"L’arrivo di Wang". Il gemello di Zora

Federico Frusciante
Manetti Bros. n. 14/2022

La fantascienza è un genere storicamente poco frequentato dal cinema italiano, che tuttavia ne ha fornito alcuni grandi esempi: i film di Antonio Margheriti degli anni Sessanta, il capolavoro del genio Mario Bava Terrore nello spazio (1965), La decima vittima del dimenticato Elio Petri (1965) e qualche pellicola post-Guerre stellari (1977) come il trash-cult Scontri stellari oltre la terza dimensione (1978) di Lewis Coates (alias Luigi Cozzi, grandissimo esperto in materia).
Negli ultimi decenni, eccezion fatta per qualche raro caso indipendente o per il bellissimo – e ingiustamente maltrattato – Nirvana di Gabriele Salvatores (1997), la sci-fi nostrana è come andata il letargo, anche per mancanza di autori e produttori intenzionati a investire in progetti che sulla carta abbisognerebbero di budget elevati per stare al passo con i gigantismi dei blockbuster, statunitensi e non.
Fanno eccezione i Manetti Bros., che nel 2011 presentano alla Mostra del Cinema di Venezia – nella sezione Controcampo – L’arrivo di Wang, premiato al Trieste Science+Fiction Festival dello stesso anno, che sin dalla sua uscita provoca differenti reazioni tra la critica e viene purtroppo snobbato dal pubblico. Un vero peccato, dato che il film scritto, prodotto (assieme alla Dania film di Luciano Martino) e naturalmente diretto dai due è un vero esempio di cinema fantascientifico intrigante e con chiavi di lettura socio-politiche non scontate e per niente accomodanti – nonostante sulla lunga distanza l’idea di partenza possa sembrare eccessivamente diluita.
La trama è semplice ed efficace. L’interprete di cinese Gaia Aloisi viene condotta urgentemente a Roma, in un luogo sotterraneo, da un uomo misterioso chiamato Curti. Al suo arrivo è chiusa in una stanza completamente al buio per tradurre le parole di un uomo chiamato Wang, che si esprime soltanto in cinese. Dopo le prime domande, Gaia insiste per accendere la luce e, nonostante la reticenza iniziale, Curti accetta: si scopre che Wang è un alieno grigio e dotato di tentacoli. A questo punto l’interrogatorio diventa sempre più serrato, atto a capire cosa l’alieno sia venuto a cercare, cosa sia il piccolo oggetto al quale sembra tenere così tanto e, più in generale, quali siano le sue intenzioni.
Costata 200mila euro (con un incasso di soli 10mila) e ambientata per il 90% in una stanza  con tre personaggi in scena, l’opera si snoda mediante i costrutti del classico giallo con interrogatorio, dove tutto quel che sembra chiaro all’inizio viene ribaltato da un cinico finale.
Protagonisti un bravo Ennio Fantastichini nel ruolo – difficile e a tratti un po’ troppo “spinto” – dello spietato agente Curti e la giovane Francesca Cuttica (che lavorerà con i Manetti in Paura [2012]), che interpreta con forza e grande convinzione la giovane interprete. Sensibile e tollerante, quest’ultima è il contraltare di Curti, uomo di (non) poche parole e privo di scrupoli, specchio di un’Italia chiusa e incapace di dialogare con l’altro.
Il film si muove su due diversi binari: quello della sci-fi “alta”, dove si parla dell’umanità, delle contraddizioni che la innervano, del razzismo, della difficoltà di comunicazione, dell’immigrazione e di come venga percepita come un’invasione aliena (nel 2012, ma anche e soprattutto oggi); e quello del classico thriller a incastro, dove la sorpresa finale (invero alquanto telefonata) rivela un atto nichilista da parte dei registi che sembra quasi “usato” per colpire gli spettatori, più che per dare una necessaria morale alla storia.
Ma la pellicola funziona piuttosto bene, grazie agli effetti speciali economici ma mai “fuori” dalla storia, a una perfetta colonna sonora dei fratelli De Scalzi, a una fotografia che a tratti richiama il cinema classico degli anni Cinquanta e all’efficace umorismo nero che da sempre contraddistingue il cinema e la scrittura dei Manetti (pensiamo all’indimenticabile esordio Zora la vampira [2000], che volendo si può considerare gemello di questo Wang: lì si parlava di immigrazione attraverso la parodia del capolavoro letterario di Bram Stoker, qui mediante la classica invasione aliena, ma il risultato è lo stesso). È proprio il black humour a rendere più digeribile un epilogo che ha fatto parlare per la sua natura per niente compiacente e che, seppur efficace, risente di un certo “cattivismo” che stona, in un contesto anarchico come quello che i Bros. allestiscono in questo piccolo gioiello.
Certo non tutto fila per il verso giusto, e specialmente nella parte centrale l’opera soffre di fiato corto: la sceneggiatura a volte disperde le sue potenzialità in dialoghi sopra le righe, i tempi del montaggio non sono sempre impeccabili e l’insieme sembra più adatto a un medio che a un lungometraggio, ma al netto delle imperfezioni è impossibile non lodare i fratelli per una scelta produttiva così difficile e pericolosa per il nostro mercato che, come detto, non riesce più a percepire (ormai da decenni) il cinema di genere autoctono (che sia fantascienza o horror poco importa) come qualcosa di valido, da visionare senza pregiudizi.
Lo stesso, purtroppo, accade anche a L’arrivo di Wang, che forse non sarebbe andato così male ai botteghini se fosse uscito nel 2019, dopo il buon successo di Song’e Napule (2014) e Ammore e malavita (2017) e dopo la minuscola, recente rinascita del genere italico. Di fatto, però, il film non ha avuto nessun vero riscontro popolare – 10mila euro sono troppo pochi – stimolando al massimo una guerra tra critici, che hanno fatto a gara nell’esaltarlo o demolirlo solo per il discutibile (ma efficace) finale.
Tirando le somme ci si trova al cospetto di un’opera non sempre ben bilanciata, con momenti riusciti che si alternano ad altri troppo filo-televisivi, dove la voglia di grottesco destabilizza il racconto. Tuttavia, Wang resta un tassello importante per il nostro cinema di genere, che da piccole intuizioni e piccole produzioni come questa dovrebbe cercare di coltivare una vera e propria rinascita.
L’arrivo di Wang è un titolo minore, a volte scombinato, ma mette in mostra il talento dei fratelli romani nello sfruttare i generi, piegandoli alla loro visione, che fortunatamente non si rifà ai giocattoloni americani ma affonda le radici nel cinema di genere nostrano.

CAST & CREDITS
Regia: Manetti Bros.; soggetto: Manetti Bros.; sceneggiatura: Manetti Bros.; fotografia: Alessandro Chiodo; scenografia: Noemi Marchica; costumi: Patrizia Mazzon; montaggio: Federico Maria Maneschi (come Federico Maneschi); musiche: Pivio, Aldo De Scalzi; interpreti: Ennio Fantastichini (Curti), Francesca Cuttica (Gaia), Juliet Esey Joseph (Cynthia Amounike), Li Yong (Wang [voce]), Antonello Morroni (Max), Jader Giraldi (Falcio); produzione: Manetti Bros. Film; origine: Italia, 2011; durata: 80’; home video: Blu-ray inedito, dvd 01 Distribution; colonna sonora: I dischi dell’Espleta.

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