Forse è vero, forse aveva ragione Marcello ad affermare che «c’è del marcio in Danimarca»; dopotutto anche Amleto, non molto prima, aveva descritto quella terra come «un giardino incolto, pieno tutto di malefiche piante»1. Ma se qualcosa era marcito a Elsinore già nel XVI secolo, all’imbrunire del XX Copenaghen è una terra di nessuno, un luogo in cui non c’è speranza e, se c’è, non può sopravvivere all’usura del tempo e alla belluina volontà di sopraffazione dell’uomo. Certo, permangono le peripezie della macchina da presa attorno, sopra e sotto le pile di videocassette che imperano nel micro-regno di Lenny, figura secondaria eppure cardine fondamentale della narrazione di Bleeder (1999), opera seconda di Nicolas Winding Refn che, dopo essere uscita nelle sale patrie ad agosto, a settembre partecipò alla Mostra del cinema di Venezia nella sezione Cinema del presente2. Cinema che ruota e volteggia attorno al cinema e alla sua consumazione seriale.
Se a diciotto anni dalla sua realizzazione non sono in molti a ricordare un’opera come Bleeder, non è solo perché la filmografia del suo autore si è fatta più corposa. E, probabilmente, neppure per quella lettura piuttosto condivisa che inserisce il dramma avente per protagonisti Leo, Louise, Lenny e Lea nelle retrovie della carriera del regista di Bronson (2008), Drive (2011) e The Neon Demon (2016). Bleeder è un film dimenticato perché è la radice del cinema di Refn e, come tale, si articola sotto terra, lontano dagli sguardi e perfino dalla memoria. Dopo la sfuriata di Pusher. L’inizio (1996) – «barbarico YAWP» sopra i tetti del mondo cinematografico europeo che cercò di scuotere le fondamenta di una produzione asfittica, prendendo a spunto tanto il noir iperreale degli anni Ottanta quanto l’elegia dimessa di un romanticismo oramai perduto, e vagheggiato – Bleeder appare già come una resa dei conti. C’è la realtà, là fuori, e c’è la finzione che ha diritto di modificarla, forse anche deturparla. Ma deve dimostrare di saperlo fare. Quello sberleffo lanciato contro gli Idioti di Lars von Trier (1998) – scambiato da alcuni per omaggio, a dimostrazione della capacità di lavorare sottopelle di Refn – non è solo un gioco interno alle posizioni di potere nella cinematografia nazionale, ma un guanto di sfida, una rivalsa contro un Dogma (solo ipotizzato, praticamente mai messo in pratica, a ulteriore scherno delle paratie stagne della critica internazionale) che minava le basi ludiche, soprattutto “fantastiche”, della settima arte.
Si possono rintracciare tre elementi chiave nella strutturazione di Bleeder: c’è la realtà esterna al cinema, quella che narra dei sobborghi di Copenaghen e in particolare di Nørrebro, il distretto amministrativo che negli anni Ottanta, e poi ancora nel 1993, fu epicentro delle rivolte squatter contro il governo; c’è la realtà interna al film, con la violenza che sfocia da una situazione sociale oramai impossibile da sostenere; e c’è poi la finzione dichiarata, quella che vede lo sguardo sognante, perso, muto e timido di Lenny cercare nelle traiettorie dei film che divora in modo quasi bulimico quella dimensione che gli è preclusa nella vita di tutti i giorni. In moto onirico tra i clerks di Kevin Smith (1994) e i vitelloni di Federico Fellini (1953), Lenny e i suoi amici si recludono volontariamente nel retrobottega della videoteca, sospinti da una voglia di evasione – in senso carcerario e ludico allo stesso tempo – che in ogni caso prima o poi dovrà scontrarsi con quell’universo in rotta di collisione che è lì fuori, a pochi metri dall’ingresso del locale. Il giardino incolto di Amleto non è stato trattato con miglior cura nei secoli successivi ed è diventato una giungla in cui possono trovarsi faccia a faccia le dinamiche sociali e narrative – sociali perché narrative? narrative in quanto sociali? tutto può essere – più disparate. Per questo assume una connotazione tutt’altro che puramente elencativa l’enumerazione dei registi presenti all’interno dei cataloghi della videoteca e sciorinati da Lenny a un cliente: si inizia con «Fritz Lang, Sergio Leone, Scorsese, Sergio Corbucci, George Romero, Lucio Fulci, Peckinpah, Tourneur» per arrivare a «David Lean, Frank Capra, Pontecorvo, Tarkovskij, Wajda, Scola, Visconti, Cassavetes, John Huston» e infine a «Gianni Amelio, Elia Kazan, Buñuel». Il resto è un po’ alla rinfusa, come ammette lo stesso Lenny. Ma in quel minuto fatto di soli nomi non solo si apre un primigenio caos cinefilo (e cinefago), ma si assume come realtà parallela – non più fittizia e non meno dolorosa – quella fatta di immagini, e solo di esse. Una realtà in cui Wes Craven e John Carpenter parlano la stessa lingua di Werner Herzog, in cui Seijun Suzuki va a cena con Stanley Kubrick, in cui Hitchcock e Lynch (citato per ben due volte) sono lo specchio di Ed Wood, e John Woo e Joe D’Amato siedono l’uno accanto all’altro.
