Dossier/2: Fantascienza e mitologia

Gianfranco de Turris & Sebastiano Fusco
Lune d’Acciaio – I miti della fantascienza n. 9/2015
Dossier/2: Fantascienza e mitologia

La critica letteraria «ufficiale» italiana ripete di frequente a orecchio l’affermazione di Orson Welles, secondo cui i racconti di fantascienza sarebbero «le fiabe del nostro tempo». Poiché è notissimo il rapporto tra fiaba e mito, potrebbe essere logico il sillogismo «Fantascienza = Fiaba; Fiaba = trasposizione del Mito; Fantascienza = Mito». Nel nostro Paese, di questa opinione è stato soprattutto Sergio Solmi, che sin dal lontano 1953, nel saggio Divagazioni sulla science fiction, l’utopia e il tempo, scriveva che una science fiction «bene intesa» avrebbe potuto assolvere sul piano letterario alla funzione di «reintegrare mito e favola al corpo della poesia e condurci, al di sopra dei ponti, dei corridoi e delle sentine, che vanno facendosi sempre più afosi e chiusi, degl’inferni realistici contemporanei, a “riveder le stelle”». Concetto poi ripreso nella prefazione alla ormai famosa antologia Le meraviglie del possibile (1958), che divulgò questo genere presso il grande pubblico (1). Sul valore escatologico della narrativa fantastica in qualità di veste moderna del mito abbiamo già avuto occasione di accennare (2). Vorremmo ora precisare brevemente le strutture entro le quali può fondarsi tale funzione.

Nella sua opera, davvero fondamentale, The hero with a thousand faces (1949), Joseph Campbell individua le quattro funzioni principali cui deve assolvere ogni mitologia (3): a) indurre un senso di stupore e venerazione; b) precisare e affermare una sistematizzazione dell’universo, cioè uno schema coerente in grado di spiegare il noto e l’ignoto dell’esistenza umana; c) sostenere di regola l’establishment sociale entro il quale opera: è questo, ad esempio, il senso dei miti che narrano le seduzioni operate da Zeus, nei quali è trasfigurato l’imporsi della religione virile degli Achei sulle divinità femminili dei Micenei conquistati; d) servire come puntello emotivo per aiutare l’individuo a superare le crisi inevitabili della vita: ad esempio, la transizione dall’infanzia all’età adulta, l’adattamento alle convenzioni sociali o la prospettiva inevitabile della morte.

Secondo un autore e critico specializzato, Ben Bova, direttore di «Analog» dopo la morte di John W. Campbell, la fantascienza, al meglio delle sue possibilità, assolve alle funzioni di una moderna mitologia, proprio in base allo schema ora presentato (4). «Di certo» scrive, «la science fiction favorisce l’instaurarsi di un “senso del meraviglioso” riguardante tanto l’universo fisico quanto l’universo privato dell’uomo». Circa la seconda funzione, Bova nota che la science fiction dipende fondamentalmente dalla visione scientifica moderna, per trarne la base di un ordine universale. Inoltre, anche se non tende a sostenere un preciso ordine sociale, in realtà appoggia quasi inevitabilmente la struttura essenziale della civiltà occidentale: cioè, il concetto secondo cui l’individuo vale più dell’organizzazione, quale che essa sia, giacché nulla è più importante della libertà umana. Quanto alla quarta condizione indicata da Campbell per individuare una mitologia, non sempre è possibile dire che la science fiction – o, in genere, la narrativa fantastica – abbia una funzione catartica nei momenti di crisi. Tuttavia, se questo può essere generalmente vero sul piano del singolo, a livello sociale ci sembra che il diffondersi attuale dei moduli dell’anti-realtà in tanti mass media possa venire interpretato come il tentativo di esorcizzare un mondo i cui connotati si fanno sempre meno a misura d’uomo, sempre più sgradevoli.

