Da "Ultimo. La sfida" a "Rocco Schiavone". Michele Soavi e il piccolo schermo

Manlio Gomarasca
Michele Soavi n. 6/2018
Da

Dellamorte Dellamore (1994) era forse un progetto troppo grande. Troppo grande in tutti i sensi, sia a livello di budget che di ambizioni. Un horror che prendeva le distanze dall’horror per diventare altro. Un film di genere che non voleva fare il genere, ma che anzi mirava a fregiare il proprio regista – allo stesso modo di Tiziano Sclavi che aveva scritto il romanzo – della qualifica di autore. Diventare un autore del cinema di popolare… quasi un ossimoro: questo passava per la testa di Michele Soavi prima e dopo la realizzazione di Dellamorte Dellamore. A galvanizzarlo era stata anche la critica italiana (e internazionale) che, fin dall’esordio Deliria (1987), l’aveva coccolato, protetto e viziato come mai aveva fatto prima con i vari Bava, Fulci, Freda e persino Argento. Da subito Michele Soavi era stato salutato come l’enfant prodige del nuovo cinema italiano della paura, il futuro del cinema horror sul Tevere. A quel punto aveva dimenticato le proprie origini – Joe D’Amato e quel cinema che l’aveva svezzato – tenendo a mente altri modelli, forse Stanley Kubrick o, forse, solo il Terry Gilliam che gli aveva affidato la seconda unità di Le avventure del barone di Münchausen (1988). Fatto sta che dopo Dellamorte Dellamore tutto sembrò essersi fermato. Forse anche perché il film non ottenne il successo di pubblico sperato, considerate la popolarità del fumetto Dylan Dog, creato dallo stesso Sclavi, e la presenza di Rupert Everett, che aveva ispirato la fisionomia del personaggio. Per Soavi iniziò così un periodo di riflessione, durante il quale le voci – dei fan, della stampa, dei produttori, dello stesso regista – si rincorrevano annunciando i progetti più disparati: film da girarsi in America, un seguito di Dellamorte Dellamore, un giallo argentiano. Il problema, per lui, era nella difficoltà di scegliere, dopo un film “totalizzante” come Dellamorte Dellamore, il prodotto giusto per la consacrazione definitiva. Il giovane appassionato di film dell’orrore, cresciuto alla corte di Fulci e Massaccesi con il sogno di diventare l’aiuto regista del suo mito Dario Argento, si apprestava a compiere il passo definitivo, diventando mito egli stesso. Non sarebbe andata così.

 

