Filipino Wave. La macchina cinema e l'identità di un popolo

Lav Diaz n. 3/2017
Filipino Wave. La macchina cinema e l'identità di un popolo

di Massimo Causo

C’è prima di tutto – e ovviamente – una questione identitaria, che urla sottopelle, nell’onda filippina del cinema contemporaneo, una ragione che corrisponde agli argomenti di un riconoscimento confinante con l’autocoscienza, con l’affermazione di sé di fronte a se stessi. Il vero punto focale di tutti i film dei vari Raya Martin, John Torres, Adolfo Alix Jr., Khavn De La Cruz, Pepe Diokno, Sherad Anthony Sachez e poi anche di Brillante Mendoza, Raymond Red, Kidlat Tahimik, sino ovviamente a Lav Diaz, è immancabilmente concentrico, una sorta di discussione con la consapevolezza del bisogno di radicalizzare la propria presenza nel tempo e nello spazio della loro terra.

Mica per niente è possibile percepirli come un collettivo, senza che poi loro – come sempre accade – si sentano e siano effettivamente parte di qualcosa del genere («È più una sorta di cameratismo. Nemmeno una cosa troppo legata alla discussione…»1). La comunione del loro cinema passa semplicemente attraverso un’idea del filmare che rimbalza sulla ricerca di una materia comune ideale, su una narrazione di sé che contempla la tradizione e la raffigura con strumenti antiautoritari, illustra la Storia e la tramanda con prospettive non istituzionali, finanche coglie la realtà quotidiana e la narra con languori bassi, magari semplicistici, di sicuro profondamente popolari…

Quello che senz’altro ripudiano questi autori (soprattutto l’ultima loro generazione) è l’autorità del cinema, l’idea di un filmare che istituzionalizza se stesso nell’autorevolezza della testimonianza. È evidente che, alla forza della testimonianza, tutti loro preferiscono la forza immediata e genuina del testo filmico, la capacità che essi riconoscono all’atto del filmare di rappresentare in se stesso l’idea del presente tanto quanto la lettura del passato (in questo senso un autore come Kidlat Tahimik, che sin dagli anni Settanta – Perfumed Nightmare, 1977 – scardina l’antropologia visuale in una prassi autoctona e filmocentrica, è davvero un maestro per tutti loro, molto più dello stesso Lino Broka2).

È come se il destino impresso sulla pelle della storia di questo popolo, fatto di sovrapposizioni e stratificazioni coloniali dirette e indirette, fosse ancora in atto nella loro coscienza e li portasse a scavalcare la linea di protezione esterna dell’identità, l’epidermide della consapevolezza, in un confronto con se stessi che si radica nell’immagine del rispecchiamento, del guardarsi guardare se stessi. Non c’è punto di fuga prospettico che tenga di fronte a questa disquisizione intestina, e il cinema, inteso come complesso espressivo immediato, basso, popolare, si offre a questi registi come una ragione profonda. Per questi autori l’atto del filmare è un discorso che ha a che fare con questioni innate, inerenti la loro identità culturale, la loro storia collettiva.

Quando nello stesso anno, il 2013, due registi come Raya Martin e Adolfo Alix Jr. (già artefici, insieme, di un dittico – Manila, 2009 – che si proponeva come un “manifesto”, solo in parte riuscito, della new wave filippina) si presentano sulla scena dei grandi festival internazionali con La última película (a Locarno) e Death March (a Cannes), diversissimi eppure egualmente capaci di elaborare porzioni profonde di coscienza storica nazionale, agli osservatori risulta evidente che per l’onda filippina l’elaborazione del vissuto filmico è il vero tramite del discorso identitario in corso. Se Raya Martin (con Mark Peranson, che firma assieme a lui) cerca nello Yucatán la fine del mondo, mettendosi sulle tracce di un filmmaker americano, Adolfo Alix Jr. racconta la marcia forzata cui furono costretti nel 1942 i soldati filippini (e americani) deportati dai giapponesi invasori: due scenari completamente differenti, ma in entrambi i film corre la medesima tensione ideale, lo stesso bisogno di trovare l’identità del proprio popolo nella distrazione coscienziale di una storia che parla di fughe più o meno forzate verso un altrove che è ricerca e ossessione. Che sia il Messico di Raya Martin, storico luogo di riferimento economico per le Filippine, o il Bataan di Adolfo Alix Jr., punta estrema delle Filippine verso l’altra metà del mondo e spazio di un’epica sacrificale incisa nella storia bellica del paese, in entrambi i casi ciò che resta è la sensazione netta di due autori che maneggiano una materia identitaria primaria, mettendola in circolo in opere che insistono fortemente sul dispositivo filmico, sulla materialità del filmmaking. Alix rende plastico il rapporto finzionale con una scenografia palesemente ricostruita, in cui cala come per astrazione la sofferenza fisica – reale, storica – di uomini spinti allo stremo della sopravvivenza, tanto quanto Martin elabora il portato finzionale della scenografia messicana in maniera letteralmente metafilmica, mettendolo in opera nella dispersione concretamente pellicolare di un filmmaker sulle tracce del film disperso per eccellenza, The Last Movie di Dennis Hopper…

