Narrativa: «La terra desolata»

Natale Pezzimenti
Modernità occulta – Le radici simboliche delle arti contemporanee n. 5/2013
Narrativa: «La terra desolata»

Le pareti verde acqua sono coperte da dita di polvere, le preziose tende africane, ridotte a brandelli, sbuffano fumo nero. Il pavimento è un paesaggio collinare di macerie, arricchito da riflessi di luce prodotti dai frammenti delle vetrate esplose. Il pianoforte, antico cimelio di un’epoca dimenticata, resiste miracolosamente sulle sue tre gambe, butterato dalla cenere, coperto di polvere e detriti. La porta scorrevole del salotto ondeggia sottile a mezz’aria, incastrata nel muro, come un coltello da lancio. Ha segato i cavi della fibra ottica coperti dal cartongesso che ora, nudi, penzolano sconfitti, nervature del sistema-casa ormai divenuto cadavere. L’oloproiettore tossisce piccole scariche di statica, avvitato al tavolino Moniguet, piegato su un lato e spezzato in due. Il chiarore dolce dell’alba, che penetra dal finestrone dell’anticamera, è in netto contrasto con la devastazione recata dalla notte.

Le lance della Lega Atlantica hanno aperto il fuoco alle due e hanno smesso forse da mezz’ora. Una pioggia di plasma ha massacrato la metropoli da un punto imprecisato dello spazio: le contraeree hanno risposto al fuoco fino a quando anche l’ultima è stata distrutta. Poi, per la città è stato l’inferno. Gli incrociatori nemici hanno colto di sorpresa la flotta stanziata a Gareden, a poche migliaia di chilometri dalla Luna, che è stata annientata; a quel punto sapevamo di essere finiti – ben prima dell’arrivo dei rinforzi, Regium sarebbe stata rasa al suolo. Un agglomerato urbano continuo di più di duecento chilometri, ammassato sullo stretto di Messina, affacciato sullo Ionio, sulle antiche terre del Mediterraneo. Sedici milioni di abitanti, una distesa di cemento e acciaio a perdita d’occhio, tra i massicci appenninici e le onde del mare. Tutto sventrato, liquefatto, irrimediabilmente perduto.

Mi appoggio al muro, accanto ad un fenditura da cui sporgono, attorcigliati come dita, i ferri della struttura divelta. Do un’occhiata fuori, centinaia di metri più in basso. Le luci verdi dei proiettori stellari si stanno dissipando: il cielo sarà privo di proiezioni pubblicitarie per un bel po’. Le nubi sono mostri vulcanici di antiche leggende, dal carapace carbone e dal cuore di lava. Le lance hanno colpito così a fondo che ora si possono intravvedere tutti i livelli, dal subterraneo all’interraneo al primo, su su fino al mediano e ai piani elevati. Il muro di Anabe è stato spappolato all’altezza del palazzo Chrysler-F e le fondamenta, nel livello interraneo, sembrano le radici smussate di un albero secolare. Il Pan-Plaza ricorda vagamente il Colosseo, demolito per metà, con il ventre iridescente scoperchiato e le pareti psichedeliche annerite. Da qui posso solo immaginare il bagno di sangue dentro il casinò, grande abbastanza da ospitare quindicimila persone. Ci saranno corpi e detriti galleggianti in un lago di sangue e interiora, dalla consistenza del fango. La cupola in vetro dell’Apple-Microsoft Design somiglia ad un uovo schiuso, con pezzi di ferro che gli oscillano attorno come un gonnellino da scolaretta. Ovunque ci sono Hover accartocciati, ribaltati, anche dentro i palazzi, dove sono caduti in seguito ai terribili uragani invocati dalla forza di risucchio delle lance.

Eppure, sono sopravvissuto. Solo adesso, di fronte a tale scempio indescrivibile, mi rendo conto del miracolo, combattuto tra la gioia e il senso di colpa. Ce ne sono altri? Il primo pensiero è di non essere l’unico, di avere ancora qualcuno nel quale riconoscermi, un fratello o sorella nella disgrazia con cui condividere il dolore e la sorpresa. Devo andare al box, prego di trovare l’Hover ancora funzionante, supero la cucina e i servizi, scendo le scale. Per poco non precipito in un vuoto chilometrico. Praticamente, la sezione di palazzo destinata ai box per ogni appartamento è stata succhiata via, strappata come un foglio di carta. Ne vedo le tubature e lo scheletro, il cesso degli inquilini quindici piani più in basso, l’orribile bruciatura sui proiettori dell’appartamento sotto il mio.

