Zoologia dei sogni

Chiara Nejrotti
Jorge Luis Borges – Il Bibliotecario di Babele n. 12/2017
Zoologia dei sogni

Il Manuale di zoologia fantastica, scrit­to da Borges con Margarita Guerrero e uscito in Messico nel 1957, propone­va ottantadue voci. Dopo dieci anni il sodalizio si rinnovò e ne vennero aggiunte trentaquattro, che comprendevano non più soltanto animali, ma “creature” in genere; il nuovo testo venne pubblicato con il titolo Il libro degli esseri immagina­ri. In Italia il Manuale uscì per Einaudi, mentre le trentaquattro nuove voci, pre­cedute da un prologo, furono pubblicate da Theoria in un bel libriccino. Infine Adelphi riunì i due testi in un’edizione integrale che mantenne il secondo titolo. Nel Prologo alla nuova edizione ampliata Borges scrisse: «Il titolo di questo libro giustificherebbe l’inclusione del principe Amleto, del punto, della linea, della su­perficie, dell’ipercubo, di tutte le parole generiche e, forse, di ciascuno di noi e della divinità… Ci siamo attenuti, tutta­via, a quanto immediatamente suggerito dall’espressione esseri immaginari, e abbiamo compilato un manuale di quegli strani enti che la fantasia degli uomini ha generato nel tempo e nello spazio»(1).

Sia il Manuale sia il Libro elencano le creature più disparate, in ordine rigorosamente alfabetico, mescolando “anima­li fantastici” tratti da svariate mitologie – classica, norrena, cinese, araba e india­na, solo per citare le più frequenti – con esseri nati dalla fantasia di autori con­temporanei come Kafka e C. S. Lewis, ma anche dalla tradizione popolare. I mostri mitologici vengono affiancati agli angeli e ai demoni di Swedenborg; Oriente e Occidente si alternano senza soluzione di continuità. Il risultato è una “carrellata” apparentemente casuale, in quanto priva di articolazioni interne e classificazioni, un’enciclopedia, come quelle tardo-medioevali, che non pre­tende di essere esaustiva ma rispecchia i gusti e le vaste conoscenze del suo Auto­re. «Non pretendiamo che questo libro, forse il primo del suo genere, comprenda il numero totale degli animali fantasti­ci… sappiamo bene che il nostro tema è infinito»(2) avverte Borges nel Prologo al Manuale del 1957.

Nella sua introduzione all’edizione completa delle opere borgesiane di Mondadori, Domenico Porzio riporta una riflessione di Michel Foucault di fronte allo straniamento causatogli dalla let­tura di una tassonomia cinese, riportata dal Maestro argentino: «Animali che appartengono all’imperatore, imbalsa­mati, favolosi, disegnati con un finissimo pennello di peli di cammello…»(3). Secon­do Porzio, «la mostruosità che Borges fa circolare nella sua enumerazione consiste nel fatto che viene distrutto lo spazio co­mune alla riunione… Egli semplicemente abolisce la più discreta ma importante delle necessità: sottrae la collocazione»(4). Si viene così a creare una sorta di eteroto­pia: la sottrazione dei luoghi in cui le cose si possono incontrare, la quale, secondo Porzio, sarebbe espressione della cecità con cui lo scrittore argentino ha dovuto imparare a convivere: «Un luogo diventa infinito… in conseguenza di una cecità reale o metaforica»(5).

Infinito anche perché non ha né inizio né fine, com’è tipico della poetica borgesiana: «Non è stato scritto per una lettu­ra consecutiva. Vorremmo che i curiosi lo frequentassero come chi gioca con le forme mutevoli svelate da un caleidosco­pio»(6). Secondo Borges, un libro non va letto in cerca della verità ma della mera­viglia, e il caleidoscopio è uno strumento che permette di scomporre e ricomporre le figure in forme sempre nuove e inconsue­te, affascinanti proprio per la loro irrealtà.

Confrontando il Manuale e il succes­sivo Libro degli esseri immaginari con i Bestiari medievali, che ne costituiscono certamente una delle fonti principali, no­tiamo come in questi ultimi prevalga un intento morale del tutto assente dall’ope­ra borgesiana, dove si evidenzia una cu­riosità divertita e ironica. L’intento dello scrittore argentino è mostrare la propen­sione fantastica della mente umana, Cre­atrice di Immagini in una realtà che è essa stessa apparenza mutevole e cangiante, velo di Maya, secondo la filosofia di Scho­penhauer da lui tanto amata.