Cinque anni dopo

1999. Michele Soavi era ancora lì che ci pensava. Pensava a quale film fare, ma nessuno, allora, gli offriva più film da fare. A tenerlo lontano dal set non erano state solo la débâcle economica di Dellamorte Dellamore o le sue incertezzeautoriali, ma anche alcuni scombussolamenti nella vita privata: relazioni burrascose e un figlio malato. Era arrivato per lui il momento di darsi da fare, recuperando il tempo perduto. Anche perché all’epoca aveva ben due famiglie da mantenere, presto salite a tre. Insomma, per Soavi era giunto il tempo del grande ritorno alla regia. Nell’attesa aveva deciso di cedere alle lusinghe della televisione. Su questo punto fu piuttosto chiaro fin dall’inizio: per lui la tv rappresentava quello che per Fulci erano stati i film di Franco e Ciccio, ovvero qualcosa da fare per motivi “alimentari”. Il che non significava realizzare prodotti scadenti… ma neanche infarcire gli stessi di pretese e ambizioni prive di uno scopo. Non a caso il primo film per la tv che Michele Soavi accettò fu addirittura il sequel di un’altra miniserie diretta da Stefano Reali: Ultimo (1998), ispirata alle gesta del capitano dei carabinieri Sergio De Caprio, che arrestò il boss mafioso Totò Riina. A interpretarlo era un attore ben conosciuto dal pubblico (non solo tv) italiano, Raoul Bova, mentre Pietro Valsecchi, il produttore di Taodue, era uno che si apprestava a scalare i vertici delle produzioni fiction di Silvio Berlusconi. Insomma, quando Valsecchi propose a Soavi di girare il seguito di Ultimo, questi fu ben felice di accettare, pensando che sarebbe stata una parentesi gratificante a livello economico prima del grande ritorno al cinema. Ultimo. La sfida (1999), miniserie tv in due puntate per Canale 5, riproponeva bene o male gli stessi personaggi del precedente episodio, impegnati questa volta a sgominare un gigantesco traffico di droga organizzato dal nuovo boss dei boss. La mano di Soavi non fece la differenza, ma Ultimo. La sfida in televisione funzionò tanto quanto il suo predecessore, se non addirittura di più. Valsecchi era contento e credeva nel suo nuovo pupillo tanto da affidargli subito un progetto più ambizioso: Uno bianca (2001), con protagonista la promessa del nuovo cinema italiano impegnato Kim Rossi Stuart. Per Soavi sarebbe stata la vera prova del fuoco. Nel descrivere le gesta criminose della banda di poliziotti che per sette anni insanguinò le strade di mezza Italia, il regista pensò bene di calcare la mano su sparatorie e ammazzamenti, tanto da costringere l’annunciatrice a consigliare la visione della miniserie a un pubblico adulto. Non solo: Soavi sembrava aver trovato una maggior dimestichezza con la dilatata narrazione televisiva (sempre in due parti, per un totale di tre ore), smorzando i toni e calibrando bene i tempi tra una rapina e l’altra. Certo alcuni temi di fondo – come la vendetta personale per l’amico colpito a morte durante un agguato, l’ansia per l’arrivo di un figlio e le preoccupazioni della futura madre, l’ottusità e la strafottenza dei superiori, il «Se vi dovessero beccare o arrestare, io non vi conosco» – sapevano un po’ di obsoleto, ma la confezione generale del prodotto (scritto, tra gli altri, anche da quel Gigi Montefiori autore della sceneggiatura di Deliria) funzionava e convinceva più di quella di altri lavori analoghi. Rispetto all’Operazione Odissea (2000) di Claudio Fragasso, per esempio, Uno bianca non si lasciava influenzare dalle facili mode dell’epoca e non giocava a fare l’hongkonghese, nonostante qualche esplicito omaggio a John Woo, ma prediligeva un impianto narrativo basato più sulla tensione che sullo spettacolo fine a se stesso. Certo non mancavano situazioni forti, come quella del primo attentato sotto il cavalcavia, in cui il commissario Emilio Valli viene crivellato a morte, la rapina alla banca, con il direttore gambizzato da una raffica di mitra, e quella al supermercato, con il vecchietto paralitico che si piscia nei pantaloni, ma quello