Verrà la morte e avrà il tuo Dick. Ambiguità grammaticali e ontologiche

Paolo Bottazzini
Philip K. Dick – Lui è vivo, noi siamo morti n. 19/2022
Verrà la morte e avrà il tuo Dick. Ambiguità grammaticali e ontologiche

Alla svolta del secolo, tra Sette e Ottocento, la medicina ha insegnato a scorgere nel cadavere la verità dell’uomo. La salma è la trasfigurazione gloriosa del corpo, che procede passo a passo a impadronirsi di tutti i tessuti e a svelarne l’essenza. Tra il 1799 e il 1801, Xavier Bichat mappa nelle lesioni istologiche degli organi interni lo sviluppo delle malattie che affliggono il paziente: la vita è l’opacità che resiste all’evidenza del cadavere, l’ostruzione che nasconde ciò che ha causato la storia dei sintomi del paziente, il tracciato della sua unicità. Può apparire sorprendente, ma fino a quel momento le concezioni della scienza avevano impedito di riconoscere l’evidenza della correlazione tra semiologia clinica e trasformazioni interne di organi e tessuti[1]. Con il positivismo, la cultura europea uccide in via definitiva il suo Dio, e consegna l’anima allo stesso destino: il medico detronizza il papa e anche il re, sottrae al confessionale la guida del fedele, usurpa la cattedra della pastorale quotidiana: da allora (ma, come ci ha dimostrato la recente esperienza del Covid, mai come oggi), non c’è altra verità al di là di quella della salute e della malattia fisica. Pure il Creatore si adegua al dettato di Bichat, e la parusia si materializza nell’annuncio di Nietzsche: «Dio è morto». Probabilmente da allora siamo ancora smarriti nell’endoscopia infinita delle sacre viscere: due guerre mondiali, i lager e la musica trap dovrebbero bastare a farcelo presentire. Ma, più utilmente, potremmo arguire che Philip K. Dick abbia compendiato nell’ansia di salvezza che anima i personaggi di Ubik (1969) il senso della storia degli ultimi due secoli: solo chi sorveglia nel moratorium il quasi-cadavere di amici e parenti può illudersi di conoscere la verità sul mondo. E persino questa forma di accesso alla realtà può essere revocata in dubbio: lo sguardo che taglia il confine tra i vivi e i morti può rovesciarsi, la dimensione di cui si fa esperienza rischia sempre di non essere mai l’ultima parola sull’universo, di retrocedere a penultima ipotesi, rivelandosi un’allucinazione.

Le prime battute del romanzo accompagnano il lettore in una visita alla clinica svizzera Diletti Fratelli, in cui Ella Runciter viene tenuta in semivita, una sorta di animazione sospesa. Le considerazioni di Emmanuel Carrère sulla lunghezza dei nomi dei personaggi di Dick suggeriscono che si tratti di una personalità con ampie risorse economiche[2]: infatti, la salma è della moglie di Glen Runciter, il proprietario dell’azienda per cui lavorano gli altri eroi del romanzo. Tra loro figura Joe Chip, separato dal suo capo da una sillaba in meno nel cognome e da una montagna di debiti.

La tecnologia ha ormai reso possibile il trattamento criogenico di coloro che stanno per morire, in modo da prolungare le occasioni di contatto con famigliari e amici grazie a strumenti che amplificano il segnale cerebrale e lo trasformano in voce dialogante. Il moratorium presenta all’esterno la struttura anatomica di una necropoli, il tempio in cui si entra in contatto con i trapassati e si interroga la loro saggezza; all’interno, invece, è un incubatore di mondi che possono essere abitati, dove i quasi-morti vivono l’esperienza cui corrispondono le deboli vibrazioni del loro elettroencefalogramma.

Poco dopo il colloquio con la consorte in ibernazione, Runciter, Chip e altri collaboratori cadono vittime di un’imboscata: un’esplosione uccide il titolare dell’impresa. In realtà, l’episodio della bomba incide la loro vita con un’incrinatura che ne aggroviglia la continuità spazio-temporale, rendendo impossibile collocarla con certezza all’interno o all’esterno del moratorium, o assicurare che stia proseguendo in una quasi-vita o in una quasi-morte. L’unica evidenza è che Chip e Runciter vengono precipitati ai lati opposti della fenditura, e agiscono l’uno per l’altro come una fonte di conoscenza trascendente, rivelando attraverso oracoli e miracoli la forma autentica del mondo e della destinazione di ciascuno dei suoi abitanti.

