il progredire della malattia corrisponde a un ritorno ai tempi e giorni della prima età, già segnata dal lutto importante di entrambi i genitori. Ma andiamo con ordine.
Lino e Chicca sono una coppia sposata da molti anni, lui storico giornalista sportivo del «Messaggero», lei professoressa universitaria di filologia. Il loro è un legame forte e deciso a discapito del tempo, un amore quasi anacronistico nella sua fedeltà a se stesso e intaccato soltanto dalla mancanza di un figlio, fortissimamente voluto ma mai arrivato. Giorno dopo giorno il loro equilibrio si incrina a causa del morbo di Alzheimer, perversa malattia della mente che non solo trasforma il malato, ma obnubila l’immagine di lui negli occhi dei cari che lo circondano. La malattia di Lino porta l’uomo a ritrovare il ragazzino che fu, mentre sotto gli occhi gli scompare il presente; ricordi e immagini del passato invadono la sua quotidianità fino alla totale sovrapposizione. È lo stesso processo a ritroso sperimentato dalla Laura di Una gita scolastica (1983), quel ritorno all’età agognata e idilliaca che sopraggiunge proprio sul finire della vita, come se l’esistenza fosse una pellicola cinematografica i cui lembi si congiungono tra loro in una dissolvenza incrociata. Laura era un’anziana signora che, unica superstite di una gloriosa gita compiuta in gioventù, ritornava con la mente a quei giorni, li rievocava lasciandoli entrare nelle stanze del presente, tanto da voler nuovamente, in fin di vita, preparare il suo zaino per partire. Come in Una sconfinata giovinezza, il passo all’indietro nel percorso della propria vita si fonde(va) con un ritorno nostalgico alla terra.
Entrambi i film mettono in comunicazione il mondo magico della giovinezza con la dimensione misterica, idealizzata e mitica della campagna, un orizzonte bucolico in cui la prima scoperta del sesso si tinge di sfumature soprannaturali, i rumori dei morti nei cimiteri sono gli echi di un universo gotico sotterraneo, e un cane chiamato Perché, perso da Lino per un cattivo gioco tra bambini, diventa il simbolo di una spensieratezza e una gioia quasi dimenticate.
Una sconfinata giovinezza è il film di un regista che non può che raccontare la realtà trasfigurandola, ponendo al centro dei suoi giochi alchemici il tempo inteso come memoria circolare venata di malinconia; torniamo dalle parti di Le strelle nel fosso (1979), primo vero film avatiano sul tempo e sul rapporto magico che esso intrattiene con la terra, ma al posto di un ammazzatopi intento nel suo racconto notturno il film del 2010 mette in scena, come mai prima nel cinema di Avati, una forte, solida storia d’amore.
Il tema dell’amore non è certo nuovo in questo cinema, tuttavia viene qui posto al centro del racconto e affrontato attraverso le canoniche figure di un marito e una moglie. Lino e Chicca sono i protagonisti di una storia sentimentale che procedo all’inverso, un percorso di affetti che hanno la forza e la brillantezza di scoprire nell’oblio nuove forme del volersi bene, del prendersi cura l’uno dell’altra. La loro vicenda affronta momenti durissimi che Avati non risparmia – la cosiddetta fase dell’aggressività della malattia crea situazione insostenibili – ma oltre quella parentesi di violenza si apre la possibilità di ritornare bambini, o meglio madre e bambino, perché nel suo riscoprire l’infanzia Lino diventa quel figlio che la coppia non ha mai avuto, a cui insegnare le tabelline e con cui giocare sdraiati per terra, schiccherando tappi come fossero pedine di ciclisti lungo una tortuosa pista casalinga.

 

CAST & CREDITS

Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giuliano Pannuti; costumi: Maria Fassari, Stefania Consaga; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Lino Settembre), Francesca Neri (Francesca), Brian Fenzi (Lino Settembre bambino), Serena Grandi (zia Amabile), Gianni Cavina (Preda), Lino Capolicchio (Emilio), Cesare Cremonini (Nerio), Erika Blanc (la vedova); produzione: Antonio Avati per DueA Film, Rai Cinema; origine: Italia, 2010; durata: 98’; home video: Blu-ray inedito, dvd 01 Distribution; colonna sonora: inedita.

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