che più affascinava era il sapiente uso della suspense. Si poteva dire che la “buona scuola argentiana” aveva dato i propri frutti e, del resto, gli omaggi al Maestro certo non si elemosinavano, soprattutto nell’uso del Macro e dei primi piani (il caricamento del proiettile visto dall’interno della canna del fucile, marchio di fabbrica del film). Con Uno bianca Soavi riuscì così a confezionare un prodotto di una cattiveria formale – specialmente nella prima parte – che non si vedeva nella fiction italiana dai tempi delle prime stagioni di La piovra (1984-2001), e di un’eleganza stilistica solitamente preclusa al piccolo schermo. Il pubblico lo premiò con quasi dieci milioni di spettatori e uno share del 35%. Le cose cominciavano a farsi serie, tanto da spingerlo a raddoppiare presto (troppo presto), a soli due mesi di distanza, con un’altra fiction in due puntate prodotta da Valsecchi, Il testimone (2001), di nuovo con Raoul Bova e ispirata a un altro fatto di cronaca. Marco Basile (Bova), testimone oculare dell’omicidio di un commerciante coinvolto in un’associazione antimafia, è costretto insieme alla famiglia ad abbandonare lavoro, parenti, casa e identità per sfuggire alla cieca vendetta dei suoi aguzzini. La polizia lo chiama “programma di protezione dei testimoni”, ma per Marco si rivela un vero inferno. Quando si accorge che le istituzioni non possono garantirgli una nuova vita, decide di tornare alla terra natìa e combattere il nemico. Il testimone partiva bene, con una cruenta scena di morte in un’atmosfera notturna glaciale e inquietante. Soavi gioca ancora con il Macro e si arrischia a infilare la cinepresa all’interno di canne di pistola, cavi del telefono e terminali di computer, consolidando quella cifra stilistica che si portava dietro dai tempi della “chiave enorme” di Deliria. Tutto sembrava andare nella direzione di una nuova Uno bianca, ma dopo i primi venti minuti il film cominciò a sfaldarsi. Già alla fine della prima parte, Il testimone si trasformava in una versione tv eccessivamente dilatata del Testimone a rischio di Pasquale Pozzessere (1997), per finire in una variante buonista/utopistica di I cento passi di Marco Tullio Giordana (2000), che aveva in sé pure un qualcosa del già citato Operazione Odissea di Fragasso, con i cittadini che “tirano fuori i coglioni” e si ribellano alla mafia alla faccia dell’omertà… Insomma, un pasticciaccio che sprecava le tre ore a disposizione non sapendo più come riempire i vuoti di una sceneggiatura scarna e senza sostanza. Per Michele Soavi fu di certo un brusco arresto, dopo il successo, anche in termini di share, di Uno bianca. La colpa tuttavia non era sua, bensì del “sistema fiction” (sia Rai che Mediaset) italiano pre-Sky, che considerava i registi del tutto interscambiabili. Basti pensare che Stefano Reali, dopo aver diretto il primo Ultimo, era finito a girare un melodramma strappalacrime, Le ali della vita (2000), con Sabrina Ferilli in convento. È più o meno la stessa cosa capitata in quegli anni anche a Lamberto Bava, “costretto”, dopo tanto fantasy epico, ad accettare una storia di criminalità internazionale che non era proprio nelle sue corde: L’impero (2001). All’epoca non si era capito – o non si era voluto capire – che la fiction viveva soprattutto di generi e che era giusto che ogni genere avesse i suoi “maestri”, proprio come succedeva nel cinema popolare quando esso ancora esisteva. Guardando Il testimone è palpabile il disagio di Soavi, regista più d’azione che di narrazione, nel toccare la parte intimista del racconto, che gli scivola di mano mentre il film naufraga senza timone saldo nel banale e nel retorico. Ciononostante, Valsecchi pensò bene che anche il suo pupillo dovesse affrontare il genere più gettonato e seguito della televisione italiana di quegli anni: il “cristiano-cattolico”, costituito da biopic più o meno fedeli delle vite di frati, papi e santi di tutti i generi. A Soavi toccò quello di San Francesco d’Assisi, intitolato semplicemente