Se l’esplorazione della verità deve essere un’endoscopia, non ci si può sorprendere che la sua semiologia segua regole particolari: in un universo che si rispetti con le sembianze del cadavere di Dio, le teofanie saranno messaggi scarabocchiati con un pennarello sulle pareti di un gabinetto pubblico, come l’informazione: «Io sono vivo e voi siete morti», con cui Chip apprende da Runciter di essere diventato un ospite del moratorium – o come l’effigie di Chip sulle monetine con cui Runciter tenta (invano) di elargire una mancia, intuendo una verità con prospettiva rovesciata, che assegna a lui l’onere di occupare un loculo vicino alla moglie.

Nemmeno chi incarna l’occhio che interroga il cadavere può essere sicuro della propria salvezza, né della verità che possiede: il dubbio divora anche il laboratorio di Bichat, appropriandosi dei suoi strumenti di dissezione, delle sue lenti di osservazione, del suo linguaggio di descrizione.

 

Quasi mondi

 

Il gabinetto dello scienziato non è mai un luogo solitario: in formato fisico o ideale, oltre all’esecutore dell’esperimento ospita la comunità dei pari, che sono stati educati ad un esercizio dello sguardo capace di cogliere le stesse informazioni dai segni iscritti nella natura o sollecitati dall’apparecchiatura di ricerca – storte, alambicchi, stetoscopi, bisturi. La storia della scienza moderna nasce con la possibilità, per una comunità di uomini eletti per profondità di studi e addestramento all’uso di dispositivi di indagine, di revocare in dubbio i risultati anche dei migliori e dei più celebrati tra i loro maestri, di criticare, di proporre ipotesi alternative.

Bruno Latour sostiene che la fioritura di questa pratica sia coeva e concausa della formazione dello Stato moderno, nel corso del Sei-Settecento[3]. Anche la separazione del governo degli uomini dall’investitura teologica si celebra con la creazione di un corpo di eletti, per censo o per votazione, che assumono decisioni politiche sulla base della loro comprensione e deliberazione razionale. Il mondo in cui siamo nati era modellato da queste due comunità di esperti, custodi della verità e della volizione, che rappresentavano sia un campione di umanità da imitare, sia la fonte delle nostre convinzioni su ciò che esiste, ciò che può accadere, cosa è giusto desiderare, cosa è bene ammirare.

Ora non è più così. Quel mondo sta mostrando la verità di se stesso, sta diventando un cadavere.

Dick non commette l’ingenuità di imputare la torsione cognitiva da cui si genera un mondo intero alla follia di un soggetto isolato, il cui miraggio lo separerebbe dalla comunità dei pari. Il “compagno che sbaglia” fabbrica con il suo malinteso un mondo abitabile, che ospita un’intera collettività – spesso in modo indipendente dalla volontà dei singoli di farsi invitare. In Occhio dal cielo (1957) un incidente nel dispositivo che gli otto eroi stanno perlustrando li trascina di volta in volta nel mondo modellato sulle ossessioni architettate dall’ideologia di uno di loro. Prima finiscono in un universo dominato da una società bigotta e dall’interventismo del suo Dio; poi, in uno governato da uno spirito vittoriano talmente pruriginoso da eliminare le sostanze necessarie alla sopravvivenza del genere umano; in seguito, in uno sfigurato dal complottismo; infine, in uno disegnato sull’immagine della vita nei Paesi capitalisti secondo la propaganda dei regimi comunisti: indigenza diffusa, abbandono dei minori, delinquenza e immoralità, condizioni di vita da sottoproletariato ottocentesco, conflitto (armato) di classe.

Peter Fitting rintraccia un’analogia tra gli universi visitati dai personaggi del romanzo[4]: il dogmatismo delle convinzioni personali si trasforma in una struttura sociale e politica di oppressione, in cui non è lasciata alcuna possibilità di dissenso o di coabitazione con opinioni diverse. Il pluralismo compare solo nella moltiplicazione dei mondi abitabili, ma è escluso all’interno di ciascuno di essi. Il dio della prima avventura non ha gradito l’obituario di Nietzsche e reagisce blaterando prediche via etere in prima persona, impedendo a chi non vuole ascoltarlo di spegnere il televisore o anche soltanto di abbassare il volume; libera il campo da equivoci ed eresie bullizzando chiunque sollevi dubbi sugli articoli di fede (e sul suprematismo della razza bianca che lo accompagna), aggredendolo con legioni di angeli nutriti a bistecche superproteiche e in assetto da lottatori di wrestling. Il moralismo della seconda incarnazione risolve per eccesso il problema della proibizione del sesso, elidendo gli organi genitali dagli individui. Come in un complotto di Bichat, la morte divora porzioni del corpo, lasciando sul terreno brandelli di individui, semivite come le voci e le caricature di Samuel Beckett o i bozzetti del primo Franz Kafka. Nel mondo complottista, alcuni personaggi (e persino le case) si tramutano in insetti, che non ereditano la mitezza del coleottero praghese imprigionato nella Metamorfosi, ma popolano uno scenario horror in cui la loro natura li forza a tendere agguati alle prede umane. Nel conflitto di classe dell’ultimo universo, infine, ogni imprenditore individua un signore della guerra, ogni prostituta traveste una spia dei collettivi di sinistra e ogni operaio cospira nei gruppi armati della rivoluzione. Le carcasse ora rimangono a terra senza vita (nemmeno quella semi-), dilaniate dalle esplosioni e dalla furia della lotta.

