Drive. Il pathos dell’emozione, l’astrazione della forma
Massimo Zanichelli«Ci sono centomila strade in questa città. Non c’è bisogno che tu le conosca. Dammi ora e luogo e ti do cinque minuti. Qualunque cosa accada in quei cinque minuti, ci penso io. Ma ti avverto: qualunque cosa accada un minuto prima e un minuto dopo, te la cavi da solo. Hai capito?». L’incipit è un abbrivio senza respiro. Los Angeles, poco dopo mezzanotte. Un driver anonimo a bordo di un’auto anonima – una Chevy Impala, la più comune della California – carica due rapinatori per traghettarli in un luogo sicuro. Un orologio da polso attaccato al volante scandisce il tempo a disposizione, una ricetrasmittente segnala gli spostamenti della polizia, una radio racconta gli ultimi tre minuti della partita dei Clippers allo Staples Center. Contro ogni cliché dell’inseguimento, non è una fuga a tutta velocità: il pilota accelera solo quando è necessario (in due occasioni: quando è avvistato dall’elicottero, quando è intercettato da una pattuglia), preferendo guidare adagio o addirittura fermarsi per cercare la protezione del buio (dietro l’ombra di un camion e dietro quella di un magazzino). Dopo cinque minuti di apnea adrenalinica (la deadline diegetica coincide con quella filmica) parcheggia nel garage sotterraneo dello Staples Center mentre i tifosi dei Clippers escono dallo stadio. Il driver esce, s’infila un cappellino blu, si toglie il bomber grigio con lo scorpione ricamato sul dorso e si disperde nella folla. La sequenza, da antologia, gareggia con i classici del genere (da Bullitt di Peter Yates [1968] a Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin [1985]) pur non misurandosi sullo stesso terreno: niente inseguimenti mozzafiato, niente corse contromano, dal momento che Refn guarda con maggior interesse all’iperrealismo straniante di Strade violente di Michael Mann (1981) e Driver l’imprendibile di Walter Hill (1978), omaggiato anche nel “nome” del protagonista. La sequenza, soprattutto, è icastica nell’anticipare lo schema sinusoidale che informerà la struttura semantica del film: un’alternanza di accelerazioni e stasi, di silenzi e fragori, di idilli romantici e improvvise esplosioni di violenza, accompagnati da una musica elettronica e vocale (Nightcall di Kavinsky & Lovefoxxx, A Real Hero di College & Electric Youth) che richiama le colonne sonore degli anni Ottanta.
Di giorno il protagonista – senza nome come i personaggi interpretati da Clint Eastwood nei western, sempre con in bocca uno stuzzicadenti al posto del sigaro – fa il meccanico e lo stuntman, di notte diventa autista per la malavita. Laconico e impassibile, è un solitario che vive nell’ombra ed è abituato a guidare il proprio destino, almeno finché non incrocia quello di Irene, la vicina di casa. Lui ha il volto del canadese Ryan Gosling, sull’onda della consacrazione. Lei è la britannica Carey Mulligan, nel suo primo anno di grazia. Driver lavora nell’officina di Shannon (Bryan Cranston, il Walter White della serie Breaking Bad), Irene ha un figlio piccolo ed è sposata con un poco di buono di nome Standard (l’allora emergente Oscar Isaac), latino-americano appena uscito di prigione che deve sistemare dei conti in sospeso con un balordo di nome Nino, socio del boss Bernie Rose, con cui Shannon vuole entrare in affari aprendo una scuderia automobilistica per fare correre il suo campione. Innamorato dello sguardo dolce e inerme di Irene, Driver aiuta il marito in una rapina che finisce male: Standard viene seccato sul colpo, la complice Blanche viene uccisa in un motel poco dopo con una fucilata a bruciapelo che le porta via la faccia. Il protagonista si salva per un soffio grazie al sangue freddo e alla destrezza con il volante.