La fantascienza è dunque una moderna mitologia? In base a quanto detto, non sembrerebbe azzardato ipotizzarlo. Sempre Solmi confessa di non sentirsela di «opporre accigliati rifiuti all’idea di accogliere anche le più stravaganti volute dei sogni [della fantascienza] alla stregua di simboli, suggestivi e indicativi delle direzioni del tempo in cui viviamo» (5); e Furio Jesi, partendo da Omero, osserva che «il mythos è astuzia presente ed evocazione di avvenimenti trascorsi. Una particolare storicità consente – anzi, impone – il vincolo tra presente e passato. È la storicità paradossale delle culture in cui il passato anticipa, consacra e fa vero il presente. Quando simile temperie è perduta, solo il sopravvivere dell’esperienza creativa e della dimensione visionaria della mitologia permette di attribuire al mythos realtà efficiente, di là dai limiti e dalle angosciose ripugnanze della logica» (6).

Oltre al problema di un contenuto oggettivo anteriore al mito (che, peraltro, secondo Solmi e Jesi, intellettuali progressisti, non si pone), ne esiste dunque un altro, ben concreto, di un’azione dell’attività mitica all’interno del tessuto storico. Azione che, ovviamente, si deve estrinsecare in base a simboli coerenti con le forme assunte, d’epoca in epoca, dal divenire della storia e della cultura.

Mircea Eliade, storico delle religioni d’ispirazione tradizionalista, illustra questo concetto con una immagine inaspettata e paradossale. «Un mito» scrive, «è una storia vera che è avvenuta agli inizi del tempo e che serve da modello ai comportamenti degli uomini… Apparentemente, il mondo moderno non è ricco di miti… Ma si tratta di un malinteso… Fermiamoci alla struttura mitica del comunismo e al senso escatologico del suo successo popolare… È evidente che Marx riprende e prolunga uno dei grandi miti escatologici del mondo asiatico-mediterraneo, cioè la funzione redentrice del giusto (l’eletto, l’unto, l’innocente, il “messaggero”, oggi il proletario) le cui sofferenze hanno la missione di cambiare lo stato ontologico del mondo. Infatti, la società senza classi di Marx ha arricchito questo mito venerabile di tutta un’ideologia messianica giudeo-cristiana; da una parte, il ruolo profetico e la funzione soteriologica che egli attribuisce al proletariato; dall’altra, la lotta finale tra il Bene e il Male, che si può facilmente accostare al conflitto apocalittico tra Cristo e l’Anticristo, seguito dalla vittoria decisiva del primo. È anche significativo che Marx riprenda a suo modo la speranza escatologica giudeo-cristiana di una fine assoluta della storia» (7).

L’accostamento proposto da Eliade a qualcuno potrà sembrare provocatorio, ma a ben vedere è lo stesso ipotizzato da Solmi e Jesi: il mito, quale che ne sia l’origine, si colloca all’inizio della storia e, con i suoi simboli, propone modi di comportamento e rende evidenti spie che rivelano l’atteggiamento dominante nei singoli periodi storici. Per la corrente di pensiero «tradizionale», cui si rifà Eliade, esiste ab origine un fatto concreto, un evento oggettivo che è la sostanza del mito e finisce per imporre un modello di comportamento; viceversa, per la corrente di pensiero «progressista», cui appartengono Solmi e Jesi, la sostanza mitica non è rivelabile – quindi, non si può dire che esista – e il mito in se stesso non impone, bensì rivela un comportamento sociale che deriva da circostanze storiche ed economiche reali. Comunque sia, entrambe le correnti riconoscono che il rapporto tra mito e manifestazioni culturali è d’interdipendenza; un’interdipendenza che si estende a tutto l’arco della cultura. Quindi, anche alla narrativa.

In tal modo il cerchio si chiude, in quanto, fra tutti i rami della narrativa, quello che per sua natura è più sensibile alle suggestioni simboliche del mito (cioè, come diceva Platone, a «racconti intorno a dèi, esseri divini, eroi e discese nell’aldilà») (8) è ovviamente il fantastico, in senso lato: e, dunque, la fantascienza, che di questo, come ha ampiamente mostrato l’opera critica di Solmi, è una delle moderne trascrizioni.