La morte ripristina la verità del mondo “normale”, e il ritorno sembra essere sigillato da un ambiente sociale in cui gli individui non aderiscono con fanatismo ad un sistema di valori, al suo dizionario e alle pratiche connesse. Ma l’ideologia che può etichettarsi “normale” è sempre la più pericolosa, e in effetti anche questo quadro non vanta una consistenza ontologica superiore a quella degli altri: la destituzione delle clownerie alla Beckett, l’assenza di superstizione, di ipocrisia puritana, di fedeltà ideologica, potrebbero essere solo i caratteri di un altro mondo, di una rimozione esercitata su ciò che per il soggetto è inaccettabile, di una proiezione dalla concezione liberale del protagonista, Jack Hamilton – che, in effetti, accetta di essere licenziato, anche se per un’accusa ingiusta. In ogni caso, sia che quello finale si riveli il mondo “vero”, sia che risulti costruito sull’ideologia del personaggio principale, la sua struttura non pratica una censura meno violenta degli altri. I personaggi aggrediti dall’esplosione dell’acceleratore di particelle sono otto, ma solo cinque di loro realizzano la loro personalità in un cosmo oggettivo: l’affermazione di quello di Hamilton escluderebbe (in via definitiva, visto che il romanzo termina) il diritto di espressione alla moglie dell’eroe, al figlio di una visitatrice e al ragazzo afroamericano che lavora come guida presso la centrale. Il capofamiglia esonera consorti, discendenti e famigli dall’occasione di dispiegare il loro mondo interiore in pubblico. Insomma, il maschio adulto bianco eterosessuale ha colpito ancora.

Umberto Rossi osserva che lo slittamento dello stile narrativo da un genere letterario all’altro è lo strumento tecnico per attribuire o sottrarre consistenza a ognuno dei mondi descritti[5]. Questo meccanismo viene etichettato come “gioco del ratto” e consiste nel tradimento continuo delle attese del lettore, passando dal registro della fantascienza a quello satirico, dal mainstream al gotico, fino all’action, per tornare alla fantascienza e infine al mainstream. Di volta in volta, lo scarto produce un riorientamento nella sospensione dell’incredulità e nella ricezione del contesto di azione, ridefinendo la comicità dell’universo bigotto, la censura biologica di quello vittoriano, la paura di quello complottistico, la battaglia di quello di spionaggio, non come piani di realtà mutilati, degradati a illusioni ottiche o allucinazioni indotte da un dispositivo tecnologico appartenente al primo contesto fantascientifico – ma come dimensioni di esperienza che vantano la pienezza ontologica di un mondo tangibile e condiviso da tutti.

Questa totalità include anche il lettore, che condivide la frequentazione dei vari universi venendo comunque esposto solo al rischio della concentrazione intellettuale, non a quello della penitenza religiosa o a quello della mutilazione dei genitali – anche se Dick avrebbe nutrito qualche sospetto (o qualche speranza) in più, riuscendo a immaginare un grado di pericolo maggiore per il suo pubblico. È quello che accade a tutti i personaggi che entrano in contatto con il romanzo La cavalletta non si alzerà più, redatto dallo scrittore Hawthorne Abendsen che vive nell’alto castello (o meglio, si pensa che ci viva) in L’uomo nell’alto castello (1962). La ricognizione del testo si sviluppa quindi come l’esplorazione di una sequenza di romanzi racchiusi uno dentro nell’altro, ognuno dei quali rivendica la compiutezza di un koinos kosmos, un mondo pubblico, non il delirio soggettivo di un idios kosmos.

 

Quasi mana

 

Ne Le tre stimmate di Palmer Eldritch (1965) la traslazione tra piani diversi della realtà non è più un evento che travolge i personaggi loro malgrado, come conseguenza di un’esplosione, ma una transumanza ricercata in modo consapevole – anzi, compulsivo – dagli eroi attraverso l’assunzione di una droga. Per la verità, le sostanze sono due, e in competizione tra loro: il Can-D smerciato da Leo Bulero e il Chew-Z diffuso da Palmer Eldritch. Permettono ai coloni su Marte di sperimentare con il massimo grado di immersività un frammento di esistenza sulla Terra, prima che il pianeta venisse devastato dalla crescita delle temperature e dal tracollo del clima.

