Fantascienza e postmodernità

Chiara Nejrotti
Lune d’Acciaio – I miti della fantascienza n. 9/2015
Fantascienza e postmodernità

Nel saggio Dalla fiaba alla fantascienza, Roger Caillois traccia una storia ideale del passaggio da un genere all’altro, sostenendo come dal fiabesco, discendente per filiazione da mito e saga, si sia passati al racconto fantastico dell’Ottocento, per giungere infine alla fantascienza. Tutti e tre i generi presentano infatti tematiche connesse all’immaginario, benché secondo modalità differenti. Se il soprannaturale e il meraviglioso compenetrano completamente l’universo della fiaba, tanto da presentarsi come del tutto plausibili nel mondo che ne è espressione, nel fantastico ottocentesco essi costituiscono una lacerazione della realtà razionale, l’unica ritenuta verosimile, risultando pertanto perturbanti. Sintesi di fantastico e razionalità scientifica, la fantascienza non può esistere che in epoca moderna; tuttavia, secondo Caillois, i tre generi sono accomunati dalla funzione di esprimere i desideri e le angosce dell’umanità, per come si manifestano nelle diverse epoche storiche. Da un lato, perciò, esprimono le nostalgie e i timori propri della condizione umana in quanto tale, mentre dall’altro mostrano come questi possano manifestarsi in modalità differenti a seconda del contesto storico e sociale. Se Frankenstein di Mary Shelley può essere considerato come il primo romanzo di “fantascienza” e H. G. Wells prefigura gran parte dei temi della narrativa fantascientifica, è tuttavia a partire dagli anni Venti del Novecento che assistiamo all’esplosione della SF, in un’epoca nella quale la ricerca scientifica supera continuamente se stessa, giungendo a risultati e scoperte sempre più distanti dalla coscienza comune. In questo periodo si aprono nuovi orizzonti sulla struttura della realtà – dalla fisica quantistica alle geometrie non euclidee – e il sapere scientifico comincia a orientarsi in senso relativista, perdendo la pretesa di poter giungere a certezze assolute.

È la stessa ricerca ad aprire nuovi spazi al regno della possibilità, cui si affianca quello della fantasia, che riafferma i propri diritti. La letteratura fantascientifica si configura perciò come un’esaltazione del mito moderno del sapere scientifico e tecnologico, cosciente, tuttavia, dello spalancarsi di scenari inediti che l’immaginazione può esplorare. Scrive Caillois: «Lo sconvolgimento dei concetti che sembravano più evidenti, cioè spazio, tempo e causalità, lungi dal rassicurare e affermare la coerenza auspicata, spaventa e sconcerta, sovverte le categorie fondamentali, obbliga, in nome di un maggior rigore, a un implacabile, esasperato sforzo d’immaginazione. La scienza diventa allora, per la fatalità del suo sviluppo come per le sue conseguenze, oggetto di timore e di panico» (1).

Nello stesso periodo comincia a estendersi la consapevolezza dei rischi che lo sviluppo tecnologico comporta: l’arrogante ottimismo di fine Ottocento viene spazzato via nelle trincee della Grande Guerra e il problema della tecnica, unito alla disumanizzazione propria della società di massa, diventa centrale nella riflessione filosofica e sociologica europea. Entriamo così in quella che è stata definita postmodernità, in cui a venir meno è la nozione ingenua di progresso. Nella filosofia della prima metà del Novecento assistiamo a una decostruzione del concetto di tempo lineare ed evolutivo. Secondo il filosofo Ernst Bloch, ad esempio, non esiste una “storia” unitaria, bensì un insieme di “storie”, tutte ugualmente dotate di validità; il tempo non si configura più come linea unitaria ma come multiversum, polifonia di voci.