Nel Prologo al Manuale Borges parago­na ciascuno di noi a un bambino che si reca per la prima volta al giardino zoolo­gico: di fronte alla «sfrenata varietà del regno animale» potrebbe provare timo­re, ma ne trae piacere e divertimento. Il comportamento del bambino è un fatto comune e insieme misterioso, di cui si potrebbero tentare diverse spiegazioni, alcune più semplici e quotidiane, altre di natura filosofica: ad esempio, secondo Platone, avendo contemplato gli arche­tipi di ciascun animale nel mondo delle idee saremmo in grado di riconoscerli pur non avendoli mai veduti nel mondo sensibile. In modo ancora più ardito, Schopenhauer direbbe che il bambino non si spaventa di fronte alla tigre per­ché sa inconsciamente che lui e le tigri sono espressioni della medesima essenza: la Volontà.

Borges, in ogni caso, non risolve l’enig­ma né, almeno apparentemente, prende posizione, passando a trattare il giardi­no zoologico delle mitologie. In quanto produzione della mente umana, la sua po­polazione dovrebbe essere ancor più nu­merosa e varia, dato che mostri e creature nascono come combinazione di elementi di animali reali e l’attività combinatoria è pressoché infinita. Ma così non è, perché alcune creature sembrano “necessarie”, come il drago, mentre altre semplicemen­te non nascono o cadono ben presto nel dimenticatoio, come il catoblepa. La con­clusione è che «la zoologia dei sogni è più povera di quella di Dio»(7).

Significa forse che Platone aveva ragione e anche la zoologia fantastica deve corri­spondere a modelli ideali per realizzarsi? Non lo sappiamo, ma certamente Borges utilizza Platone e Schopenhauer come possibili chiavi di lettura del mondo, senza identificarsi con le loro dottrine, ma servendosene in primo luogo esteti­camente. Le creature della zoologia fan­tastica sono espressioni dell’Immagina­zione Produttiva della mente umana, che non può creare se non a partire dai dati sensibili, come ha spiegato Kant, e nello stesso tempo è veramente Creatrice solo se riesce a realizzare (o cogliere) l’intima necessità di una Realtà, espressione e me­tafora di un bisogno della psiche o di un aspetto della natura stessa. Per questo, mentre la chimera o il catoblepa sono semplici curiosità prive di vita propria, il drago è presente in Oriente e in Occiden­te, resiste al tempo e continua ad abitare il nostro immaginario. Come afferma Tolkien nel suo Saggio sulle fiabe, porta impresso il marchio Made in Faerie ed evidentemente, direbbero gli junghiani, è un archetipo dell’Inconscio Collettivo e non una costruzione arbitraria della men­te di un qualche studioso del passato.

La produzione fantastica è sempre e soltanto uno specchio deformante della Natura, che è inesauribile e sorprendente proprio perché Mistero.

Nel bestiario borgesiano compaiono ani­mali fantastici più o meno conosciuti che vengono trattati in tono ironico, come il cane Cerbero, le cui cinquanta teste origi­narie si ridussero a tre per «maggiore co­modità delle arti plastiche», o il Gatto del Cheshire, il cui sorriso sardonico divenuto proverbiale viene spiegato attraverso ipo­tesi divertenti e assurde, come quella che si vendessero formaggi a forma di gatto che ride o che, «siccome il Cheshire era una contea palatina o earldom, questa distin­zione avrebbe causato l’ilarità dei gatti»(8).

Il Bahamut, mostro della tradizione araba che gli uomini alterarono e ingran­dirono, trasformandolo da ippopotamo o elefante in un pesce gigantesco che regge un toro, il quale a sua volta regge una montagna di rubino su cui si erge un angelo che sostiene la Terra, diviene l’oc­casione per illustrare l’infinito rimando a una causa che non è dato conoscere. Il fondamento dello stesso Bahamut sareb­be infatti il vento, il cui principio sareb­be a sua volta la nebbia. E il fondamento della nebbia s’ignora. Il mito, afferma l’Autore, sembrerebbe illustrare la prova cosmologica dell’esistenza di Dio, secon­do cui ogni causa rimanda a una causa anteriore, con la conseguente necessità di una Causa Prima. Certamente, però, lo scrittore argentino conosceva la critica al concetto di sostanza di Locke, che utiliz­za un mito analogo proprio per dimostra­re come il fondamento ultimo della realtà sia indimostrabile. Il testo mantiene per­tanto il tono ironico di tutta l’opera.

