Homo homini lupus

Emanuele Guarnieri
Modernità occulta – Le radici simboliche delle arti contemporanee n. 5/2013
Homo homini lupus

Due gemelli, abbandonati dai genitori, vennero allevati da una lupa. Uno di essi avrebbe successivamente fondato una città dal nome immortale, Roma. Sull’isola di Lyngvi, Fenrir, un lupo di dimensioni immani, fu incatenato dagli dèi allo scopo di ritardare il Ragnarök, la fine del mondo. In tempi più recenti, accadde che in una Giungla, nel cuore della Madre India, una Tigre uccidesse i genitori di un figlio dell’Uomo. Questi venne sottratto alla minaccia mortale che incombeva su di lui dall’intervento – in sé provvidenziale ma al tempo stesso, come vedremo, naturale – di una coppia di lupi che lo salvarono, affinché potesse in futuro vendicare la morte dei genitori e riaffermare così la supremazia della Legge della Giungla, trascendendola. Un proverbio degli Heiltsuk, una tribù nativo-americana, afferma che “i lupi non si fanno vedere a meno che non debbano dirci qualcosa” (1). Se cerchiamo l’uomo, insomma, troveremo il lupo. Queste creature sembrano assumere, nelle narrazioni che le riguardano, un ruolo controverso e non lineare: sommariamente, potremmo dividere queste storie in due categorie. Alla prima, in cui l’animale ha un ruolo negativo, apparterrebbero le innumerevoli storie della narrativa popolare sul “lupo cattivo”, ma anche miti ben più blasonati come quello nordico di Fenrir. Il significato del simbolo “lupo” sarebbe allora multiplo ma riconducibile alla caratterizzazione morale del malvagio: l’astuzia maligna del predatore che si contrappone all’innocenza dell’agnello, la volgare rapacità del ladro, che sottrae i frutti faticosamente prodotti dal lavoro umano e la bestialità divoratrice dell’ordine (Fenrir). Nella seconda potremmo invece annoverare quelle storie nelle quali il lupo riveste il ruolo di educatore del genere umano: ad essa apparterrebbero le vicende di Enkidu, amico di Gilgamesh, o di Romolo e Remo, allevati dai lupi, nonché, ovviamente, quella di Mowgli. A metà tra queste due concezioni si trova un altro celebre racconto: quello del lupo di Gubbio, in cui l’animale rappresenta gli strati sociali messi al bando dalla società – quali erano, ad esempio, i lebbrosi (elemento centrale nella predicazione francescana) – la cui reintegrazione avviene grazie alla santa mediazione di Francesco. A prima vista, allora, il lupo indicherebbe qui la pericolosità sociale dei reietti, degli outcast, animati dal desiderio di vendetta e dal resentissement. In questo elemento della tradizione francescana si potrebbe però trovare anche un riferimento ad un antico fenomeno culturale, legato all’origine del potere: il mito dell’uomo-lupo, il licantropo.

S’impone una parentesi: vale la pena ricordare la tesi sostenuta da Giorgio Agamben sulla natura della sovranità in Homo sacer (2), secondo cui il potere si fonda, e si è sempre fondato, sull’inserimento della vita naturale (nuda vita) in quella politica, inclusione caratterizzata paradossalmente proprio dalla sua esclusione: la sfera del politico comprenderebbe quella non-politica, escludendola da sé. Il concetto di “biopolitica” andrebbe allora retrodatato ai primordi della vita sociale, contrariamente a quanto affermato da Foucault, secondo cui tale paradigma appare come la soglia dell’Occidente moderno, da situarsi nel XVIII secolo. In un capitolo del libro, lo studioso richiama l’attenzione sull’istituto di diritto germanico detto bando e sul suo duplice significato: da una parte simbolo del potere sovrano (la bandiera), dall’altro nome della punizione che colpisce chi turba la pace sociale, (a cui è connesso il termine “abbandonare”). Quel che è interessante notare è che chi ne era colpito – chi veniva “bandito”, insomma – era denominato wargus, vargr, cioè lupo. In realtà, il malfattore non viene tanto sospinto in una condizione animale; piuttosto, entra in una zona di indistinzione, messa in rilievo da denominazioni come werwolf (uomo-lupo) o wulfesheud (in latino caput lupinum, testa di lupo), regione indifferenziata alla quale potrebbe peraltro fare riferimento l’espressione popolare “ora del lupo”, designante quei momenti di transizione tra la notte e l’aurora.

