Note sui corti e gli invisibili di Lav Diaz. Per un’archeologia digitale

Lav Diaz n. 3/2017
Note sui corti e gli invisibili di Lav Diaz. Per un’archeologia digitale

di Alberto Libera

Per ragionare nella maniera più incisiva possibile sulla produzione “invisibile” di un cineasta “periferico” come Lav Diaz è forse bene partire dal suo ultimo cortometraggio, The Day Before The End (2016). Inizialmente contenuto nel film collettivo Fragment (2015) – opera commissionata dall’Asian Film Archive per celebrare il proprio decimo anniversario – è stato presentato nel 2016 al Festival di Oberhausen e immediatamente dopo proiettato online sulla piattaforma di streaming MUBI. Il corto (17 minuti) è ambientato nel 2050 in una città filippina piegata dalla furia degli elementi: mentre si scatena la tempesta, alcuni poeti scendono per strada e, uno alla volta, declamano versi propri e altrui. Non contano le parole (anche le battute in tagalog non sono sottotitolate): contano il gesto, la performance. L’artista, metaforizzando il ruolo stesso del regista/autore, è auspice di un atto di resistenza e, allo stesso tempo, testimone in prima persona della condizione di un Paese traumatizzato dai mali del colonialismo e della dittatura, nonché percosso da una natura violenta. 
Questa piccola distopia spengleriana in bianconero, con i suoi personaggi che abitano uno spazio letteralmente dominato dallo sguardo spettatoriale, è silloge di un gesto autoriale capace di configurarsi immediatamente come atto politico. In gioco è la possibilità per il cinema, in qualunque sua forma e metraggio, di trasformarsi in protocollo testimoniale: archivio per una futura memoria. Perché se i monumentali lungometraggi di Diaz implicano la necessità di esperire la Storia come processo, i suoi cortometraggi orientano maggiormente una lettura della Storia compiuta attraverso i frammenti di una memoria tanto individuale quanto collettiva. Le opere esaminate in questa sede ingenerano poi un’ulteriore problematica, contrassegnate come sono da uno statuto paradossale. Sono infatti testimonianze senza testimoni, opere invisibili e quasi sempre introvabili, talvolta nemmeno inventariate dall’Internet Movie Database. A rendersi necessaria, perciò, è un’operazione di archeologia digitale.

Di Waiting for the Storm (2006), ad esempio, è impossibile ricostruire con precisione persino la durata, la quale, a seconda delle fonti, oscilla tra i cinque e i sette minuti. Allo stesso modo, è impossibile rendere precisamente conto del titolo originale dell’opera. Si tratta di una breve docu-fiction incentrata su un villaggio di pescatori della provincia di Iloilo dove i bambini, come rito di passaggio a un’età più adulta, hanno l’obbligo di camminare lungo il litorale al fine di percepire su di sé la forza delle tempeste, dei tifoni, delle piogge, dei venti e delle onde che solcano la spiaggia. La macchina da presa di Diaz, secondo quanto ci è possibile dedurre, segue un gruppetto di tre bambini addentrarsi in una zona pericolosa, in prossimità dell’intersezione tra il mare e le rocce. Nello stesso anno, il regista realizza un cortometraggio per il collettaneo Image Nation, uscito nelle Filippine ma mai distribuito nel resto del mondo. In questa circostanza, a 20 filmmaker venne chiesto di mettere in immagini la propria visione delle Filippine a vent’anni esatti dall’ESDA – rivoluzione non violenta che portò alla deposizione del dittatore Marcos – senza eccedere la durata di cinque minuti. Diaz, invece, realizzò un corto di otto minuti dove per la metà dello svolgimento la macchina da presa, assai significativamente, staziona su un giardino vuoto. Il segmento, dal titolo After the Rain, è composto da un unico campo totale fisso. Un voice over maschile informa che la pioggia ha cessato di battere, mentre una donna è ritta in piedi all’ingresso di casa. Il tempo sembra sospeso, dopo quattro minuti e mezzo un uomo entra in campo, varca la soglia e poi si allontana. Il voice over interviene nuovamente: «Ho visto papà uscire». L’uomo se ne va, rimane solo la rarefazione di un’atmosfera sospesa. Per Diaz, le Filippine del dopo-Marcos non sono che un limbo purgatoriale sospeso nel tempo, ancora incapace di trovare la propria identità e la propria libertà. Una riflessione, questa, abbracciata anche nel brevissimo (1 minuto e 50) The Firefly (2013), realizzato per un altro film collettivo (Venice 70. Future Reloaded) e girato come soggettiva di una donna affacciata alla finestra che, mentre osserva un anziano passeggiare appoggiato al proprio bastone, scandisce queste parole a voce alta: «Arriverà il giorno in cui prenderemo il largo dai misteri della mitologia. Allora canterò delle canzoni che ti renderanno libero».