Più precisamente, è il Can-D che offre questo genere di sollievo ad una quotidianità oscura come il cielo di Marte a mezzogiorno: il consumo non è un rito privato, perché la traslazione reincarna le donne che vi ricorrono in Perky Pat, e gli uomini nel suo amico Walt. Bisogna intendere questa affermazione nel modo più stringente possibile, dal momento che tutte le donne di una comunità che si calano nello stesso momento il Can-D finiscono per abitare lo stesso corpo di Perky Pat, mentre tutti gli uomini convivono in Walt. Le peripezie che affrontano i due eroi-reincarnazioni vantano lo spessore intellettuale delle avventure che le bambine fanno recitare alle bambole di Barbie e Ken: anche la loro struttura fisica è simile – ma, al contrario dei pupazzetti, Perky Pat e Walt godono di organi genitali tali da compensare le lacune di cui soffrivano i personaggi di Occhio nel cielo. Forse Dick sospettava che la maggior parte delle persone sarebbe stata felice così e non avrebbe preteso nulla di più; se si fosse imbattuto nella lettura dei più importanti giornali italiani di oggi, dove per una settimana il dibattito culturale è stato dominato dal divorzio di Francesco Totti e di Ilary Blasi, sarebbe stato confortato dall’evidenza che anche la classe intellettuale (almeno dalle nostre parti) non aspira a nulla di meglio.

In ogni caso, la frammentazione smette di essere un problema anatomico, trasferendosi nella dimensione della personalità. L’anima di Perky Pat e di Walt potrebbe rivendicare per sé quello che nel Vangelo proclama il portavoce degli spiriti che possiedono l’indemoniato di Gerasa: «Il mio nome è Legione, perché siamo molti»[6]. Al contempo, i coloni assuefatti al Can-D ritengono di condurre una doppia esistenza, in due mondi di uguale concretezza, e di intensa socialità. Su Marte vivono in comunità in stile kolchoz; nel trip si assiepano nelle spoglie delle due fisicatissime bambole da regressione infantile.

L’incorporazione in Perky Pat e in Walt, la si interpreti come legione di demoni o cenobio di editorialisti culturali, è comunque sottoposta ad una supervisione dei media e del marketing, dal momento che la traslazione viene assicurata dal Can-D, ma solo in associazione con l’acquisto di oggetti miniaturizzati dalla società di Leo Bulero. L’involuzione verso stadi puerili viene sancita dall’allestimento di un vero e proprio teatro delle bambole per dare sostegno alla transustanziazione, e le collezioni con cui si arreda il magico mondo di Perky Pat sono la componente legale del business del protagonista. La rete degli spacciatori coincide con lo star system dei presentatori televisivi che animano la promozione pubblicitaria delle miniature.

Nell’Introduzione all’opera di Marcel Mauss, Claude Lévi-Strauss formula la tesi che la nostra capacità di assegnare un senso al flusso delle esperienze in cui ci imbattiamo sia sempre in ritardo, e in difetto, rispetto alle necessità di interpretazione. Ci scontriamo con un’eccedenza di significanti rispetto ai significati con cui siamo in grado di elaborarli e manipolarli. L’incongruenza si rinnova a livello individuale, così come in quello della cultura, della comunità e della civiltà. Per questa ragione forgiamo alcune nozioni, a metà strada tra mito e concetto, che permettono di aprire il varco nell’impasse almeno verso la possibilità di inquadrare i fenomeni da assimilare: nella tradizione antropologica, il mana è uno di questi termini[7].

Le esplosioni e le droghe sembrano svolgere il ruolo del mana nella letteratura di Dick, per accedere ad una visione della società e del reale che è quella che noi siamo. L’accelerazione che le tecnologie digitali hanno impresso alla possibilità di creare mondi abitabili, senza alcun bisogno di ricorrere al misticismo psichedelico, ci separa dai tempi di Ubik e di Palmer Eldritch con un balzo più difficile da coprire con l’immaginazione della moltiplicazione degli universi paralleli che hanno reso possibile. L’opera d’arte, in quanto immagine del mondo, lo mostra ma non lo spiega, come osservava Ludwig Wittgenstein[8]: l’anatomia del racconto, la ricognizione della sua struttura interna rende comprensibile il cosmo, ma non lo trascende risalendo alle sue cause. È stato questo il destino dei romanzi di Dick rispetto all’epoca a noi contemporanea.