L’ipotesi di Agamben è che tale concetto riecheggi nell’homo homini lupus di Thomas Hobbes, quell’atteggiamento di inimicizia tra gli uomini presente nel cosiddetto “stato di natura” preesistente alla civiltà. Esso, però, andrebbe inteso come una situazione in cui una società piomba ogniqualvolta entri in crisi, quando la civitas appare tamquam dissoluta, più che come una condizione anteriore allo stato civile. Da questo stato di natura, secondo l’inglese, si può uscire solo a condizione che la possibilità di essere lupus venga lasciata ad uno solo, il monarca, il solo a potersi comportare come un werwolf e ad avere il potere di respingere i sudditi nella condizione di lupi-banditi. Questo è il duplice significato della “licantropia”, annidata nel cuore del politico e sempre relegata ai margini.

Le storie di lupi possono allora svelare il loro significato: sono miti politici, ci parlano cioè della natura della società umana. In particolare, i mitologemi del “lupo cattivo” (compreso quello di Fenrir, ma anche la leggenda francescana) raccontano della rivalsa degli outcast che pende, imminente, sul capo del potere sovrano. A questo significato alluderebbe anche il passaggio del Trattato del ribelle nel quale Ernst Jünger afferma che “tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cos’è la libertà. E non soltanto questi lupi sono forti in sé stessi, c’è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in un branco. È questo l’incubo dei potenti” (3).

Quando invece abbiamo a che fare con lupi-educatori del genere umano, si tratta di miti di fondazione politica (come nel caso di Romolo e Remo): quello evocato è allora il lupo “sovrano”, figura dalle caratteristiche di per sé pericolose ed inquietanti, che evoca infatti la natura feroce che si annida nel cuore della sfera politica.

Una sua celebre variante contemporanea si trova nei Libri della Giungla di Rudyard Kipling, che presentano però anche caratteristiche afferenti al tema del lupo outcast. Il nome stesso del protagonista, Mowgli (ranocchio), allude ad una dimensione anfibia, come a dire che nell’ambiguità sostanziale dell’uomo-lupo si nascondano ulteriori chiaroscuri. Inoltre, l’aspetto tirannico proprio dell’uomo-lupo pare in conflitto con quanto lo stesso Mowgli dichiara alle altre creature della Giungla. “Siamo dello stesso sangue, tu ed io” è la sua parola maestra prediletta – che riecheggia peraltro l’idea di fratellanza massonica, di cui Kipling era membro. Infine, giova ricordare come, nel racconto In the Rukh (escluso dal corpus della Giungla), Mowgli rivendichi esplicitamente di essere un fuoricasta.

La caratterizzazione morale dei personaggi è un’importante chiave di lettura per comprendere quale sia la pedagogia del lupo all’interno di questa variante del mitologema. La vicenda, sommariamente, narra di un cucciolo d’uomo che viene accudito dalla Giungla e dalle sue creature, affinché impari ad essere uomo. La sua educazione avviene grazie a peculiari maestri che, pur essendo fondamentalmente degli esemplari tipi morali (buona parte della produzione kiplinghiana ha fini pedagogici nemmeno troppo nascosti), in qualche modo trascendono la propria esemplarità, assumendo caratteristiche per così dire “a tutto tondo” (4).

È estremamente significativa la scelta di Kipling di assegnare i ruoli di buono e cattivo a delle precise categorie di animali: tigre, sciacallo, scimmia e lupo sono simboli di altrettante etiche. Certo, è un’analogia da assumere non senza riserve: non tutti i lupi sono buoni, anzi, nel racconto Il fiore rosso il branco dei lupi, di certo istigato da Shere Khan, depone dal comando Akela con l’inganno e scaccia Mowgli dalla communitas del branco. Al tempo stesso, in Come venne la paura, racconto cosmogonico-mitologico sulle origini della Giungla e la nascita dell’Uomo (la “Paura” per antonomasia, secondo gli animali), la tigre, pur essendo colei che dà origine alla morte, è presentata come il più saggio tra i giudici, preposta da Tha, il dio/elefante creatore della Giungla, ad amministrarla. Questa “potenzialità etica” è tuttavia negata alla scimmia, che “era allora quello che è adesso […], folli discorsi e parole senza senso” (5).