Se non esiste una corrente ascendente nella storia dell’umanità, in cui ogni momento e avvenimento si giustificano in quanto necessari ai successivi, anche lo sviluppo tecnico, portato alle sue estreme conseguenze, si svuota del proprio valore emancipativo: non esiste più un benessere finale cui tendere ma sorgono sempre nuove problematiche rispetto alla liceità della ricerca e dell’applicazione tecnologica all’esistenza umana, come dimostrano quelle sempre più frequenti e urgenti questioni di bioetica che caratterizzano la nostra era.

Secondo il sociologo Arnold Gehlen, il progresso è ormai divenuto routine: la capacità di disporre tecnicamente della natura ha raggiunto livelli tali che alla crescente accelerazione dello sviluppo corrispondono risultati sempre meno innovativi e rivoluzionari. Il continuo rinnovamento richiesto dalla società dei consumi è fisiologicamente necessario alla pura e semplice sopravvivenza del sistema: «C’è una specie d’immobilità di fondo nel mondo tecnico, che gli scrittori di fantascienza hanno spesso rappresentato come la riduzione di ogni esperienza della realtà a una esperienza di immagini» (2). Il testo riportato è stato pubblicato nel 1985: se allora poteva costituire un invito a riflettere su una situazione agli albori, oggi descrive il mondo virtuale nel quale le nostre esistenze sono sempre più immerse. La fantascienza si è occupata di questa condizione di spaesamento: al desiderio – da sempre caratterizzante l’umanità – di uscire dal tempo storico, limitato e finito, si è accompagnata la consapevolezza di trovarsi di fronte a un mondo ben più complesso, multiforme e sfuggente di quello ritenuto comunemente possibile. Tempo e spazio assumono l’aspetto di costruzioni del pensiero e, come tali, possono essere modificati e trasformati. Nella pluralità dei mondi e mediante i paradossi temporali l’uomo si ritaglia nuove dimensioni, cerca nuove possibilità. Nella società multimediale, in cui fiction e realtà tendono a confondersi e la temporalità viene intesa come un insieme di linee, non necessariamente rette, tangenti o secanti, si aprono nuove dimensioni non soltanto per la speculazione filosofica ma anche per l’esistenza stessa, di cui la letteratura fantascientifica costituisce forse l’interprete privilegiato.

Negli ultimi trent’anni, quest’ultima ha assunto caratteristiche differenti, in particolare con lo sviluppo del cyberpunk e di altri generi a esso in parte collegati, come lo steampunk. Le narrazioni si svolgono di solito in universi distopici, in cui piccoli gruppi di reietti tentano di ribellarsi al sistema, che, più che una vera e propria dittatura, è spesso l’espressione della corruzione e del disfacimento della società condotti all’estremo. La linea che conduce al genere parte dalle antiutopie di Orwell e Huxley e si rifà soprattutto alle opere di Philip K. Dick, ma, come tutte le correnti letterarie e artistiche che possono essere inserite nel clima postmoderno, si caratterizza per la grande varietà di fonti da cui attinge. L’atteggiamento postmoderno guarda alla tradizione letteraria e artistica, infatti, come al “magazzino dei costumi teatrali” a cui Nietzsche paragonava la storia, uno spazio nel quale si mescolano esperienze e sopravvivenze diverse, cui è possibile attingere liberamente, realizzando continue ibridazioni.

L’elemento caratterizzante il cyberpunk è l’uso del cyberspazio, luogo privilegiato per uscire dai confini angusti e falsi del mondo apparente; una sorta di “viaggio al di là dello specchio” che permette di entrare in altre dimensioni. Vi sono in questo senso evidenti influssi della psichedelia, che, attraverso l’uso di droghe sintetiche, promette l’accesso a mondi fino ad allora relegati alla sfera dell’inconscio, ma anche a dimensioni trascendenti la psiche ordinaria.