Esco sul pianerottolo, accanto agli ascensori c’è un quadratino di vetro con il tasto per l’allarme antincendio. Funzionerà? Ci credo poco. Mi asciugo il sudore dalla fronte, è sangue. Torno dentro, prendo dell’acqua dal frigo facendo trekking sulle macerie, bevo e mi lavo la faccia; mi pare di svegliarmi solo adesso. Torno all’allarme, rompo il vetro, abbasso la levetta: silenzio totale. La alzo e la riabbasso, niente. Do un pugno al pannello di controllo, che si accende. Urlo di gioia e bevo un’altra sorsata; mando giù un po’ di sangue: devo avere un dente spaccato. Imposto il piano trentacinque, il mio, per la scialuppa d’emergenza. Il braccio meccanico sul tetto si attiva e le otto cabine sugli angoli del palazzo scivolano sui binari, si fermano di fronte al mio piano e il portello si spalanca. “Piano trentacinquesimo, entrare nelle scialuppe, sedici per scialuppa, prima i bambini”, squilla la voce atona registrata. Mi precipito verso la salvezza a braccia spalancate, il portello si serra e la scialuppa riparte. In alcuni olodrammi iper-sim ho visto immagini di foreste abbattute dalla furia di una qualche forza, le chiome abbracciate l’una all’altra, i tronchi incrociati come spade avverse, la terra sobbalzata e scossa. Così è Regium: il quartiere Isola-14 è attraversato per il lungo dalla carcassa di un condominio estirpato dal terreno, segmentata lungo la strada, i cadaveri non si contano, i tralicci e i pali dell’illuminazione strappati e divelti, le alte guglie di un centro commerciale multi-livello sono incastonate nel corpo massiccio e semicircolare della Luna-Travel Inc.

Sono a terra. Esco dalla scialuppa e il braccio meccanico la trascina su fino al tetto. Zoppico: ora che il mio corpo si sta risvegliando, le conseguenze di una notte di bombardamenti si destano con esso. Accanto a me, la strada è coperta di buche, come il tessuto di un abito colpito ripetutamente a coltellate. Tutto puzza di bruciato: plastica, legna, lana, cotone, nylon, fibroyuta, tutto bruciato. Il suono della terra desolata somiglia ad un rumore bianco che è silenzio solo per metà, e se ti tappi le orecchie non s’affievolisce di un decibel. Percorro un tracciato sinuoso tra i resti della civiltà, scalo ampie facciate crollate e mi aggrappo ai binari della metropolitana, intrecciati alla strada come la trama nell’ordito. Dio, quanto sono stanco. Per poco non metto la mano su un grosso triangolo di vetro del parabrezza di una Toyota Crystal, schiacciata da un troncone di ferro che peserà una tonnellata. L’abitacolo è coperto di sangue umano, indescrivibile è che rimane dei corpi all’interno. Ce l’avevano detto: state chiusi nelle case, per nessuna ragione in strada, peggio ancora nelle macchine. L’avevano detto, maledizione. Lo so che è un bambino quello lì dentro, quel riccio rossastro nauseabondo è un bambino, lo so, ma fingo indifferenza, di non sapere. Un concessionario Toyota è stato sfondato da diversi piani di un condominio, alcune vetrate reggono ancora, sebbene incrinate. Di fronte c’è una piazza in cui una statua di un qualche artista inutile si è sparsa in polvere dappertutto.