Le considerazioni esposte spiegano – ci sembra – l’attrazione che il modello mitologico ha esercitato sulla science fiction. Un’attrazione che, come nota il critico belga Jacques van Herp, non può essere giustificata semplicemente parlando di un afflato poetico, in quanto è proprio l’esistenza di una mitologia sotterranea e nascosta a mettere in luce e coordinare le singole poetiche di cui è intessuta la fantascienza: la macchina, l’homo faber, l’ignoto da svelare e conquistare, e così via (9).

Analizzare minutamente la via che parte dalla leggenda e dal mito, passa per la fiaba, raggiunge la letteratura fantastica e quella fantascientifica richiederebbe una lunga analisi di tipo simbolico-mitologico, già accennata in precedenza e che rimandiamo in forma compiuta a un’altra occasione; così come saremo costretti a trattare in una successiva introduzione i parallelismi, dal punto di vista narrativo, tra mito e science fiction attraverso un’analisi di tipo strutturalistico.

Ora, però, vale la pena notare come gli autori specializzati si siano riferiti alla mitologia in due modi: creandone alcune ex novo, oppure, come avviene più spesso, riferendosi direttamente alle fonti leggendarie fornite dalle tradizioni epico-religiose di ogni cultura, lasciando per un momento da parte i camuffamenti con i quali «aggiornano» le loro narrazioni.

Nel primo caso, possiamo citare ovviamente H. P. Lovecraft e i seguaci della «mitologia di Cthulhu», Leigh Brackett con il suo Marte, Frank Herbert con il pianeta Dune, Anne McCaffrey con Pern. Rispetto al secondo, ricordiamo le numerose incursioni di Poul Anderson nei miti scandinavi, con La spada spezzata (The broken sword, 1971) e Hrolf Kraki’s saga (1973); di C. L. Moore in quelli greco-romani, con Shambleau (Shambeau, 1936); di James Blish nelle tradizioni occultiste, con Pasqua nera (Black Easter, 1968) e The Day After Judgement (1970); di Roger Zelazny nelle mitologie indiane, con Signore della luce (Creatures of light and darkness, 1969), e classiche, con Io, immortale (This immortal, 1966); di Jack Williamson nelle leggende balcaniche, con Il figlio della notte (Darker than you think, 1940); e persino di uno «scienziato» come Arthur Clarke nei miti della salvezza tipici delle religioni semitiche, con Le guide del tramonto (Childhood’s end, 1953).

 

Di tutti i romanzi di Abraham Merritt, il più carico di reminiscenze mitologiche – e, quindi, di simbolismi – è certo The Ship of Ishtar (1924), il cui impatto sui lettori è dimostrato dall’essere stato considerato, nel corso di un referendum del 1938, il miglior romanzo pubblicato da Argosy dall’epoca della sua fondazione (1888). Oggi ci sembra che l’opera di Merritt conservi ancora intatti il suo fascino e la sua freschezza, conseguenza della stessa matrice «mitica» – e quindi, per definizione, a-temporale – dei suoi motivi ispiratori.

Questa caratteristica della produzione complessiva dello scrittore americano, non lo si dimentichi, è anche all’origine di moltissime vocazioni letterarie (da Lovecraft a Ira Levin): il senso del meraviglioso che da essa promana, la costruzione di sempre nuovi universi alternativi alla realtà americana degli anni Venti e Trenta, la diretta contrapposizione tra un «mondo sciocco» (l’espressione è dello stesso Merritt) e altri, in cui il mistero, le passioni, l’avventura, l’esaltazione delle facoltà fisiche e intellettuali sono ancora possibili, rende stridente il contrasto con le narrazioni realistiche dello stesso periodo. Narrazioni nelle quali, viceversa, viene raffigurato un mondo da cui (come notano i personaggi di The Ship of Ishtar) è scomparso il «buon gusto», in cui nessuno fa più il «vichingo», in cui le contese sono divenute «troppo diverse» e in cui, infine, come nota Zubran il persiano, «i nuovi dei sembrano così sciocchi».