Francesco (2002). Protagonista del super kolossal prodotto da Taodue con i soldi di Berlusconi – si parlava di oltre 6 milioni di euro – era ancora una volta Raoul Bova, deciso a continuare la tradizione dei San Francesco bellocci inaugurata da Liliana Cavani con Mickey Rourke. Se in Il testimone era palpabile il malessere di Soavi nell’indossare panni troppo stretti, in Francesco era buffo constatare come il suo sguardo cercasse sempre di rivolgersi altrove, per contaminare la vita del santo con elementi cari a un cinema che non gli apparteneva più, citando con fanciullesca ingenuità La chiesa (1989) – i cavalieri teutonici, le croci che cadono nel vuoto… – nel maldestro tentativo di formare un impossibile corpus unicum con le sue esperienze cinematografiche del passato. È come se, mentre si affidava a un genere che mai nella sua vita avrebbe pensato di dover affrontare – sicuramente non ci pensava ai tempi di Dellamorte Dellamore – avesse fatto di tutto per ricordare al mondo che una volta era stato un altro regista. Non a caso tra gli attori figurava anche quel David Brandon, scoperto da Joe D’Amato, che fu tra i protagonisti di Deliria. Trasmesso nell’ottobre del 2002, Francesco ottenne non solo un significativo consenso di pubblico, come era facile aspettarsi, ma anche i plausi del mondo cattolico, che furono subito sfruttati a livello pubblicitario mentre Soavi si prodigava in improbabili paragoni tra il proprio San Francesco e i “punkabbestia”. Il suo sogno era di tornare all’horror, o almeno al thriller, e Valsecchi lo volle assecondare offrendogli subito la regia di Ultima pallottola (2003), film tv ispirato alle sanguinarie gesta del killer seriale Donato Bilancia, responsabile tra l’ottobre del 1997 e il maggio del 1998 di almeno 17 omicidi di donne in quel di Genova. Questa volta Soavi si sarebbe potuto sbilanciare almeno un po’, ma non lo fece tanto quanto ci si sarebbe aspettati. In fondo, per l’industria audiovisiva italiana non era più l’erede di Dario Argento, amato dai fan e dalla critica, ma il regista del film sulla vita di San Francesco, ben visto dalla curia e dai movimenti politici che facevano la differenza. E così anche in Ultima pallottola Soavi guardava altrove – anche se questa volta più giustificatamente – ritagliandosi qualche momento stilistico plateale: le frenetiche carrellate, le riprese dall’alto e il montaggio sincopato di alcune delle sequenze di omicidio sui treni che sembravano strizzare l’occhio all’inizio di Nonhosonno di Dario Argento (2001), o l’insistita rappresentazione dei visi bendati “alla Magritte” che parevano un chiaro riferimento a La setta (1991) e, ancora, l’ostentazione visuale degli acquari che non potevano non riportare alla memoria Deliria. Cos’era, in definitiva, Ultima pallottola: una fiction citazionista che sottintendeva, nel gioco dei rimandi, la volontà di ammiccare a uno “spettatore ideale” presente solo nella fantasia di Soavi o l’espressione di una malinconica nostalgia per un passato che non sarebbe tornato mai più? Di fatto, quella televisiva si rivelò tutt’altro che una parentesi. Nel febbraio del 2004, Michele Soavi era ancora una volta in prima serata su Canale 5 con una nuova miniserie targata Taodue: Ultimo. L’infiltrato. Nel terzo capitolo della “fortunata” (in termini di ascolti) serie interpretata da Raoul Bova si arrivava a toccare il fondo, con il capitano dei Carabinieri che adottava un bambino boliviano rimasto orfano, sulla scia della becera tradizione della tv dei buoni sentimenti. Personaggi unidimensionali (i Buoni e i Cattivi, con Tony Sperandeo sempre nella parte del mafioso), figure stereotipate (dai gregari alla figlia del boss, bella, infelice e incapace di intendere il business di famiglia nonostante lo zio che gira per casa come uno sgherro di I Soprano) e una regia annoiata: a questo punto era chiaro che l’unico riscatto possibile sarebbe stato tornare al cinema con quel grande progetto che, a dire di Soavi, avrebbe stupito tutti.