Entro nel concessionario, lo esploro in lungo e in largo, e alla fine ne trovo una: una Honda GiAcca, un Hover a pilota automatico da trentamila Marchi, nero metallizzato, tre porte, capacità di volo di tremilaottocento chilometri a media urbana, ricarica solare e turbo a gas. Ironia della sorte, ho desiderato un aggeggio simile per anni, e ora che lo posso avere, mi manca tutto il resto. Lo attivo e parto, la GiAcca tossisce e si solleva, i led blu dell’antigrav si accendono e disegnano ghirigori sul pavimento polveroso. Prendo quota verso i trenta metri, anche se la GiAcca è d’area F12 e può viaggiare, in distretto urbano, oltre i centoventi metri di quota. La cloche è incastonata nel cruscotto, il parabrezza è un ricettacolo di ogni possibile quadro comandi da astronave moderna. “Visione esterna totale” ordino, l’abitacolo diviene trasparente e io sono un corpo seduto nel nulla che galleggia a duecentoquarantadue chilometri orari sopra le rovine di Regium. Sfreccio tra le lame degli edifici Neo-Liberty di Locri vecchia, un tempo il terzo quartiere della città per densità di popolazione, ora solo il cimitero di elefanti di ferro. Sotto le braci di Via Pericle ardono i resti della grande strada commerciale. Il gigantesco Museo d’Arte Millennio è un serpente arricciato a spirale, crivellato di ferite. Nell’aria volano cartacce e in alto scorgo turbinii d’aria irrequieta. La poderosa area industriale di Bova-Palizzi è una chiocciola nero inchiostro, con la piantagione antigrav rotolata su un fianco, i tentacoli smeraldo strappati dal suolo, le ricche vasche di coltivazione private del sostentamento e destinate alla rovina. Al centro di Vellico vedo la grande stazione dei carabinieri, la Virgo Vitae, con due piramidi immense collegate ogni cinquanta metri d’altezza dai ponti tubolari in stile Velchraung. Affacciate alla fontana del Santo Battista, le famose camere di scoppio, da cui venivano “sparate” le volanti in tutta Regium. La piramide a sinistra, la Guardiana, è tagliata in profondità poco più in alto della base, una coltellata assassina ai reni di un gigante, mentre l’altra, la Vigilante, è crollata, come un vecchio stanco, sull’Eremita, la banca centrale della Coalizione del Sud.

La GiAcca s’arroventa, le ordino di allontanarsi in direzione di Piazza della Redenzione, verso il mare. Cristo, a dodici chilometri c’è il punto in cui una lancia ha colpito, un lago di lava di ferraglia praticamente tanto grande e rovente da rischiare di cuocermi dentro l’Honda anche a questa distanza. Guardo il mare, una pentola a pressione guarnita di cadaveri umani e pesci, ma anche relitti e macerie trasportate fin lì dalla furia di una guerra inarrestabile. Quattro lance, e la casa di sedici milioni di persone cancellata per sempre. Il mare ribolle di un disgusto acido, mi guarda con riflessi opachi, mi considera un figlio indegno: io e tutti noi, colpevoli di aver sciolto nella violenza ogni rigurgito di bellezza. Un Cargo dell’ACG, il trasporto pubblico, si è impalato su una stalagmite – quanto rimasto del ponte Darso, vecchio di settant’anni. Per fortuna era vuoto. Un terminal con attraccati molti scafi aerei si è trascinato alla deriva lasciando un solco nella strada come una nave sulla sabbia. La Matriarca, uno dei ristoranti antigrav della città, era sopra Largo Caduti quando è precipitato, devastando le vetrine dei magazzini.

Vedo lo Stretto. Le braccia dei ponti sono tentacoli di fabbricati maestosi, un domino d’acciaio e funi di ferro-resina, avvinghiati alle terre separate dagli dèi e ricondotte ad unità dagli uomini. Rifuggo da quella visione orripilante: il mare è tinto di nero, la schiena del ponte si è sciolta e sezioni storiche della città hanno lanciato urla al cielo nell’affogare in un buco nero infuocato. Quattrocentotrentamila persone vivevano sullo Stretto, nello Stretto, per non parlare dei monumenti, dei luoghi di culto, degli olocinema, del parco ittico subacqueo Atlantis. La pozza di pece ribolle, emana fumi tossici che soffocano il sole, spargendo nel bacino ionico un inferno, nero come i sogni dei tiranni.

Da quello scempio, dapprima piccolo e poi sempre più chiaro sul dorso dell’alba, vola in mia direzione un Cargo affumicato, con il muso schiacciato, ma funzionante. La GiAcca segnala una velocità di crociera, centottanta chilometri orari.

C’è qualcuno lassù, cercano superstiti, senza dubbio. Chiedo all’Hover di mettermi in contatto Wi-Fi con chiunque sia in ascolto. Prego Dio, come mai prima, di restituirmi una voce umana dagli altoparlanti. Batto più volte sul cruscotto fantasma, urlo, prego ancora, mi sentite? C’è nessuno? Vi prego, rispondete.

“Sì, ci siamo, ci siamo. Ti abbiamo visto, stiamo arrivando”, mormora una voce di donna dall’altra parte del vivavoce.

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