Il significante in eccedenza risiede però nei media digitali, quindi nell’organon della nostra cultura che dovrebbe soccorrere la ragione a ideare i significati con cui interpretare la massa di ignoto in cui siamo inciampati (creandola noi stessi): la crisi insorge dal dispositivo di comunicazione che dovrebbe condurre alla soluzione, e questa difficoltà sopraggiunge a complicare il quadro, un po’ come la rimozione dei genitali che in Occhio nel cielo avrebbe dovuto collaborare alla generazione di un’umanità più pura. Ma suggerisce a Dick opportunità narrative sviluppate nei racconti e dissezionate nell’Esegesi.

La reincarnazione nel corpo glorioso e super-sessualizzato di Perkie Pat e di Walt è la comunione dei santi per i coloni che professano una religione il cui cielo delle stelle fisse ruota nel palinsesto nelle promozioni pubblicitarie, e la cui trascendenza è rappresentata da un ritorno nel passato della vita sulla Terra. La Verità è un nuovo costumino semi-trasparente per bambole.

L’uomo nell’alto castello descrive un mondo in cui le potenze dell’Asse hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale e gli Stati Uniti sono sezionati in due sfere di influenza: la Germania per i territori atlantici e il Giappone nelle regioni del Pacifico. Ma anche questa volta i piani della realtà si moltiplicano, e alcuni personaggi possono sperimentare universi in cui gli Alleati hanno vinto la guerra. Nobusuke Tagomi, uno dei funzionari giapponesi più importanti negli USA, viene traslato nella nostra San Francisco attraverso il contatto con un vero e proprio mana, un gioiello cesellato da Frank Frink, che ha smesso di fabbricare finti cimeli dell’America pre-bellica per fondare un’impresa di produzione di manufatti originali. Juliana e Abendsen attingono ad una verità ancora differente, attraverso la lettura (e la stesura) del romanzo La cavalletta non si alzerà più, dove le potenze dell’Asse sono uscite sconfitte dal conflitto, ma il dopoguerra è dominato da un attrito latente tra l’impero britannico e quello americano.

Carlo Pagetti invita a proseguire l’esercizio avviato da Dick nel testo, e a interrogarci sulla realtà che la lettura de L’uomo nell’alto castello permette di osservare per il pubblico che vi si è imbattuto[9]. Le prime evidenze sono iscritte nel tessuto stesso del racconto: gli USA di Eisenhower e di Nixon non perseguono una politica meno imperialista di quella imputata ai nazisti, né il tipo di controllo che viene praticato sui cittadini è meno tirannico di quello delle dittature travolte dalla fine della guerra. Lo sfruttamento delle classi meno agiate e il razzismo trasferiscono su un piano sociale ed economico i valori che le ideologie fasciste collocavano su quello politico.

Tutto questo è senz’altro vero, ma Emmanuel Carrère preme per compiere un passo ulteriore, riflettendo sulla possibilità per un potere totalitario di falsificare per intero la percezione del reale in cui i cittadini sono immersi, fino a disorientare la loro coscienza di ciò che li circonda[10]. Le ideologie, per mestiere, hanno sempre distorto il riconoscimento dei rapporti tra gli individui e le loro attività, tra le persone e le istituzioni, i valori, i fini ultimi, le nozioni fondamentali di verità, di giustizia e di bellezza. Marx ha installato una fabbrica di sospetti nel salotto di ogni borghese e di ogni proletario, additando ovunque una mistificazione dei rapporti di forza economica e un processo di alienazione dell’essere dell’individuo nelle sue proprietà; Nietzsche ha innescato un dispositivo di volontà di potenza in ogni progetto esistenziale e culturale, mentre Freud ha osservato finalità sessuali penetrare in qualunque tipo di desiderio o di aspirazione.