Nonostante questi casi, non si può tuttavia negare l’importanza dei binomi lupo/bontà e scimmia/malvagità. Le ragioni di questa scelta sono probabilmente da ricondurre al contesto storico culturale di Kipling. L’epoca della pubblicazione dei due Libri della Giungla (dati alle stampe rispettivamente nel 1894 e nel 1895) vede il capitalismo selvaggio anglo-americano attraversare la sua età dell’oro, grazie alla fortissima deregolamentazione dei mercati che consente l’affermarsi di una vera e propria “Legge della Giungla” economico-finanziaria, nel senso deteriore dell’espressione. Non solo: in quegli stessi anni e negli stessi ambienti godono di grande fortuna le teorie dell’orripilante darwinismo sociale, secondo le quali Rockfeller sarebbe l’apice della selezione naturale. In particolare, sono molto in voga le teorie del filosofo T. H. Huxley, che sostiene il progresso basarsi sulle analogie tra il comportamento umano e quello della tigre e della scimmia, animali che “non escono troppo bene dalle pagine della Giungla”, nell’opinione di Ottavio Fatica, storico curatore dell’opera kiplinghiana (6). Scontrandosi con queste tesi, Kipling ristabilisce la figura del lupo, facendone l’educatore dell’uomo, e con esso l’autentica Legge della Giungla.

Ed è proprio intorno all’asse di questa legge che si articola l’opposizione tra il lupo e i suoi avversari. Questa versione della dimensione naturale, “vecchia e vera come il cielo”, è in Kipling incarnazione della giustizia, perché nasce dalla necessità di assicurare la vita in un mondo la cui pace è stata spezzata dall’avvento dell’uomo e dalla ferocia della tigre: “Caccia, dunque, per sfamarti, ma non per divertimento”. Come “la liana gigante, che si stringe addosso a tutti ed alla quale nessuno può sottrarsi” essa, costringendo, sorregge tutto il multiforme popolo della Giungla.

Questo è il senso del citato Come venne la paura, al termine del quale troviamo una ricapitolazione della Legge, uno dei cui articoli recita: “Il diritto del branco è il diritto del più debole”. È l’esatta inversione della legge umana, che, secondo la ricostruzione hobbesiana, si nutre dell’ostilità reciproca e spontanea, volta alla sopraffazione dell’uomo sull’uomo.

L’adesione sostanziale alla Legge consente ai lupi di chiamarsi con orgoglio “Popolo libero”, laddove il Bandar-Log (popolo delle scimmie), dal canto suo, è definito “senza legge” (7).

Questo è allora il senso dell’esemplarità del lupo: Mowgli, per divenire ciò che è, dovrà accogliere la Legge della Giungla; solo così ne diventerà “signore”, compiendo il suo “ritorno all’uomo” – trascendendo, insomma, tanto il lupo quanto la scimmia.

La figura del lupo sovrano, per come emerge dalla vicenda di Mowgli, sembra così emanciparsi dalle caratteristiche tiranniche ed inquietanti che avevamo evocato sulla scorta di Agamben. Come spiegarsi quest’aporia? Perché la figura del lupo che veniva delineandosi a partire dal concetto di werwolf stride con quella portatrice di giustizia che assume nel racconto di Kipling?

Nel suo Il lupo e il filosofo (8), Mark Rowlands propone un’altra metafora, secondo la quale scimmia e lupo, già antitetici in Kipling, possono essere pensati anche come metafore di tendenze comuni del genere umano, di cui quella predominante è la scimmia, ovvero la disposizione a concepire il mondo in termini esclusivamente strumentali. Questa analogia viene posta in opera in ragione della stretta parentela tra le strutture cerebrali e comportamentali di scimmie e uomini, ampiamente documentata dalla letteratura scientifica ed abbondantemente argomentata dal filosofo gallese. Gli studi di etologia dimostrano come nelle scimmie si sia per la prima volta manifestato nel mondo animale lo spazio per l’inganno e la frode – e naturalmente, a contraltare, la moralità –, comportamenti che assumono un ruolo di prima grandezza nelle “società” scimmiesche. L’intelligenza analitica della scimmia, potremmo dire, è stata acquistata, in termini evolutivi, allo scopo di divenire sempre più abili nel complotto.