Fra i cinque romanzi dedicati da Merritt alle «civiltà parallele» (gli altri trattano dell’occulto nel mondo moderno), The Ship of Ishtar è il più radicalmente alternativo, per quanto riguarda l’universo nel quale è ambientato. Il mondo sui cui mari fosforescenti naviga il Vascello della dea babilonese non coesiste con la realtà che conosciamo. Non si trova in caverne sotterranee o sul fondo di vulcani spenti, tra le cime delle Ande o nelle desolazioni dell’Antartide. È un universo parallelo, segue una «linea storica alternativa» (per dirla alla Larry Niven), un tempo diverso da quello della civiltà occidentale del ventesimo secolo.

In più, come s’è detto, è un universo mitologico, retto quindi da criteri magico-simbolici. Di conseguenza (seguendo i concetti espressi per la prima volta da Roger Caillois vent’anni fa) in esso il fantastico è naturale, è nella logica delle cose e dei fatti. Non produce una frattura nella realtà comune, né irrompe creando terrore, angoscia o semplicemente stupefazione: al contrario, assume proprio i connotati dell’insolito, dell’anormale, di circostanza fuori della realtà.

È in questo universo magico-mitico che viene attratto l’archeologo John Kenton. Come? Col metodo, caratteristico di Merritt, cui si è accennato nell’introduzione al suo primo romanzo, presentato su «Futuro» (10): attraverso la potenza e la suggestione del simbolo. Abbiamo già avuto modo di spiegare altrove che il simbolo, in quanto tale, funge da ponte fra due realtà (11).

Nel Canto VI dell’Eneide, Enea, alla ricerca del ramo d’oro che gli consentirà di aprire le porte dell’Ade, viene aiutato da due colombe. Questi uccelli sono sacri alla dea Venere, ne sono il simbolo: proprio da tale segno l’eroe comprende di essere aiutato dalla sua genitrice divina. Fuor di metafora, si può dire che il simbolo è un «segno di guardia», che indica la via conducente dall’umano al divino e individua la strada dell’elevazione spirituale. In questo senso, il suo valore (come hanno riconosciuto mitografi e studiosi delle religioni) è pressoché universale. Parlando di Ishtar, che è in certa misura il corrispettivo di Venere nella mitologia babilonese, lo stesso Merritt le assegna come animali sacri le colombe, la cui apparizione annuncia la presenza operante della dea.

Questo riferimento vale anche a dimostrare come (non sappiamo se consapevolmente o meno) lo scrittore americano abbia impiegato il valore del simbolo nel senso additato dalle tradizioni mitico-religiose. In effetti, il più antico testo magico occidentale, la Tavola di Smeraldo, attribuito a Ermete Trismegisto, evidenzia il collegamento tra realtà umana e realtà superiore, microcosmo e macrocosmo: «Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e ciò che è in basso è come ciò che è in alto, a fare il miracolo di una Cosa Unica» (12).