Un’ulteriore forma di liberazione estatica, complementare e opposta, è quella del gruppo di ballerini ripresi nella videoperformance (45 minuti) Dirty Laundry (2008). Contenuta in un unico pianosequenza, la danza avviene nel contesto di una normalissima via di un centro urbano, con la macchina da presa, fissa, che compone un cadrage perfettamente simmetrico dove la strada occupa il margine sinistro del fotogramma e un piccolo fiume il margine destro. Sullo sfondo si stagliano invece pochi grattacieli. Le linee plastiche e dinamiche dell’inquadratura statica sono percorse dall’esibizione di due donne impegnate in una danza dal vago sapore misterico; terminata l’esibizione, una delle ballerine esce di scena mentre l’altra viene raggiunta quasi subito da un uomo che imbraccia una chitarra. Dirty Laundry offre quindi testimonianza di una costante ricerca linguistica capace di articolare un corpus composito ed eterogeneo. Il successivo Purgatorio (2009), presentato al festival di Rotterdam, è infatti un cortometraggio (16 minuti) realizzato assemblando spezzoni del footage non utilizzato per Melancholia (2008), ma concepito come un’opera indipendente dal lungometraggio di riferimento. D’ambientazione notturna, segue il peregrinare di un uomo e di una donna che si conclude con la scoperta di un cumulo d’ossa nascosto tra gli alberi. Ancora una volta, Diaz si schiera apertamente dalla parte degli animi resistenti (presumibilmente i resti rinvenuti sono quelli di un oppositore della dittatura militare), come dimostrato anche dal dittico dedicato ai due giovani critici militanti Nika Bohinc e Alexis Tioseco, tristemente assassinati nel 2009 a seguito di una banale effrazione. Il primo dei due lavori, Elegy to the Visitor from the Revolution (Elehiya sa dumalaw mula sa himagsikan, 2011) avrebbe dovuto essere un cortometraggio di un solo minuto ma il progetto si è evoluto in progress fino a raggiungere la durata di 80 minuti. Scritto giorno per giorno dal regista insieme agli attori, è un film tripartito in cui ognuno dei segmenti è incentrato sulla visita di un misterioso «viaggiatore del tempo» in tre diversi momenti della storia delle Filippine. Il successivo An Investigation on the Night that Won’t Forget (2012) – proiettato a Milano nel luglio 2014 grazie agli sforzi di Enrico Ghezzi – abbandona la traccia allegorica e si presenta invece come atto d’accusa diretto. Per 70 minuti, la macchina da presa di Diaz ascolta il racconto di Erwin Romulo, intimo amico di Alexs Tioseco, dal quale emerge l’indifferenza complice del grande apparato del potere: le indagini vengono condotte sbrigativamente, gli assassini rimangono tutt’oggi a piede libero. È evidente come, tra le righe, emerga una riflessione sulle potenzialità del neonato cinema digitale. Abbattendo l’ideale barriera di separazione tra soggetto filmante e oggetto filmato, Diaz affronta uno dei cardini portanti della sua poetica d’autore: il racconto è anzitutto ricordo, meccanismo primario di conservazione della memoria. Non è un caso che l’ultimo lavoro considerato in questa rapida carrellata, il mediometraggio Prologue to the Great Desaparecido (2013) – realizzato anzitutto per finanziare tramite crowdfunding il successivo A Lullaby to the Sorrowful Mystery (2016) – si configuri come stringa di memoria di un periodo cruciale (i moti rivoluzionari di fine Ottocento soppressi nel sangue con l’omicidio del leader Andrés Bonifacio) girato, al solito, in un bianconero corrusco e appiattito sulla scala dei grigi medi per donare concretezza a una materia che contiene in sé qualcosa di profondamente astratto e fantasmatico.

È, questa, l’ennesima, commovente dimostrazione di una fiducia incondizionata nel mezzo-cinema e, in particolare, nella sua capacità di dare voce a tutti quei capitoli che la Storia vorrebbe occultare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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