Ma la macchinazione cui noi possiamo assistere, e che i romanzi di Dick mostrano, non è l’ipnosi con cui una forma di potere costituito riesce a sedurre la coscienza del pubblico e a distrarla con un gioco di illusioni, con un caleidoscopio di miraggi in cui l’operazione di depauperamento degli iloti sfuoca in modo progressivo, fino a risultare invisibile. Internet, e la civiltà che l’ha concepita, sta eradicando il monopolio della produzione e della legittimazione del mondo sociale che apparteneva ai possessori dei mezzi di scrittura e di pubblicazione (accademici, politici, editori di tutte le forme mediatiche, libri, giornali, radio, televisione, cinema), moltiplicando la disponibilità di piattaforme per generare universi abitabili, a poco prezzo, e senza la vidimazione della peer review di un’autorità costituita. Questo ha permesso nelle aree più ricche e popolose del pianeta la compresenza nella stessa area geografica, e nello stesso momento, di comunità che sembrano provenire da secoli e lande disparate, confraternite che credono nella Terra Piatta (come il generale Arthur Silvester di Occhio nel cielo, responsabile anche del cosmo bigotto che la circonda), nicchie che confidano in un cosmo dominato da complotti, sette integraliste che affidano la propria salvezza a qualche trascendenza di origine cristiana, islamica, buddista, vegana, macrobiotica, feticisti della divulgazione scientifica, nerd che idolatrano l’uscita della prossima scheda grafica, gente che ascolta la musica trap – senza che i loro membri si sfiorino mai, anche se risiedono nello stesso condominio (con l’eccezione degli ascoltatori di musica trap, bersaglio di odio solidale e collettivo). Se dovessero entrare in contatto non si capirebbero – o, peggio, dovremmo prepararci ad una deflagrazione come quella che innesca il dedalo di ambiguità di Ubik.

L’anatomia della società contemporanea esibisce all’osservatore una pluralità di corpi autonomi, di organi che si rendono sempre più ripiegati su se stessi, sempre più autoriferiti, e una sempre minore integrazione nella solidarietà collettiva: la visibilità di questa struttura cresce di evidenza perché questa è la definizione della morte, è la semivita dell’organismo sociale nel moratorium della storia.

 

Quasi veri

 

Dick e Carrère pensavano di sicuro ancora in termini di poteri istituzionali e di media organizzati secondo il modello editoriale, con palinsesti, comitati di redazione, direttori responsabili, finanziatori, finalità culturali e politiche. Ma quello che i libri di Dick mostrano è l’anatomia di una nuova costruzione sociale del mondo – anzi, dei suoi universi.

Come insegna il mondo liberale di Hamilton in Occhio dal cielo, anche un assetto politico che non si regge su un potere totalitario sa mascherare l’impermeabilità dei propri ingranaggi burocratici e la coercizione della propria censura, come gli altri, se non meglio degli altri. Il conio dell’etichetta fake news in origine denota «una forma di falsità tesa principalmente ad ingannare le persone imitando l’aspetto delle notizie reali»[11]: ma è una formula che sembra adeguata alle strategie messe in atto dai “mercanti del dubbio” che lavoravano per le lobby del tabacco, della chimica e dell’energia nel secondo dopoguerra[12].

Il fenomeno QAnon mostra che la diffusione di notizie manipolate non ha più bisogno di emulare i formati editoriali della tradizione per farsi divulgare e per farsi credere fermamente da segmenti anche molto ampi dell’opinione pubblica. Secondo il Pew Research Center, oltre un terzo degli americani adulti considera i social media come la fonte principale delle informazioni, e circa la metà vi ricorre in modo regolare come sede di approvvigionamento[13] – e se questo dato, in crescita continua, non bastasse a sgomentare analisti e critici timorati di fact checking come noi, si dovrebbe ricordare che una quota non documentata (ma molto significativa) del pubblico statunitense non si informa affatto.

La morte dei giornali, del controllo delle notizie, della distinzione delle fonti, l’inumazione del cadavere dell’opinione pubblica, non sono un problema solo americano. Alcune indagini sul livello di ignoranza circa i temi di attualità hanno convinto un autore liberal come Jason Brennan a proporre una riforma dell’istituto elettorale che dispensi gran parte degli aventi diritto dall’obbligo di esprimersi nell’urna su questioni di cui non hanno alcuna competenza[14]. È un buon esempio di conflagrazione da attrito tra un esponente del cluster accademico e i portavoce del clan dell’omeopatia.

Cass Sunstein ha elencato tre processi di divulgazione e di presa sugli individui delle informazioni attraverso le reti sociali[15]. Le cascate informative sono il meccanismo più banale, perché impongono un tema e le sue connotazioni di valore all’attenzione di un soggetto per il fatto che molti membri della sua cerchia di conoscenze ne stanno parlando. Le cascate conformistiche, invece, adeguano l’opinione di una persona a quella della maggioranza o delle figure più influenti della comunità, per il timore di deludere coloro che stimano, introducendo una dissonanza cognitiva rispetto ai loro valori e al loro punto di vista. D’altra parte, la pressione ad accogliere alcune informazioni, e ad approvare il giudizio morale che le accompagna, proviene anche da una selezione spontanea a livello soggettivo, dettata da ciò che già si conosce (o si pretende di sapere), dai criteri estetici e dalle predilezioni politiche di ciascuno. Il conformismo appartiene alla fisiologia della nostra capacità di informazione: si produce tramite un filtro percettivo che disseziona il corpus delle notizie e intercetta quelle assimilabili alla nostra storia, respingendo quasi tutto il resto. Infine, la polarizzazione dei gruppi denuncia la tendenza dei singoli ad assumere posizioni più radicali, quando si confrontano con i loro pari, su un argomento. Il conforto dell’opinione degli altri tende infatti a conferire un sostegno obiettivo ai propri assunti di partenza, con l’aggiunta di altri dettagli e di altre testimonianze, che contribuiscono a consolidare la versione più estrema della propria impostazione concettuale o della propria percezione dello stato delle cose. Persino la smentita ad opera di un lavoro di fact checking tende a produrre l’effetto opposto rispetto a quello previsto: le prove che sconfessano un’informazione accettata incentivano la fiducia nella sua credibilità, invece di forzare al suo rigetto.