In The Ship of Ishtar numerosi sono i riferimenti alle simbologie tradizionali. Vale la pena metterne in evidenza qualcun altro, pur senza sviscerarne per esteso tutti i significati. Nell’universo creato da Ishtar e Nergal, nel quale coesistono diverse mitologie, è possibile per esempio un tipo di amore magico, che trasforma e modifica l’uomo e la donna, risvegliando in essi qualcosa che non è soltanto passione dei sensi, elevando – seguendo determinati procedimenti – a uno status superiore, che permette di aprire dei centri occulti tramite i quali si percepisce una realtà diversa (13): «Le donne fanno dèi gli uomini e poi li amano. Ma nessuna donna ama un dio che non abbia reso tale lei stessa» fa dire Merritt alla danzatrice Narada. È una frase molto significativa, specie se collegata a una serie di simboli descritti in precedenza da Merritt. Nella passione di Zarpanit, sacerdotessa di Ishtar, signora della vita, e di Alusar, sacerdote di Nergal, signore della morte, lo scrittore americano ha senza dubbio voluto adombrare l’alchemica coincidentia oppositorum; il simbolo è ripreso e illustrato con chiarezza nella scena in cui i guerrieri di Nergal, usciti da bolle nere, e le donne, uscite da bolle splendenti salite tutte dagli abissi marini, s’incontrano e fondono davanti agli occhi attoniti dei passeggeri del fantastico vascello: «Le onde su cui correvano i guerrieri» scrive Merritt, «incontrarono le onde su cui stavano quelle donne meravigliose. Ed esse furono accolte fra le braccia rivestite di maglia metallica. Per un attimo le chiome brune e nere, argentee come la luna e dorate come il grano, turbinarono attorno agli usberghi d’ebano scarlatto. Poi, guerrieri e donne si fusero dietro la nave, si vanificarono nella sua scia luccicante, una scia che ondeggiava e sospirava come fosse l’anima di un mare amoroso». I simboli di Ishtar e Nergal, della Vita e della Morte, del Cielo e degli Inferi, del Femminile e del Maschile, si uniscono in una sola entità primordiale, originaria, secondo quanto narrano tutte le tradizioni antiche, d’Oriente e Occidente (14). Una Vita e una Morte che pervadono l’universo, come rivela la «Visione di Kenton» con immagini panteistiche. Se poi si considera che l’evento descritto si verifica su quello che Merritt definisce un «Mare mistico» – con tutto ciò che il mare raffigura simbolicamente, in senso sia psicologico sia «alchemico» – appare allora evidente che l’opera dell’autore americano (già lo facemmo notare nell’introduzione a Gli abitatori del miraggio) non può certo intendersi come semplicistica fuga dalla realtà. Se di una fuga si tratta, essa porta i suoi personaggi (e i lettori con essi) in una realtà senza dubbio più complessa e affascinante, profonda e viva della nostra. Risolvere i problemi che essa presenta significa del resto fortificarsi per affrontare gli ostacoli che ci crea il vivere quotidiano.

Ancora. Il mondo mitologico e magico-simbolico è anche il mondo del rito (non del vuoto ritualismo), la realtà da cui la divinità può discendere episodicamente in un involucro umano, in cui il sacerdote diventa tempio del dio e viene con ciò esaltato, trasformato, divenendo pontefice, «colui che getta i ponti», mediatore fra l’umano e il divino. Così Zarpanit e Alusar, prima, e Sharane e Klaneth, dopo, diventano veicoli delle divinità in lotta tra loro, cioè Ishtar e Nergal.

Rituale è la morte del persiano Zubran, non tanto per il lato esteriore, quanto per l’atteggiamento del personaggio di fronte alla fine che lo attende: «Non ho mai provato una simile sensazione di libertà» dice. «Ecco… sono solo… L’ultimo uomo al mondo. Nessuno può aiutarmi e consigliarmi, nessuno può annoiarmi…». Per Zubran la morte non è un viaggio nell’ignoto, ma semplicemente un ritorno: «Alla fine, come tutti gli uomini, torno agli dèi dei miei padri».

Allo stesso modo, può essere considerato un rituale, anzi, un iter iniziatico, l’ascesa del sacerdote Shalamu (e di Kenton con lui) attraverso le Sette Zone del Tempio di Bel in Emakthila. Il significato di tale ascesa è reso chiaramente da Merritt: il «desiderio dell’uomo» (in senso sia intellettuale sia fisico) prevale anche sugli dèi. Oltrepassando in progressione le case delle sette divinità, il «desiderio» di Shalamu non viene fermato dal «Padre degli Dèi», né dal «Re del Giudizio», dal «Signore dei Morti», dalla «Saggezza», dall’«Amore» o dalla «Potenza di Dio». Ma Shalamu, compiendo il suo iter come atto di ribellione, ottiene l’effetto contrario, cioè la morte, perché ha violato le regole imposte dalla sua stessa condizione sacerdotale.

