Manetti Bros., splendore rock. Una carriera anticonformista

Mauro Gervasini
Manetti Bros. n. 14/2022

Marco e Antonio, i Manetti Bros., cineasti. In Italia come loro non ce ne sono e non ce ne sono mai stati. Muovono da una cinefilia rock’n’roll, anti-neorealista e post-ideologica per realizzare film e telefilm all’insegna della contaminazione. Irrompono a metà degli anni Novanta del secolo scorso, in un momento di particolare fermento per la cultura italiana, soprattutto letteraria. Il loro esordio è con l’episodio Consegna a domicilio del film collettivo De Generazione (1994), distribuito nel 1995 a livello indipendente. Un’operazione un po’ dimenticata ma interessante, ispirata a un horror francese di qualche anno prima, Adrénaline (1990), sempre di autori vari tutti sui 30 anni. De Generazione non ha l’impatto sperato, forse i toni fanta-horror-grotteschi non sono quelli più amati dal pubblico generico italiano – e non solo negli anni Novanta – ma i Manetti Bros. si fanno notare con uno tra gli episodi più gore e divertenti, la storia di un fattorino deforme che consegna fuori orario una cassapanca a casa di una giovane coppia, Nicola e Francesca. Il ragazzo, interpretato da Alberto Rossi (poi volto noto della soap opera Un posto al sole), scambia l’addetto per un aggressore e lo colpisce con una mezzaluna da cucina chiudendolo poi nella cassapanca, in attesa del rientro di Francesca. L’epilogo non è esattamente alla Hitchcock, ma appunto alla Manetti (il fattorino viene finito a colpi di fucile). De Generazione sta al cinema come il quasi coevo Gioventù cannibale alla letteratura. Parliamo della raccolta di racconti curata da Daniele Brolli per Einaudi che intercettava scrittori più o meno giovani e li metteva alla prova con il genere fanta-noir grottesco, una novità praticamente assoluta in Italia. Alcuni di quegli scrittori – Niccolò Ammaniti, Daniele Luttazzi, Aldo Nove, Andrea G. Pinketts – hanno poi avuto carriere importanti, e anche alcuni registi di De Generazione – come Alberto Taraglio (co-sceneggiatore di Hammamet [2020] e di altri film di Gianni Amelio), Alex Infascelli e il documentarista Andrea Prandstraller (che firma l’episodio migliore insieme a quello dei Manetti: India 21 con Giorgio Tirabassi), oltre a Marco e Antonio e a un paio di figli d’arte (Asia Argento, Pier Giorgio Bellocchio) – sono stati lanciati dal film “cannibale”. Rivisto oggi, De Generazione appare forse ingenuo e ambizioso, discontinuo e qualitativamente disomogeneo, ma per l’epoca fu un sassolino nello stagno di un cinema italiano in piena sindrome da “camera e cucina”, con quelle storie ombelicali, borghesi e psicoaffettive fatte di poco o nulla a (non) fare da contraltare a un mainstream che si dibatteva tra commediacce regine d’incasso e qualche malincomico fuori tempo massimo. Fantascienza, horror e noir non erano contemplati dalle produzioni principali e i Manetti Bros. saranno, da quel momento, la felice eccezione che conferma la regola.