 

Due anni dopo

 

Arrivederci amore, ciao (2006), film per il cinema tratto dal noto romanzo di Massimo Carlotto, avrebbe dovuto lasciare il pubblico italiano e internazionale a bocca aperta. In realtà lasciò a bocca aperta solo Michele Soavi e i suoi produttori. Non che il film fosse brutto… ma nessuno andò a vederlo. Pure i festival, da Cannes a Venezia, lo rifiutarono. Gli equilibri si erano drasticamente invertiti senza che Soavi stesso se ne fosse reso conto: non era più la giovane promessa del cinema italiano della paura prestata alla televisione, ma un regista televisivo buono per tutte le stagioni che faticava a trovare un nuovo posizionamento nell’industria cinematografica. Non restava altro che tornare, con la coda tra le gambe, alla corte di Pietro Valsecchi e girare un altro pseudo-poliziesco sociale dal titolo Attacco allo stato (2006). All’epoca, le due anime della Taodue si potevano esemplificare così: da una parte il biopic Paolo Borsellino di Gianluca Maria Tavarelli (2004), che pescava nella cronaca dei tempi, dall’altra la lunga serialità R.I.S. Delitti imperfetti (2005-2009), che scimmiottava i serial d’azione d’oltreoceano. Soavi si muoveva nel mezzo. Non faceva eccezione Attacco allo stato che, a partire da un’idea dello stesso Valsecchi, era stato sceneggiato dall’ex attore statunitense James Carrington, già responsabile del tv movie a tema mafioso L’attentatuni. Il grande attentato di Claudio Bonivento (2001). Il fatto di cronaca riguardava l’omicidio D’Antona, del 1999, a opera delle Brigate Rosse che, dopo undici anni di silenzio, erano tornate a rivendicare la lotta armata in Italia. Nelle oltre tre ore di fiction seguiamo le indagini del vice questore Diego Marra (Raoul Bova) che, pur non riuscendo a impedire l’uccisione di un’altra vittima illustre, Marco Biagi, “giustiziato” a Bologna mentre rientrava a casa, hanno portato il 20 dicembre del 2003 all’arresto di tutti i membri della banda. Soavi, inutile dirlo, aveva ormai dimestichezza con il mezzo, riuscendo a calibrare con gusto azione e suspense, ma, come sempre, c’era qualcosa che non convinceva del tutto. La responsabilità principale risiedeva in una sceneggiatura monocorde che si rintanava negli stereotipi abusati di un modo populista di intendere la fiction. Troppi tempi morti tra un attentato e l’altro, troppa attenzione alle dinamiche di caserma, troppa retorica nella beatificazione delle vittime e scarsa caratterizzazione dei personaggi. Che differenza c’era tra il vice questore Marra e un Ultimo qualsiasi? Nessuna. Che cosa c’era di diverso nello svolgimento di questa indagine rispetto alle tante viste in R.I.S.? Nessuna. C’erano il paladino della legge senza macchia e senza paura che, oltre la malavita, doveva combattere anche la burocrazia dell’Arma, e una squadra speciale a supporto composta, come sempre, da un timido da motivare, dall’amichetta del cuore che tradisce un’infatuazione mai risolta e dal compagno appuntato pronto a qualsiasi sacrificio. Di nuovi c’erano il comico Antonello Fassari, che si era scoperto a proprio agio nei panni del duro, e la timida Alina Nedelea di Arrivederci amore, ciao, entrata a far parte, come Barbara Cupisti prima di lei, della vita professionale e privata di un Soavi ormai persuaso a fare buon viso a cattivo gioco. Se il cinema gli aveva voltato le spalle allora tanto valeva impegnarsi nella tv. Il risultato fu Nassiryia. Per non dimenticare (2007), la migliore miniserie mai realizzata dai tempi di Uno bianca. La storia era ispirata all’attacco terroristico alla base militare Maestrale del contingente italiano stanziato a Nassiriya per la missione di pace Antica Babilonia che, il 12 novembre 2003, portò alla morte di 12 carabinieri, cinque militari e due civili, tra i quali l’aiuto regista di Ultimo mondo cannibale (1977), Stefano Rolla, che si stava documentando per un possibile film sulla guerra in Iraq. La fiction di oltre tre ore seguiva i giorni precedenti all’attentato, soffermandosi sulle vite e le sofferenze dei carabinieri italiani capitanati dal Maresciallo capo Stefano Carboni (sempre Bova), costretti in territorio nemico a prendere posizione nei confronti di una guerra che non li riguardava. Rispetto alle precedenti fiction si avvertiva il desiderio di riscatto di Soavi su un mezzo come quello televisivo che non lo metteva a proprio agio, attraverso la ricerca di un nuovo equilibrio. Nassiryia. Per non dimenticare presentava gli stessi difetti insanabili della stragrande maggioranza delle produzioni televisive italiane, ma allo stesso tempo inseguiva un modello stilistico che sembrava addirittura guardare alla sala. Si avvertiva, palese, il bisogno di afferrare un paio di forbici e intervenire sul montaggio, tagliare quanto di superfluo e inutile era stato inserito per riempire il vuoto dei tempi televisivi e riportare la narrazione a una dimensione più cinematografica di un’ora e mezzo. Ne sarebbe venuto fuori un bel prodotto e se anche l’approfondimento di certi personaggi ne avesse sofferto – addirittura, come nel caso dell’infermiera volontaria interpretata da Claudia Pandolfi, alcuni sarebbero addirittura scomparsi – il film ne avrebbe solo guadagnato. Peccato non l’abbia fatto nessuno. Nonostante questo, però, Nassiryia aveva destato finalmente l’attenzione di altri produttori e altre emittenti, tanto che nel 2008 Alessandro Fracassi e Rai Fiction ebbero la malaugurata idea di proporre a Soavi di lavorare a una trasposizione del dibattuto romanzo di Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, portandola addirittura al cinema.