La materialità filmica, del resto, la concretezza del mezzo cinematografico, è elemento basilare dell’intera esperienza di questo gruppo di autori. E non è solo una questione legata al loro esistere resistente all’interno di un sistema industriale che non li contempla (i loro film non hanno perlopiù una regolare distribuzione in sala nelle Filippine e spesso vivono più che altro all’estero, nel circuito dei festival); non è cosa che riguarda solo l’autarchica tensione di un eccedere gli strumenti ufficiali, a partire da quella linea dell’ufficio censura che «dovrebbe approvare i film, ma è costoso e ogni intervento che fanno lo paghi ogni volta, così ti fanno ritornare più di una volta»3. Il Cinema è in sé l’esperienza di vita che consente a questi autori di porre in essere la questione identitaria che è consustanziale al loro filmare, la sua materialità ha a che fare con un dire semanticamente disposto verso l’essenza del pensare se stessi attraverso le immagini.

In questo senso basterebbe pensare a tutto Kidlat Tahimik, o anche solo al definitivo Balikbayan #1 Memories of Overdevelopment Redux III (2015), per cogliere la tensione di un filmare che tiene in sé la pulsione identitaria recalcitrante rispetto al destino coloniale in cui è antropologicamente inscritto il popolo filippino. L’idea stessa del formato ridotto scandisce una difformità rispetto alla materialità istituita in quello standard gauge che evidentemente è percepito come forma ufficiale da cui rifuggire. È un po’ come fosse il corrispettivo in ambito filmico dell’insistenza sull’identità linguistica originaria – quella tagalog rispetto alla sua evoluzione nel pilipino o più ancora rispetto all’uso dello spagnolo o dell’inglese – che poi ha spinto le generazioni successive a insistere con la stessa radicalità linguistica sull’uso di formati elettronici alternativi così come dell’idioma tagalog. Khavn De La Cruz è stato molto determinato nel praticare questo dissenso linguistico nel suo cinema, tanto da spingersi al rifiuto dell’identità filmica stessa, firmando puntualmente i suoi lavori (quasi sempre recitati in tagalog) con un «This is not a film by Khavn» (Ultimo: distintas maneras de matar un heroe nacional o Iskwaterpangk. Squatterpunk, entrambi del 2007, o ancora Mondomanila, 2010). Una simile intransigenza ha caratterizzato, almeno agli inizi, Sherad Anthony Sanchez, che in Huling balyan ng buhi (2006) si spingeva nella foresta dell’isola di Mindanao con i ribelli musulmani resistenti. E John Torres, che non ha mai mancato di elaborare una visione critica del rapporto trasversale tra l’identità arcaica del suo popolo e le sue derive post o tardo coloniali, ha toccato con mano la questione nel suo ultimo film, il notevole Lukas Nino (2013), in cui la figura mitologica del tikbalang (metà uomo, metà cavallo) diventa lo specchio in cui si riflette l’ingresso nell’età adulta di un bimbo cresciuto senza padre: il tutto, però, intriso di una materialità filmica che passa attraverso le immagini in 8mm e l’intero apparato della macchina filmica, messo in moto da una troupe che gira nei paraggi.

 

Il cinema, inteso come meccanica dell’essere filmico, è insomma una funzione assolutamente centrale nell’elaborazione del processo identitario praticata da questi filmmakers, ben al di là dell’apparente ovvietà di un simile assunto. Non si tratta infatti di un prolungamento ideale della pulsione cinefila che era stata alla base della nouvelle vague francese e di quelle susseguenti. Né si tratta di una rilettura della lezione storica neorealista. Semmai, questa stirpe di autori filippini mostra delle assonanze con il radicalismo dell’intreccio identitario ed espressivo elaborato trasversalmente dal terceiro cinema, rispetto al quale però dismette qualsiasi immediatezza ideologica e ogni furore iconoclasta, per sospingerli sullo sfondo di un discorso che dialoga principalmente con il versante per così dire umanistico della dimensione storica, sociale e politica della loro ricerca.

A parte certe punte lirico-declamatorie di Khavn De La Cruz, nelle opere della new wave filippina non si trova mai un accesso diretto alla funzione politica del cinema, manca qualsiasi tentazione didascalica. Al contrario tutto passa attraverso un ricorso pienamente cosciente al vissuto intimamente basso e popolare della tradizione cinematografica – e prima ancora teatrale – filippina.

