I racconti attorno al focolare. Fole e misteri di paure contadine

Ruggero Adamovit
Pupi Avati n. 10/2019

«E’ gieval brot i l’ha dipent / par fer stê in timor la zent»
(«Il diavolo l’hanno dipinto brutto per fare paura alla gente»)

Proverbio romagnolo

Corre l’anno 1976. Un giovane Avati, reduce da due esperienze non indimenticabili – le fallimentari opere prima e seconda, rispettivamente Balsamus. L’uomo di satana (1968) e Thomas… gli indemoniati (1969) – e da altrettante stravaganze cinematografiche – La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1975) e Bordella (1976) – confeziona nel giro di poche settimane e con un budget ridottissimo quella che sarà la pietra miliare di tutte le sue produzioni gotiche: La casa dalle finestre che ridono (1976). Un evento che segnerà l’inizio di un rapporto solido e longevo tra il regista, il genere e il territorio. Un legame intimo e profondo, un continuo innamoramento fatto di rinunce, picchi, fallimenti e abbandoni, ritorni di fiamma e risalite, scandito e immortalato nelle decadi di una lunga e prolifica carriera autoriale. Un legame che affonda le radici negli anni vissuti da sfollato a Sasso Marconi, durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. L’impatto con quel ramo della famiglia dalla forte vocazione contadina, per il giovanissimo Pupi, è deflagrante. Ed è nella bonaria e assolata campagna emiliana che germogliano in lui i prodromi di un cinema solcato da paure ancestrali e atmosfere gotiche, tutte fortemente connesse alla terra d’origine.
Oralità, natura, fede, miseria e coralità. Sono le cinque direttrici su cui si muovono le divinità pagane che ispirano Avati nella scrittura dei suoi gioielli orrorifici. In ogni sua opera riprendono vita, come dai terreni K, gli echi di una civiltà che non c’è più, i riflessi di una religiosità misteriosa, il sommerso di mondi passati eppure non così lontani. Gli spettri che si agitano dalle reminiscenze della civiltà contadina a cavallo tra le due guerre sono costituiti dalla materia dei sogni, o meglio, degli incubi. Sono fatti di racconti (la centralità della fola, forma perduta dell’oralità, come strumento principe per educare gli individui alla paura sin da piccoli e, quindi, alla vita di tutti i giorni), di archetipi e segni presenti in natura, forza materna e matrigna che, con le sue ineluttabili leggi, governa un mondo non ancora tecnologizzato e dunque totalmente in balìa di ciò che non sa spiegare (fede). Ma anche di educazione nel contesto comunitario, un rafforzarsi facendo fronte comune contro l’ignoto, un senso della morte che non è mai definitivo e che, nell’indeterminatezza del sapere dell’epoca, è accettato e non separato dal mondo dei vivi, lasciando aperta la porta alla consolazione e al ritorno.
«La prima paura che ho provato è sicuramente legata alla favola rurale e al rapporto con la morte, che nella cultura contadina ricorre sempre. La cultura contadina la frequenta, la dice, la minaccia, ne fa un uso abbondante»1.
La Spoon River della bassa del regista felsineo nasce così. Fortemente autobiografica, è un’opera unica a tappe che ne scandiscono la carriera con incursioni a tratti regolari, sospinte forse da quella theia mania, dalle divinità pagane che guidano la mano dell’autore verso luoghi per noi misteriosi e sinistri e per lui così caldi e familiari, suggestioni di ricordi d’infanzia e, ancora una volta, ritorni.
Una sorta di Odissea che lo riconduce inesorabilmente a casa – anche quando è sperduto tra le lontane colline dell’Iowa a girare Il nascondiglio (2007) – dove casa è sempre il cuore centrale e pulsante delle sue produzioni, quella campagna emiliana che ha saputo trasfigurare in modo così personale e altro, esotico e esogeno, come neppure in un dipinto del conterraneo Ligabue: «L’unica cosa che poteva rassicurarci era contestualizzare il genere in un ambito che fosse inedito per il genere e, quindi, non lo legittimasse. Ecco allora la tranquilla e piacente Emilia-Romagna, che il cinema e la letteratura avevano sempre letto e proposto alla maniera bonaria di don Camillo, improvvisamente trasfigurarsi e diventare qualcos’altro. Anziché fotografare la parte soleggiata della siepe abbiamo ripreso la parte in ombra, la parte più buia»2.