Il cinema non va oltre la morte che arriva brutale e senza esclusione di colpi nel pre-finale e non serve a migliorare la vita. Ma esiste. È lì. Non è qualcosa di altro, non è qualcosa che non ha peso. L’immagine persiste. Esiste. Vive. «Ti piace Steven Seagal, ma non Bruce Lee», come Lenny rimprovera a Leo, non è solo un modo di intendere il gusto cinematografico: è una poetica, un’indole, una questione di etica.
Oltre un decennio prima che Ryan Gosling guidi in modo forsennato per le strade di Los Angeles, o che Elle Fanning cerchi la propria via nell’impero malefico della moda, il cinema di Nicolas Winding Refn è già scritto, con tanto di epigrafe e di ringraziamenti finali. L’immagine non è mai stata, per il regista danese, un viatico per evadere dalla realtà, né solo un modo per interpretarla. Come in Lynch e Jodorowsky (due registi che per Refn hanno ricoperto in modo dichiarato il ruolo di mentori, vere e proprie guide spirituali) realtà e sogno non sono dinamiche in contrapposizione, non rappresentano il bianco e il nero costretti eternamente a fronteggiarsi. Si mescolano, attraverso l’apparato immaginifico trovano inusuali e inaspettati punti di contatto, vivono in simbiosi e in simbiosi muoiono. Bleeder, tragedia che rilegge Shakespeare sotto un bombardamento psicotico già post-tarantiniano, assume come verità tutto ciò che è narrabile attraverso l’immagine. Un’immagine che non serve a estirpare le malefiche piante che hanno reso incolto il giardino danese, ma a pompare sangue nelle loro vene per poterle mostrare vive, fosse anche solo per pochi istanti. Un cinema emofiliaco.
Note
1 «Something is rotten in the reign of Denmark», William Shakespeare, Hamlet, atto I, scena 4; «Fie on’t! ah fie! ‘tis an unweeded garden, that grows to seed; things rank and gross in nature possess it merely», William Shakespeare, Hamlet, atto I, scena 2.
2 Insieme a Bleeder vennero selezionati in Cinema del presente anche Shin’ya Tsukamoto con Gemini, Claire Denis con Beau travail, Michael Winterbottom con With or Without You. Con o senza di te, Come te nessuno mai di Gabriele Muccino, Julien Donkey-Boy di Harmony Korine, Barren Illusion di Kiyoshi Kurosawa e Il dolce rumore della vita di Giuseppe Bertolucci.
CAST & CREDITS
Regia: Nicolas Winding Refn; sceneggiatura: Nicolas Winding Refn; fotografia: Morten Søborg; scenografia: Peter De Neergard; costumi: Loa Miller; montaggio: Anne Østerud; musiche: Peter Peter; interpreti: Kim Bodnia (Leo), Mads Mikkelsen (Lenny), Rikke Louise Andersson (Louise), Liv Corfixen (Lea), Levino Jensen (Louis), Zlatko Buric (Kitjo), Claus Flygare (Joe); produzione: Kamikaze; origine: Danimarca, 1999; durata: 98’; premi: miglior film danese ai Bodil Awards 2000, miglior attore protagonista (Kim Bodnia) ai Robert Awards 2000, premio FIPRESCI al Sarajevo Film Festival 2000; home video: dvd edizione tedesca FilmConfect; colonna sonora: inedita.