Questo genere di comportamento, in apparenza irrazionale (come tutti quelli descritti in precedenza), non caratterizza solo gli ingenui, le classi incolte o coloro che possono essere accusati di non saper selezionare fonti di informazioni adeguate: uno studio condotto nel 2016 con metodologie di Big Data Analysis da Quattrociocchi, Scala e Sunstein[16] ha mostrato che su Facebook non esistono differenze tra i comportamenti delle comunità di coloro che sono – o si ritengono – competenti su temi scientifici, e dei gruppi che recepiscono, diffondono e amplificano le fake news cospirazioniste e antiscientifiche.

I media digitali trasformano queste tendenze, da sempre presenti nelle reti sociali umane, in casse di risonanza che isolano i vari cluster di opinione in mondi abitabili e autosufficienti, dove i comportamenti che in precedenza rappresentavano i compiti più delicati dell’intelligenza (come la selezione delle fonti, l’accertamento critico della validità delle informazioni, l’orientamento nel dibattito su un tema) vengono delegati alla velocità e alla sicurezza dei software di gestione delle piattaforme tecnologiche, dai motori di ricerca agli algoritmi di popolamento delle bacheche.

Uno studio del 2021 pubblicato dal PNAS[17] documenta la tendenza anche da parte degli scienziati ad affidarsi a Google Scholar per la ricerca di saggi, e a seguire le segnalazioni dei colleghi sui social media. Ma l’algoritmo del motore tende a premiare i contenuti che ottengono più link e più citazioni, così come le piattaforme di social network incrementano la visibilità dei profili e dei contenuti che ottengono più like e più interazioni. Robert Merton ha battezzato “effetto San Matteo”[18] il risultato di questo comportamento: chi vince piglia tutto. Tra i contenuti vincenti nell’ambito scientifico si trovano anche citazioni scorrette replicate a oltranza, nonché saggi in versioni pre-print che non hanno mai passato la peer review, o che includono errori in seguito emendati – senza alcun riguardo per le correzioni.

Meccanismi del tutto anonimi, algoritmi ideati per permetterci di specchiarci ad oltranza in un mondo di verità in accordo con le nostre passioni e con quelle della nostra cerchia di amici, software che decidono cosa dobbiamo sapere e cosa no, chi dobbiamo sentire e chi non vedremo più – incarnano un plot del tutto degno di Philip Dick, ma che Dick non ha raccontato; per quanto fosse folle, e lo era in modo eccezionale, una simile pazzia è rimasta al di là della sua immaginazione. Dick ha continuato a mostrarci nei suoi libri l’anatomia della realtà che deriva da queste premesse. L’etichetta fake news inquadra una porzione di quanto sta accadendo. Le informazioni che collaborano a generare la pluralità di mondi socialmente costruiti, in cui ciascuno di noi abita, hanno imboccato un’erranza rispetto ai processi di produzione e di circolazione della tradizione. Ma si tratta di una devianza se la si osserva dal punto di vista delle istanze di potere che dal Sei-Settecento presidiano la generazione e la garanzia di validità delle notizie: l’alleanza tra il laboratorio dello scienziato e la camera dei legislatori, con i loro meccanismi di addestramento, competenza della visione, riconoscimento istituzionale, esercizio della critica. Questo patto e la sua forza non riescono più a proteggere il monopolio sulla verità che hanno detenuto per oltre tre secoli. Qualcosa di nuovo gli sta succedendo: noi lo stiamo sperimentando, mentre Dick lo ha mostrato ed esaminato per tutta la vita.