Ma il primo lungometraggio, Torino Boys (1997), non è a dire il vero all’insegna del genere (per lo meno dei fantageneri). Racconta infatti del viaggio a Roma di tre ragazzi nigeriani residenti a Torino per vedere la partita di calcio Roma-Monaco, perché nella squadra del principato gioca un loro amico (e uno di loro ha una fidanzata nella capitale). Il film, prodotto da Pier Giorgio Bellocchio per la Rai, viene presentato in concorso al Torino Film Festival (che all’epoca, con la direzione di Alberto Barbera, si chiamava Festival Internazionale Cinema Giovani), dove riceve la menzione della giuria. Torino Boys è fondamentale per la colonna sonora. Marco e Antonio riescono a raccogliere intorno al progetto i principali esponenti dell’hip hop italiano, in ascesa negli anni Novanta, oltre a fare firmare parte della soundtrack a Neffa. E quindi i varesini Otierre, i bolognesi Sangue misto (con lo stesso Neffa), i torinesi Africa Unite (allora attivissimi nel dub), oltre ai migliori nomi della scena romana: Piotta, Colle der Fomento, Flaminio Maphia. I Manetti diventano i registi di riferimento di questa proposta musicale, soprattutto dei rapper romani. Dirigono quattro videoclip di Piotta – tra i quali il celeberrimo Supercafone, con Valerio Mastandrea – sei dei Flaminio Maphia e tre degli Assalti Frontali. Nasce in questo contesto Zora la vampira (2000), prodotto da Cecchi Gori insieme a Carlo Verdone (anche tra gli interpreti: è il commissario coatto con stivale a punta), una pellicola che avrebbe dovuto spostare il baricentro della commedia italiana verso territori inesplorati, contaminati (con horror e poliziottesco) e radicali (per la posizione centrosocialista di fondo). Scritto dagli stessi Manetti e ispirato al leggendario fumetto porno omonimo della Edifumetto di Renzo Barbieri, che tra gli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta fece lievitare i fatturati di tanti parrucchieri, il film racconta del più celebre dei vampiri, Dracula, interpretato da Toni Bertorelli, che arriva in Italia attratto dai nostri programmi tv (come gli albanesi di Lamerica di Amelio [1994]; la trasmissione-sirena, in questo caso, è Carràmba! Che sorpresa). Trova però una situazione devastante: il suo servitore è bloccato perché senza permesso di soggiorno, Roma è in piena crisi abitativa ma anche percorsa da un clamoroso fermento underground di cui è “regina” la writer Zora interpretata da Micaela Ramazzotti (coatta pure lei: il vampiro naturalmente si innamora, la seduce a modo suo e lei gli dice: «De me nun te liberi tanto facirmente!»). Soprattutto per la presenza importante di Verdone, Zora la vampira voleva giocare a testa alta nel campionato delle uscite cinematografiche italiane, ma il risultato al botteghino fu deludente. Visto oggi ha una sua vitalità e affronta con profetica determinazione il tema dei migranti, benché in chiave ironica e talvolta didascalica. Si pone all’inizio del nuovo millennio come progetto originale, storicamente importante per la scena che riesce a raccontare; soprattutto segna l’inizio del metodo Manetti al quale si è accennato: vi sono una forte contaminazione tra linguaggi non solo eterogenei, ma anche del tutto estranei al cinema, come quello dell’hip hop (cosa mai tentata in Italia fino a quel momento), e un ricorso ai riferimenti cinefili di secondo livello, come per esempio il rimando al classico blaxploitation Blacula di William Crain [1972], e di primo con le font dei titoli (anche dei videoclip) simili, se non uguali, a quelle dei polizi(ott)eschi e delle commedie sexy anni Settanta.
L’insuccesso di Zora la vampira pesa. Bisogna aspettare un lustro perché i Manetti Bros. riescano a tornare al grande schermo, con Piano 17 (2005). Nel frattempo continuano a realizzare videoclip, tra i quali Bella vera e La lunga estate caldissima degli 883, girati a Los Angeles (la collaborazione con Max Pezzali continuerà anche per la sua carriera solista). Ci interessa il cinema però, e Piano 17 è decisamente una ripartenza per i fratelli romani, anche se faticosa a causa dell’esiguità del budget (si parlerà non a caso di miracle budget, soldi recuperati miracolosamente dato il disinteresse delle produzioni mainstream). È però necessario fare un passo indietro per capire dove e come collocare il film, realizzato quando i Manetti Bros. avevano già girato gli episodi della prima stagione di L’ispettore Coliandro, trasmessa su Rai2 nel 2006 (quindi un anno dopo l’uscita in sala di Piano 17). Da qui il coinvolgimento del protagonista Giampaolo Morelli, che oltretutto firma con Marco e Antonio la sceneggiatura, e di Enrico Silvestrin, già vice di Coliandro. Lo sbirro della questura di Bologna è stato creato da Carlo Lucarelli nel 1991, protagonista di un racconto intitolato Nikita. Due anni dopo, il suo esordio nel romanzo con Falange armata, pubblicato da un editore bolognese e poi riproposto nel 2002 da Einaudi Stile Libero. Ci sono differenze tra personaggio letterario (di origine salentina) e televisivo (Morelli è inequivocabilmente napoletano), ma non nella scorrettezza politica comune a entrambi. Il sessismo, il machismo esasperato, persino il razzismo non sempre trattenuto dagli obblighi formali del ruolo ne fanno una figura originale per il piccolo schermo, dove infatti ha incontrato qualche intoppo censorio. I Manetti e Morelli – rispetto a Lucarelli – si sono ispirati anche a Nico Giraldi, l’ispettore coatto interpretato da Tomas Milian nel ciclo di film diretti da Bruno Corbucci inaugurato da Squadra antiscippo (1976).