La scena al motel è il punto di demarcazione, quella con Irene nell’ascensore il punto di non ritorno. Il sangue comincia a sgorgare a fiotti e non smetterà più di zampillare. Il montaggio alterna esecuzioni frontali ed ellissi, rallentatori che non sono ancora slow motion digitali a velocità sincopate e lievi sfasature temporali. Driver prende a martellate Cook sotto lo sguardo indifferente di ballerine nude e scopre che dietro l’agguato c’è Nino, che ora vuole fare piazza pulita a partire proprio da Cook: Bernie Rose gli infila una forchetta nell’occhio e poi lo sgozza con un coltello da cucina (quasi un omaggio agli eccidi di Brother, diretto nel 2000 da un altro illustre “immigrato” come Takeshi Kitano). I criminali di Drive sono macellai, rozzi e inumani. Rose va al garage di Shannon per ucciderlo. Gli apre una vena del braccio con un rasoio. C’è qualcosa di agghiacciante nella “normalità” di questa esecuzione, più agghiacciante ancora dell’omicidio di Dave per mano di Jimmy nella notte oscura di Mystic River di Clint Eastwood (2003). Driver e Irene sono nell’ascensore con un sicario. Lui la porta accanto a sé e poi la bacia: è una manovra diversiva che gli permette di scagliarsi violentemente contro il killer, prendendolo a calci sul volto fino a massacrarlo. Il parossismo di un amore puro, non contaminato dalla carne, esige una violenza conseguente. Tutto deve essere estremo. Occhi pesti e sguardo allucinato, Driver, che sembra non dormire mai, è ora uno zombie, come gli aveva predetto Shannon. È posseduto dalla violenza e spossessato dell’amore. Le porte dell’ascensore che si richiudono sanciscono l’addio. Per Driver – come per Shane in Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens (1953), come per Preacher in Il cavaliere pallido di Eastwood (1985) – l’amore è impossibile e restano solo i conti da regolare. Con una maschera sul viso, Driver investe l’auto di Nino, scaraventandola giù dalla collina, quindi lo raggiunge e lo annega nelle acque dell’oceano, le stesse di Il lungo addio di Robert Altman (1973). Poi chiama al telefono Bernie Rose e gli cita l’apologo wellesiano della rana e dello scorpione, prima di affrontarlo all’arma bianca il mattino seguente in un parcheggio dall’aura western (vi si è ispirato Mann nel 2015 per il finale del suo Blackhat?). Rose lo pugnala alla pancia, lui gli taglia la gola. Driver è in auto, il suo sguardo sembra spento, poi si rianima. Riparte, abbandonando la Città degli Angeli – comunque protagonista – e del cinema (Refn goes to Hollywood), mentre Irene bussa invano alla sua porta, disperata. Il cavaliere torna al nulla da cui era arrivato.
Titolo di transizione tra la barbarica sfrontatezza dei film precedenti e il futuro formalismo, Drive è un noir più “neo” che “post” moderno: rimugina sulla lezione dei neo-classici come Eastwood, omaggia gli Eighties e procede ineluttabile verso un romanticismo da nuovo millennio, dove la rinuncia al corpo femminile nel nome di un neo-stilnovismo viene compensata dal rapporto viscerale con l’auto – che ha più pose di Carey Mulligan – dentro la quale Driver si rifugia dopo il duello all’ultimo sangue. È lei la sua dolce, inseparabile metà.
CAST & CREDITS
Titolo originale: Drive; regia: Nicolas Winding Refn; soggetto: dall’omonimo romanzo di James Sallis; sceneggiatura: Hossein Amini; fotografia: Newton Thomas Sigel; scenografia: Beth Mickle; costumi: Erin Benach; montaggio: Mat Newman; musiche: Cliff Martinez; interpreti: Ryan Gosling (Driver), Carey Mulligan (Irene), Bryan Cranston (Shannon), Albert Brooks (Bernie Rose), Oscar Isaac (Standard), Ron Perlman (Nino), Christina Hendricks (Blanche), Kaden Leos (Benicio); produzione: FilmDistrict, Bold Films, OddLot Entertainment, Marc Platt, Motel Movies, Newbridge Film Capital; origine: Stati Uniti, 2011; durata: 100’; premi: miglior regia al Festival di Cannes 2011; home video: dvd e Blu-ray IIF Home Video; colonna sonora: Drive, Sony Music.