Un altro tema centrale di questo genere è il rapporto tra corpo umano e tecnologia: componenti biologiche e parti meccaniche si compenetrano, diventando un tutt’uno. Se, da un lato, aumentano le capacità del soggetto, dall’altro si assottiglia sempre più il confine tra uomo e macchina. Il corpo cessa di essere qualcosa d’immutabile e naturale, per diventare un elemento modificabile e metamorfico. L’essere umano perde la propria connotazione di Homo Dei, per divenire sempre più simile agli oggetti inorganici che lo circondano, condizione che pone il problema di scoprire cosa lo distingua dall’intelligenza artificiale: il limen sembra essere costituito non tanto, e non solo, dalla capacità di consapevolezza cognitiva, quanto piuttosto da quella emotiva, ossia dalla capacità di amare, in una sorta di ricerca metafisica dell’anima che ricorda fiabe quali La sirenetta di Andersen e, al contempo, caratterizza personaggi quali il piccolo protagonista dello struggente A. I. di Spielberg, ma anche gli androidi di Blade runner.

Lo steampunk, invece, crea universi paralleli con caratteristiche simili al nostro del diciannovesimo secolo, nei quali la tecnologia delle macchine a vapore si è evoluta seguendo percorsi alternativi. La scelta dell’età vittoriana nasce dal sogno di un mondo in cui macchine fatte di rotelle e ingranaggi si possano ancora inventare e costruire in modo artigianale, secondo un’ottica che connette altresì le descrizioni dickensiane dei bassifondi londinesi alla situazione di crisi che la nostra società sta attraversando. Si torna a un’epoca aperta a molte possibilità, ma vi s’individuano analogie con il capitalismo sfrenato del mondo odierno, che pian piano erode le conquiste sociali, per tornare a una spregiudicatezza conosciuta soltanto ai suoi esordi. Lo steampunk ci rammenta che la fine dell’Ottocento è soltanto l’inizio di un percorso che non ha saputo correggere i propri limiti intrinseci: il nostro presente non ha superato gli incubi delle epoche precedenti, come la malattia e la miseria; negli ultimi due secoli sono stati soltanto spostati in luoghi più lontani e ora, nell’era della globalizzazione, stanno tornando anche nel nostro “primo mondo”, come in una sorta di circolo perverso. In tal modo si attua una critica radicale della modernità stessa, con la totale confutazione del mito del benessere insito nell’ideale del progresso. Mentre le distopie del Grande Fratello e del controllo totale sono sempre più reali e presenti, la via di fuga percorre passati alternativi in cui, forse, la rivolta appariva ancora possibile. L’elemento punk fa sì che ci si schieri dalla parte dei moti anarchici e di quegli esteti ribelli che trovavano nella Fata Verde l’accesso ad altre dimensioni.

L’età del positivismo è, paradossalmente, quella in cui si sono diffuse maggiormente le teorie occultistiche e lo spiritismo, e spesso razionalismo ed esoterismo si sono mescolati con l’idea di poter fornire fondamenti scientifici alle facoltà paranormali e medianiche. Si tratta di un aspetto che può aprire innumerevoli percorsi all’immaginazione – lo steampunk ne fa largo uso, attraverso la presenza di società segrete, in cui tecnologia e parapsicologia si compenetrano, e la predilezione di atmosfere gotiche.

Ancor più del cyberpunk, è lo steampunk a presentarsi come un genere ibrido: accanto a un filone più fantascientifico (con la connotazione paradossale, tuttavia, di svolgersi in una sorta di passato parallelo anziché nel futuro), ne troviamo uno che si avvicina al fantasy, poiché crea un mondo totalmente immaginario popolato da creature leggendarie, nel quale impera la tecnologia del diciannovesimo secolo, opportunamente modificata e spesso integrata con la magia.

Negli anni Novanta si è sviluppato un filone del fantastico caratterizzato proprio dalla volontà di mescolare fantasy, horror e fantascienza: le caratteristiche principali del new weird sono il concatenarsi di magia e tecnologia all’interno di mondi del tutto inventati e l’uso di creature e ambientazioni piene di elementi che generano un forte senso del meraviglioso, unito però a una cura rigorosa per la verosimiglianza e la coerenza dell’insieme. Anche in questo caso, si tratta perlopiù di universi distopici permeati da atmosfere oscure, a volte ciniche, spesso pessimiste, che non lasciano spazio alla consolazione e all’evasione, nelle quali vengono trattate tematiche socio-politiche e/o filosofiche.