Piano 17 è la sintesi degli immaginari che ispirano L’ispettore Coliandro. Recensendolo ai tempi dell’uscita in sala lo definii «noiresco», un misto tra poliziottesco, noir mediterraneo – tendenza di genere di cui si parlava nei salotti buoni della cinefilia (senza averla realmente frequentata) – e anima cafona cara ai Bros. Intanto, grazie al successo di Coliandro, inizia un periodo di intensa attività televisiva, ma nel 2011 Marco e Antonio tornano a sorprendere con un gioiello di fantascienza intitolato L’arrivo di Wang, storia di una giovane sinologa incaricata da un risoluto funzionario dello Stato (interpretato da Ennio Fantastichini) di tradurre quel che dice un “ospite” rinchiuso in un seminterrato al quale può accedere solo bendata. L’interlocutore è al buio e viene interrogato con brutalità, mentre l’interprete si rende conto che non arriva esattamente dalla Cina. Realizzato in modo autarchico, con un sacco di energia ed effetti speciali digitali credibilissimi nella resa del “coso” venuto da un altro pianeta, il film ha un twist geniale nel finale e oggi sembra ancora più bello per la presenza di Fantastichini, che peraltro era un grande esperto di fantascienza (aveva fondato una società dal nome inequivocabile: Klaatu Productions). A stretto giro di posta (2012), un’altra produzione di genere, questa volta horror-thriller: Paura 3D (perché girato appunto in 3D). Peppe Servillo è un truce marchese che nella sua villa romana cattura e sevizia giovani donne e malcapitati ragazzi. Molto splatter ed efficace nella tenitura della suspense, la pellicola è la prima collaborazione tra i Manetti e il musicista degli Avion Travel, anche bravo attore come dimostrerà ulteriormente nel titolo successivo di Marco e Antonio.
Con Song’e Napule (2013) comincia una nuova fase. Prima di tutto dopo Torino, Bologna (dove è stato anche girata parte di Diabolik [2020]) e ovviamente Roma i cineasti scoprono Napoli, che imparano a conoscere e amare grazie a un Virgilio d’eccezione, Giampaolo Morelli (autore del soggetto, nonché protagonista nei panni del cantante neomelodico Lollo Love). Poi gli immaginari pregressi (qui di nuovo predominante il poliziesco) si contaminano con il musical, in questo caso basato sulle canzoni partenopee, alcune delle quali originali (quelle di Lollo Love sono firmate da Peppe Servillo e prodotte da Fausto Mesolella). Ma Song’e Napule segna soprattutto l’incontro tra i Manetti e Serena Rossi, attrice e cantante bravissima che sarà poi fondamentale per il successo del loro capolavoro Ammore e malavita (2017).
Presentato in concorso alla 74ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, vincitore di cinque David di Donatello tra i quali quello per il miglior film, Ammore e malavita è una sceneggiata ma anche una commedia di camorra (eccellenti il boss Carlo Buccirosso e la sua dark lady Claudia Gerini), una specie di Bond movie (spunto dichiarato è Agente 007. Si vive solo due volte [1967]) e poi un musical. Il tutto con l’impronta dei Manetti Bros., aiutati in sede creativa dalle coreografie di Luca Tommassini, in perfetto equilibrio tra la colonna sonora dei genovesi Pivio e Aldo De Scalzi e le canzoni napoletane nelle cui esecuzioni sono coinvolti anche gli attori, i principali come Serena Rossi e Morelli e ovviamente le “spalle” dalla solida carriera musicale come il mitico Raiz degli Almamegretta, assai azzeccato nei panni del gangster. Il film è ricco di invenzioni irresistibili, su tutte il numero musicale a Scampia e quello tra le corsie dell’ospedale stile Flashdance [1983]. Nella sua complessità e ricchezza, Ammore e malavita rappresenta davvero l’apice del percorso artistico di Marco e Antonio, la sintesi delle loro passioni rielaborate con sapienza senza rinunciare al tipico gusto per l’eccesso, contro ogni misura a partire dalla durata (quella definitiva è di 130 minuti, ma un primo cut raggiungeva quasi le tre ore).
Questo andare sempre oltre le buone maniere cinematografiche resta il marchio di fabbrica (nonché il bello) delle opera manettiane, sebbene il successo di Ammore e malavita, la partecipazione alla Mostra di Venezia nel concorso principale e il trionfo ai David abbiano reso improvvisamente il duo alla portata di tutti, anche dei critici che fino a quel momento avevano trattato il loro de-genere con una certa sufficienza. Ma non sono cambiati né Marco e Antonio né il cinema che fanno, erano semplicemente troppo avanti prima. C’è voluto un po’ perché tanti se ne accorgessero.

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