Per quanto riguarda il lupo, invece, Rowlands ricostruisce altri significati ancestralmente legati ad esso, in particolare la connessione etimologica tra le parole greche lykos (lupo) e leykos (bianco, splendente), peraltro spesso utilizzate assieme. Secondo alcuni, il nome del lupo sarebbe da associare all’abitudine di questo animale di cacciare alle prime luci dell’alba; inoltre, sempre nel mondo greco, è uno degli animali di Apollo, dio solare per eccellenza. Forte della sua pluriennale convivenza con il lupo Brenin, Rowlands trova in queste creature un emblema di coraggio e resistenza al male inassociabile alle scimmie: il discrimine tra le due creature è fondato su quello che viene chiamato test di Kundera, il cui risultato dà luogo, come già in Kipling, ad “etiche” naturalmente opposte.

Ne L’insostenibile leggerezza dell’essere Milan Kundera suggerisce che la capacità di moralità possa essere misurata sulla base di come ci si rapporta nei confronti di chi è privo di forza; gli animali sono i candidati ideali a rappresentare l’impotenza. Come si può dedurre facilmente, quella scimmia che è l’uomo non esce benissimo dal test, mostrandosi anzi come una specie che scientemente crea la debolezza negli altri, perfezionando la crudeltà naturale in vista della strumentalizzazione sistematica (definita “arte della scimmia”): la domesticazione e la sperimentazione animale dimostrano sufficientemente questa tesi.

Il punto, argomenta Rowlands, è che le scimmie sono quegli animali che, creando la debolezza, la generano anche in se stesse, dando così origine alla possibilità del male morale: “L’idea che il male sia una condizione patologica o il risultato di un malessere sociale è in definitiva una conseguenza del fatto che abbiamo progettato in noi stessi quell’impotenza che abbiamo accuratamente costruito in altri” (9). Dal canto suo, il lupo supera con facilità il test. Se nel corso della sua esistenza accade a Brenin di aggredire degli animali, essi sono sempre considerati come potenziali minacce o, quantomeno, avversari alla pari, come cani altrettanto grandi ed aggressivi. Il lupo mostra verso creature palesemente più deboli un rispetto che sfiora la gentilezza; di contro, l’aggressività compare solo nel caso in cui sia realmente necessaria. L’“arte del lupo” è definita di conseguenza come la forza di non cedere al male morale.

Per questo possiamo dire, sulla scorta del pensiero di Rowlands, che ravvisare nel lupo le caratteristiche del Leviatano hobbesiano è una colossale mistificazione posta in essere da quella “scimmia” che risiede in noi, al fine di mascherare la propria malignità proiettando fuori di sé i suoi aspetti tirannici più odiosi.

Permane dunque la struttura feroce della sovranità descritta da Agamben, ma dobbiamo supporre che, nel cuore del Leviatano, non ci sia già un lupo mannaro, ma una scimmia crudele e senza legge.

 

(1) Aa.Vv., Il libro dei simboli, Taschen, Köln 2011, p. 274.

(2) G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005. Cfr. in particolare il capitolo Il bando e il lupo.

(3) E. Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano 2009, p. 33.

(4) Questa è, sommariamente, la tesi di F. Colombo, E. Calvo, La Giungla. Un ambiente educativo per i bambini, Nuova Fiordaliso, Roma 2007, probabilmente la migliore guida all’utilizzo pedagogico dei Racconti di Mowgli.

(5) R. Kipling, I racconti di Mowgli, Fiordaliso, Roma 2006, p. 72.

(6) Cfr. l’Introduzione di O. Fatica a R. Kipling, I libri della Giungla e altri racconti di animali, Einaudi, Torino 2000, pp. XIII-XIV.

(7) R. Kipling, I racconti di Mowgli, cit., pp. 36-37.

(8) M. Rowlands, Il lupo e il filosofo, Mondadori, Milano 2011.

(9) Ivi, p. 101.

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