Quello che è finito sul tavolo chirurgico di Philip Dick è il cadavere dell’uomo illuministico, o almeno così sembra. Ma quello che il nostro eroe ha visto con tanta lucidità, tanto meno è riuscito a capirlo e spiegarlo. Come noi. Quello che siamo, nell’entusiasmo, nella furia e nello spavento di osservarci quasi morti nella sala operatoria di Bichat, lo guardiamo senza raggiungere una spiegazione. La moltiplicazione dei mondi, la proliferazione dei luoghi e delle forme di trascendenza, lo slittamento perenne della soglia della certezza, rassicurano l’evidenza che la Verità è sempre penultima, che la Realtà dilegua sempre nella sua duplicazione, nella pluralità degli universi, nell’equiparabilità della loro consistenza. Non c’è un cosmo che possa rivendicare per sé una consistenza maggiore degli altri, che possa proporsi come sede della trascendenza, come enunciazione della parola finale, come formula dell’intelligenza completa del visibile e dell’invisibile.

Nel suo lavoro di dissezione Dick non ha trovato una risposta, e ha continuato a tentare, a rielaborare le domande, le repliche, le confutazioni, i riscontri, le contromisure, ribadendo richieste tradizionali e misurandole con strumenti tradizionali. Domande che non possono più trovare nelle pieghe e nei tessuti dell’anatomia la via di un sapere, di un discorso che pronunci la verità, che elabori un volere definitivo – tiranni ansiosi di essere detronizzati.

È almeno probabile che l’elaborazione di una conclusione fallisca, finché la si cerca nella carcassa che stiamo esaminando: dal tavolo operatorio e dalla pratica di osservazione anatomica che ha generato l’uomo contemporaneo si può vedere la sua fine, ma non si può osservare anche il suo successore, per quanto a lungo lo si cerchi.

Quello che scrutiamo è ancora e sempre la vivisezione del cadavere di quello che noi siamo stati. Qualunque sia l’essenza di quello che stiamo diventando, il luogo in cui si sta modellando non è il gabinetto dello scienziato, né la camera dei deputati, né la loro alleanza. Ovunque sia, Dick non lo ha trovato. E, almeno per ora, nemmeno noi.

 

  1. Cfr. Michel Foucault, La nascita della clinica, tr. di Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 1969, cap. 8.
  2. Cfr. Emmanuel Carrère, Io sono vivo e voi siete morti, tr. di Stefania Papetti, Theoria, Roma 1995, p. 161.
  3. Cfr. Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni, tr. di Guido Lagomarsino e Carlo Milani, Elèuthera, Milano 2018, cap. 2.
  4. Cfr. Peter Fitting, Reality as Ideological Construct: A Reading of Five Novels by Philip K. Dick, in «Science Fiction Studies», vol. 10, n. 2, luglio 1983.
  5. Cfr. Umberto Rossi, The Twisted Worlds of Philip K. Dick. A Reading of Twenty Ontologically Uncertain Novels, McFarland & Company, Jefferson 2011, cap. 1.
  6. Cfr. Mc 5, 8-9.
  7. Cfr. Claude Lévi-Strauss, Introduzione, in Marcel Mauss, Teoria generale della magia, tr. di Franco Zannino, Einaudi, Torino 2000.
  8. Cfr. Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-philosophicus, tr. di Amedeo Conte, Einaudi, Torino 1964, proposizioni 4.12 e 4.1212.
  9. Cfr. Carlo Pagetti, Introduzione, in Philip K. Dick, L’uomo nell’alto castello, tr. di Maurizio Nati, Fanucci, Roma 2001.
  10. Cfr. Emmanuel Carrère, Io sono vivo e voi siete morti, cit., pp. 77-79.
  11. Cfr. Edson C. Tandoc Jr., The Facts of Fake News: A Research Review, in «Sociology Compass», vol. 13, n. 9, settembre 2019.
  12. Cfr. Naomi Oreskes, Erik Conway, Mercanti di dubbi, tr. di Luigi Ciattaglia e Diego Tavazzi, Edizioni Ambiente, Milano 2019.
  13. Cfr. Mason Walker, Katerina Eva Matsa, News Consumption Across Social Media in 2021, in «Pew Research Center», 20 settembre 2021.
  14. Cfr. Jason Brennan, Against Democracy, Princeton University Press, Princeton 2017. Si veda, in particolare, il cap. 1.
  15. Cfr. Cass Sunstein, Voci, gossip e false dicerie, tr. di Lucia Cornalba, Feltrinelli, Milano 2010.
  16. Walter Quattrociocchi, Antonio Scala, Cass Sunstein, Echo Chambers on Facebook, in «SSRN», 2795110, 13 giugno 2016.
  17. Cfr. Jevin D. West, Carl T. Bergstrom, Misinformation In and About Science, in «Proceedings of the National Academy of Sciences», aprile 2021, vol. 118, n. 15.
  18. Cfr. Robert Merton, Social Theory and Social Structure, vol. II, The Free Press, New York 1968.

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