 

Tre anni dopo

 

Il sangue dei vinti (2008) seguì lo stesso iter di Arrivederci amore, ciao, snobbato dai festival – a eccezione della Festa del Cinema di Roma, che lo recuperò dopo il no di Venezia – e dal pubblico. Questa volta gli incassi furono talmente irrisori da porre una pietra tombale sul futuro cinematografico di Soavi. Dalla sua si può dire che il film era solo “falsamente” cinematografico, dal momento che una versione in due parti era già pronta per passare in televisione nel dicembre del 2009. A conti fatti, però, si trattava di un chiaro passo indietro in una carriera che sembrava incapace di trovare un proprio percorso. L’allontanamento da Valsecchi costrinse Soavi ad accettare il confronto con la lunga serialità: La narcotici. Caccia al Re (2011), sei puntate di due ore ciascuna, scritte da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli e prodotte dalla Goodtime di Gabriella Buontempo e Massimo Martino, alle quali nel 2015 fecero seguito altri sei episodi per una seconda stagione intitolata La narcotici. Sfida al cielo. Per Soavi la serialità lunga si dimostrò ancora più difficile della miniserie. Comportava infatti il confronto con tempi di realizzazione più concitati e budget ridotti: un incubo per un perfezionista come lui, che tuttavia riuscì a salvare il salvabile grazie a una macchina da presa sempre mobile e attenta alla quota adrenalinica. L’esito disastroso si avvertì piuttosto nel dramma sociale (sempre in sei puntate) Questo è il mio paese (2015), con Violante Placido nei panni di una sindaca decisa a sgominare la malavita organizzata che imperversa nel suo paese natio sull’Aspromonte. La mediocrità del prodotto fece il pari con quella di Ultimo. L’occhio del falco, quarto e definitivo capitolo delle avventure del capitano, prodotto da Valsecchi nell’estate del 2011, poco prima della separazione consensuale da Soavi, ma trasmesso su Canale 5 solo nel gennaio del 2013. Non riuscì a decollare nemmeno Adriano Olivetti. La forza di un sogno (2013), biopic del noto imprenditore italiano che, però, per Soavi possedeva una peculiarità, almeno dal punto di vista personale… Adriano Olivetti era infatti il nonno del regista, in quanto padre di quella Lidia che sposò il poeta Giorgio Soavi, conosciuto quando lavorava alla rivista «Comunità» fondata dallo stesso Olivetti. Non solo, il papà di Michele Soavi dedicò all’inventore della più famosa macchina da scrivere italiana e del primo calcolatore elettronico al mondo un romanzo, Il conte (1983), e una biografia, Adriano Olivetti. Una sorpresa italiana (2001). Insomma, per Soavi Adriano Olivetti. La forza di un sogno era più un’occasione per confrontarsi con i fantasmi del proprio passato che non un investimento sul futuro da regista. E, nella trattazione narrativa di una verità storica annacquata dalla retorica della tv libera da prima serata, l’ex promessa della paura made in Italy mescolava un po’ di tutto: dal complotto internazionale alla ridondanza politica, fino all’ingenua citazione di quel L’isola dei morti di Arnold Böcklin che era già stato d’ispirazione per Dellamorte Dellamore.

A questo punto si era arrivati al paradosso. Il cinquantenne Michele Soavi, che il mondo dei fan del genere ancora celebrava per i film diretti in giovane età, si era scoperto ormai un vecchio regista di fiction, con una carriera televisiva di gran lunga superiore e più consistente rispetto a quella cinematografica. Se il suo nome continuava (e continua) a essere sinonimo di cinema della paura, sul piccolo schermo egli aveva finito per perdere completamente la propria identità e da regista di polizieschi e miniserie d’azione si era ritrovato a confrontarsi con prodotti anonimi, che poco o nulla avevano a che fare con il suo cinema e le sue passioni. Ma ormai l’ingranaggio non si poteva più fermare, così l’ultima fatica di Michele Soavi in tv sarebbe stata ancora all’insegna della lunga serialità: Rocco Schiavone, sei episodi per Rai2 basati sulle gesta del cinico commissario romano trasferito per cattiva condotta ad Aosta, creato dalla penna di Antonio Manzini e interpretato da Marco Giallini. Una serie gialla, sicuramente riuscita e brillante, come sulla tv pubblica non se ne vedevano da parecchio tempo.

In qualche modo la chiusura di un cerchio e forse, adesso, è arrivato il momento di riprendere quella carriera nel cinema fantastico così bruscamente interrotta oltre un ventennio fa.

Il titolo c’è già, The Place, e chissà che un giorno…

 

 

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