È così che il Maestro delega all’ambientazione padana una funzione rassicurante e assolve a quella dello spavento con un fitto reticolo di echi e rimandi gotici che si sviluppano e vanno a disturbare quell’innocuo frammento di mondo. Dalle indefinite brume degli argini polesani alle assolate pianure dell’Emilia-Romagna marginale, Avati erige microcosmi chiusi, circoscritti, apparentemente confortevoli. Comunità a prima vista gioviali e serene, magari un po’ strambe, comunque sane e “normali”. È un mondo piccolo, familiare, a misura di chi guarda. Spesso sperduto o disancorato da marcate coordinate spazio-temporali, ma comunque sempre, al primo impatto, rassicurante. Ci sono il sindaco, i negozianti, la maestra, la pieve con il parroco o il curato di turno. E quei modi di fare scherzosi e lievemente irriverenti, la convivialità bonaria, l’estro palesato anche dalle stranezze di alcuni gesti e atteggiamenti, che riconducono indiscutibilmente a “un qualche paesino dell’Emilia-Romagna”, pur ignorandone con precisione l’esatta ubicazione topografica.
Perché sviluppare una storia dell’orrore o inerente al soprannaturale in un habitat tranquillo e alla luce del sole? Il gotico padano ha in nuce i semi di un’antitetica convivenza, che già di per sé contribuisce a creare disagio. Una dissonanza evidente sin dalla terminologia, dove la logica conduce ad accostare l’ombrosa e terrea area dei popoli germanici e del Nord europa (i barbari, la cui arte venne definita “gotica” con accezione dispregiativa) alla piacente e placida pianura padana. Avati gioca con gli opposti, dirige e movimenta le suggestioni centellinandole come un abile scacchista, colloca lo spettatore in una botte di ferro – rassicurandolo con la familiarità delle ambientazioni, con la schiettezza e i buffi tratti peculiari dei personaggi – per poi atterrirlo con il progressivo svelamento e con l’entrata in scena dell’orrore o del thrilling. Orrore che riprende appunto i crismi del gotico, in quella continua contrapposizione di alti e bassi, di nascosto e svelato, contrapposizione di mondi e culture (la città e la campagna) che va a deflagrare nel sostrato elettivo del regista: quel mondo contadino carico di ambiguità e falsamente amichevole che le insinuazioni classiche del gotico, sapientemente instillate lungo l’arco della narrazione nei piccoli cult dell’autore bolognese, vanno a disvelare, sovvertendo le mosse rassicuranti distribuite ad arte nelle fasi iniziali della narrazione.
Lo spettatore assiste al ribaltamento sistematico delle proprie certezze e allo scardinamento di ogni sicuro appiglio ed è chiamato ad aderire fino in fondo alle vorticose discese nell’abisso dei diversi protagonisti con uno sprofondamento mai brusco, sempre in bilico tra inferno e redenzione, tra abbandono e adempimento del proprio destino. L’inquietudine è introdotta tramite la presentazione di dettagli stridenti con il placido contesto di riferimento iniziale, tutti di strettissima matrice gotica, che lentamente vanno a costituire un imperscrutabile mosaico dal quale fare deflagrare l’orrore in tutta la sua forza. Impercettibili stranezze, anomalie fisiche e difetti di pronuncia sono la chiave di volta per la costruzione di un solido edificio di paura retto dai molteplici stilemi del genere: tematiche inerenti alla follia, al doppio, al rapporto con il mondo ultraterreno, alla sessualità deviata e alla deformità fisica. E ancora: fenomeni come il plurilinguismo, la profezia e la cantilena, elementi scenici quali l’edificio fatiscente o diroccato e la villa isolata. Tutti stilemi che contribuiscono alla creazione dell’atmosfera, substrato indispensabile per stimolare, nelle corde di chi guarda, la giusta predisposizione emotiva.
Perché Avati è l’anello di congiuntura tra due mondi. Il nume tutelare di un passato sepolto ma sempre pronto ad affiorare. L’ultimo grande narratore di un’Italia che non c’è più, ma di cui puntualmente sentiamo il bisogno di farci raccontare. Per avere ancora paura del buio, per tornare un po’ bambini e, forse, anche un po’ più umani.

 

Note

1 Adamovit Ruggero, Bartolini Claudio, Il gotico padano. Dialogo con Pupi Avati, Bietti, I libri di INLAND, Milano 2019, p. 44.
2 Ivi, p. 23.

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