La domanda conclusiva ci riporta alla questione principale: per quale motivo proprio ora si sente il bisogno di mescolare i tre generi dell’immaginario, senza rispettarne i confini? Non credo sia solo la volontà di uscire dagli schemi e creare qualcosa di diverso e nuovo, quanto piuttosto il bisogno profondo di ritrovare il senso del meraviglioso in un mondo disincantato e apparentemente privo di ogni magia, per aprire un varco verso altre dimensioni, seppur tramite strade che paiono più affini al comune sentire di un’epoca confusa e caotica come la nostra.

In Perdido Street Station di China Mieville, Isaac, scienziato strambo ma geniale, mostra un diagramma di forma triangolare che unisce tre elementi: a un vertice della base corrisponde l’aspetto materiale-fisico, all’altro quello sociale-umano, mentre il vertice superiore incarna l’Occulto. Se l’interazione tra l’elemento fisico e quello sociale è più evidente, anche il campo delle forze sovrannaturali è legato agli altri due, in quanto la magia viene intesa come manipolazione di particelle del tutto peculiari, ma pur sempre concretamente presenti nell’universo. L’idea di un’energia cosmica unica, agente sui piani fisici, psichici e spirituali, pare affascinare sempre più la nostra epoca. Secondo la fisica quantistica tutte le particelle possono trasformarsi in altre, essere create dall’energia e in essa annichilirsi. Lungi dall’essere ordinata, stabile e in equilibrio, la materia sembra ribollire e rimescolarsi disordinatamente, in una continua metamorfosi. La realtà parrebbe manifestarsi come una rete d’interconnessioni dinamiche nella quale, almeno secondo alcuni ricercatori, la consapevolezza potrebbe rivestire un ruolo fondamentale, quasi come se l’universo fosse portato all’esistenza dalla percezione di coloro che ne fanno parte. La realtà descritta dalla fisica quantistica appare strana, mistica, magica e incomprensibile. Morris Berman, uno dei principali autori a essersi occupato delle implicazioni filosofiche di questo nuovo punto di vista, ha intitolato la propria opera The Reenchantment of the World. In quest’universo, tutto è possibile: persino che il reincanto parta proprio da quelle situazioni apparentemente più impermeabili a esso, come il mondo urbano e industriale.

Un mescolamento analogo si manifesta infatti anche nel fenomeno dell’urban fantasy, in cui creature mitiche compaiono improvvisamente nel bel mezzo delle nostre città. In Pan, Francesco Dimitri immagina che oltre alle divinità antiche la stessa civiltà urbana produca nuovi spiriti: Velocità, Asfalto e Metropolitana diventano esseri senzienti che non esistono solo nella Carne, come oggetti inanimati, ma anche nel Sogno e nell’Incanto – basta imparare a riconoscerli e ascoltarne la voce.

Il bisogno di andare al di là dell’apparenza sensibile per accedere alla dimensione del sacro è talmente connaturato nell’uomo che anche in un’epoca di totale disincanto torna prepotentemente alla ribalta. Proprio un’età dominata dall’industria e dalla meccanizzazione come la fine dell’Ottocento vede destarsi una nuova creatività, la quale, secondo gli autori che si rifanno alle correnti esaminate, dà solo ora i suoi frutti.

Secondo James Hillman, seguace di Jung e fondatore della psicologia archetipica, gli dei non sono scomparsi, ma agiscono nel profondo della nostra psiche; nel postmoderno la ragione cartesiana viene scalzata dalla narrazione ed è proprio questo il luogo nel quale si manifesta l’anima e si può ascoltare nuovamente la voce degli archetipi; il fiorire di generi ibridi del fantastico, in quest’ottica, costituisce una prova della rimitizzazione del mondo.

 

  1. Roger Caillois, Dalla fiaba alla fantascienza, Theoria, Napoli 1985, pp. 50-51.
  2. Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, p. 15.

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