 

Anche prescindendo dal fondamentale Lav Diaz (che comunque si rifà fortemente al dettato originario della letteratura e del teatro popolare filippino, dal sinakulo al drama4), tutto il cinema di Brillante Mendoza è un riflesso più o meno incondizionato di questa tradizione. E non è solo questione legata al realismo della scena sociale messa in opera nella memorialistica nostalgica da cinema di quartiere in Serbis (2008), quanto piuttosto di non trascurare in film come Kinatay (2009), Tirador (2007) o ancora il recente Ma’ Rosa (2016) il punto di contatto tra la pulsione originaria di un cinema tradizionale, popolare e corrispondente agli schemi ben noti al pubblico filippino, e la spinta in avanti, verso un’illustrazione anche esacerbata della contemporaneità, attraverso uno stile che sembra quasi voler violentare il sostrato “arcaico” su cui si posa la struttura del film.

 

Quello che va sottolineato, nell’esperienza della new wave filippina, è in realtà un ostentato fattore di oggettivazione della macchina cinema, lo svelamento non tanto del processo creativo, quanto della manualità del filmare, della meccanica del riprendere. Il dissidio, per esempio, tra la pellicola e la strumentistica video (analogica prima e digitale poi) è centrale nella posa in opera di un discorso filmico che non cessa mai di dichiarare la sua materialità. Non è tanto il rifiuto della pesantezza dell’industria cinematografica, quello che conta in una simile pratica, quanto l’immediatezza di una leggerezza che corrisponde alla possibilità di accedere direttamente al discorso, di parlare prescindendo dall’intermediazione di un medium macchinoso come il cinema.

Per Diaz, Martin, Mendoza, Khavn e tutti gli altri, la prassi digitale del cinema rappresenta il punto di non ritorno rispetto alla consapevolezza identitaria di possedere concretamente, totalmente e sino in fondo un linguaggio, ovvero la possibilità di filmare (piuttosto che verbalizzare…) il pensiero e il sentimento che sta dietro di esso, dare corpo a una narrazione di sé che non necessita di intercessioni strutturali e semantiche di sorta.

 

Raya Martin, che di sicuro ha la capacità di spingersi teoricamente molto più avanti dei suoi colleghi, in Autohystoria (2007) dice proprio di una percezione del fatto filmico come qualcosa che incide concretamente sulla possibilità di un’autonarrazione della storia della sua gente, attraverso una pratica ostentata del filmare, tra vhs e lo-fi digitale, insistendo sul disorientamento indotto nella negazione della libertà d’azione che marca il pianosequenza, costretto a soggiacere all’insistenza di una reiterazione infinitiva del movimento imposto dagli assassini di stato ai due fratelli prigionieri. Ma poi il confronto con il fondamentale Independecia (2009) rivela ancor di più una simile dinamica, proprio nell’allitterazione che cerca tra la posa in opera di una narrazione identitaria della storia rimossa della propria gente e la formulazione filmica di un linguaggio che parte dal cinema muto e raggiunge le formule del cinema popolare filippino. Quello stesso cinema popolare (l’horror, le storie di fantasmi) che è al centro della lunga, magnifica sequenza del cimitero in Now Showing (2008), altro film di Martin che lavorava concretamente anche sulla deriva materiale e linguistica tra formati e funzioni del cinema.

 

La consanguineità che i film della new wave filippina spesso esprimono rispetto alle pratiche basse della narrazione (cinematografica e televisiva) più popolare, corrisponde esattamente a questa esigenza identitaria di base. Rinnovando nello spettatore la politica di una autorialità autoctona e immediata, che è prima di tutto ricerca di una autentica consapevolezza del possesso profondo del proprio dire.

 

Note

1 John Torres in Fumarola Donatello, Momo Alberto, Atlante sentimentale del Cinema per il XXI Secolo,

DeriveApprodi, Roma 2013, p. 226.

2 Rispetto al quale, infatti, questi giovani registi sembrano mostrare, se non diffidenza, di sicuro un certo distacco, quello che in genere si riserva ai maestri troppo riconosciuti: «Prima c’erano Gery De Leon, Alberto Avilliana, Manuel Code, che non sono praticamente accessibili. Erano considerati migliori…». Khavn De La Cruz, in Fumarola Donatello, Momo Alberto, op. cit., p. 228.

3 Khavn De La Cruz in ibidem.

4 Per una comprensione del rapporto simbiotico tra teatro popolare e cinema filippino risulta utile la lettura di

Tiongson Nicanos G., Dal palcoscenico allo schermo: le tradizioni teatrali e il cinema filippino, in De Vincenti Giorgio (a cura di), Cinemasia – Tailandia, Vietnam, Filippine, Indonesia, Marsilio, Venezia 1983, pp. 81-89.

 

 

 

 

 

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