L’immagine dominante del libro di Merritt, in cui è racchiusa più efficacemente la sua sensibilità nei confronti dell’universo mitico, è il Vascello di Ishtar, la mistica nave che trasporta al di là della condizione umana il suo carico d’immortali. Il Vascello e tutti i suoi significati sono racchiusi però anche nel suo simbolo, il gioiello d’avorio ed ebano donato a Kenton, l’archeologo. Basta contemplarlo per immergersi nell’altra realtà. In diverse approssimazioni, Merritt scrive: «Sotto di lui c’era il mare azzurro, sopra di lui la curva falcata della prua del Vascello di Ishtar. Ma non era più un ninnolo ingemmato, no. Era la nave incantata di cui quell’oggetto prezioso era il simbolo…» (cap. XI); «Kenton comprese che l’ombra era la nave vera: il gingillo poggiato sull’altare era il simbolo. E comprese che simbolo e realtà erano una cosa sola, legati da un’antica saggezza, creati da antichi poteri, in modo che il fato dell’uno fosse il fato dell’altro. Una duplice forma: un simbolo e una realtà. Eppure, erano la stessa cosa…» (cap. XXVIII); «La sorte del simbolo era quella della nave… e la sorte della nave era quella del simbolo…» (cap. XXXI). Parole che, come si è detto in precedenza, sembrano veramente adombrare nel giornalista-scrittore americano una conoscenza del valore effettivo del simbolo.

 

(introduzione a Il Vascello di Ishtar di Abraham Merritt, Fanucci, Roma 1978)

 

  1. Entrambi ripubblicati in Sergio Solmi, Saggi sul fantastico, Einaudi, Torino 1978.
  2. In particolare, nelle introduzioni a William Hope Hodgson, Naufragio nell’ignoto («Futuro», n. 6); Poul Anderson, La spada spezzata («Futuro», n. 22); Algernoon Blackwood, John Silence, investigatore dell’occulto («Futuro», n. 27).
  3. Cfr. Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli, Milano 1958.
  4. Ben Bova, The role of science fiction, in SF Today and Tomorrow, a cura di Reginald Bretnor, Harper & Row, New York 1974.
  5. Sergio Solmi, Prefazione a Le meraviglie del possibile, in op. cit., p. 101.
  6. Furio Jesi, Mito, ISEDI, Milano 1973, p. 21.
  7. Mircea Eliade, Miti, sogni e misteri, Rusconi, Milano 1977, p. 17.
  8. Repubblica, III, 392a.
  9. Cfr. Jacques van Herp, Panorama de la science fiction, Marabout, Verviers 1975, pp. 233-234.
  10. Gianfranco de Turris, Sebastiano Fusco, L’uomo moderno di fronte al mistero della narrativa di A. Merritt, ne Gli abitatori del miraggio, Fanucci, Roma 1977.
  11. Gianfranco de Turris, Sebastiano Fusco, La magia del simbolo, in «Scienza e Ignoto», n. 2, febbraio 1974, pp. 62-64.
  12. Il testo integrale della Tavola di Smeraldo è incluso in Eliphas Lévi, Il rituale magico del «Sanctum Regnum», Atanòr, Roma 1974.
  13. L’esistenza di questi «centri» è una convinzione diffusa in tutte le scuole «esoteriche», che insegnano metodi per la loro apertura. Cfr. Serge Hutin, L’amour magique, Albin Michel, Paris 1970; Denis de Rougemont, L’amore e l’Occidente, Rizzoli, Milano 1977.
  14. Cfr. Mircea Eliade, Mefistofele e l’androgine, Edizioni Mediterranee, Roma 1971.

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