Anche gli Animali sferici «diventano l’occasione per una breve trattazione fi­losofica espressa in tono leggero: secondo Platone, il demiurgo diede al cosmo e agli astri la forma più perfetta, quella della sfera, facendone degli esseri viventi dotati di ani­ma. Dotò così di vasti animali sferici la zo­ologia fantastica, e censurò la pigrizia men­tale degli astronomi, i quali rifiutavano di ammettere che il moto circolare dei corpi celesti fosse spontaneo e volontario»(9).

Un’altra caratteristica delle voci del Manuale è di seguire lo sviluppo e le tra­sformazioni letterarie e popolari di una figura fantastica. Ne sono un esempio le Sirene: da uccelli con petto e volto di don­na alle fanciulle dalla coda di pesce, dai testi classici alle testimonianze popolari secondo cui una sirena nel 1403 abitò ad Haarlem, dove imparò a filare e visse fino alla morte, anche se nessuno riuscì a capi­re il suo modo di esprimersi.

Dall’infinito spaziale si passa a quello temporale, l’unica dimensione che per lo scrittore ha valore: la narrazione – costan­temente al presente – crea una sensazione di eternità per questi fantasmagorici abi­tanti del mito, come l’Idra di Lerna ucci­sa da Ercole, la cui ultima testa immortale giace ancora sepolta sotto una grande pie­tra, «odiando e sognando». Ogni cosa vive finché è presente nella memoria degli uomini. Altri animali, del resto, abitano un tempo aldilà delle leggi fisiche: le tre teste di Cerbero rappresentano passato, presente e futuro.

Vi sono anche esseri che consentono i viaggi attraverso il tempo: il Buraq, caval­catura celeste di Maometto, accompagna il Profeta nel suo volo presso l’Unico Dio, e nel farlo rovescia una giara. Al ritorno, si scopre che da essa non è uscita una sola goccia, segno inequivocabile che il tem­po si è fermato. Il diverso scorrere o la sospensione del tempo sono d’altronde temi onnipresenti in fiabe e miti: a volte il protagonista, che si trova nelle terre fata­te, crede siano passati pochi istanti, men­tre nel mondo dei mortali sono trascorsi secoli, laddove in altri casi lunghissime avventure che sembrano durare anni – addirittura, vite intere – corrispondono nel nostro mondo a un battito di ciglia. In entrambi i casi viene sottolineato come il Tempo sia consustanziale alla nostra re­altà, scandita da nascita, crescita e morte, mentre in dimensioni ove risiedono entità immortali o divine non trascorre, o lo fa in modo differente.

Nel bestiario incontriamo esseri parti­colarmente significativi, probabilmente inventati dallo stesso Borges, come l’A Bao A Qu, che vive in stato letargico nella Torre di Chitor e prende vita, assumen­do forma e colore, se qualcuno si avvici­na, per poi spegnersi fin quasi a dissolversi quando il visitatore si allontana – perso­nificazione della tesi secondo cui il mon­do, così come il libro che di questo è cifra, esiste solo nella percezione del lettore e della coscienza umana.

Nella raccolta compaiono altri sim­boli borgesiani, come gli Animali negli specchi e la Tigre. Secondo un racconto cinese, all’epoca leggendaria dell’Impe­ratore Giallo gli specchi erano porte che mettevano in comunicazione mondi di­versi, tanto che per loro tramite si poteva viaggiare dall’uno all’altro. Un giorno, gli abitanti aldilà dello specchio tentarono di invadere il nostro mondo: l’Imperatore, esperto di magia, li imprigionò, riducen­doli a meri riflessi condannati a ripetere all’infinito gli atti degli uomini; ma que­ste imago un giorno emergeranno dalla loro dimensione e invaderanno il mondo. Nulla potrà fermarli: «Il primo a svegliar­si sarà il Pesce. Nel fondo dello specchio sorgerà una linea sottile […]; poi verranno svegliandosi le altre forme. Gradualmen­te, differiranno da noi. Gradualmente, non ci imiteranno più. Romperanno le barriere di vetro e metallo, e questa volta non saranno vinte. […] Altri intende che, prima dell’invasione, udremo nel fondo degli specchi il rumore delle armi»(10).

Il tema dello specchio – come quello del doppio, anch’esso presente nella raccol­ta – richiama l’Ombra che accompagna ciascuno di noi: quando viene rimossa e repressa tende a vendicarsi, invadendo la coscienza. Il Pesce è l’abitante del re­gno sommerso che rispecchia nelle sue profondità quello emerso: con lui, dice la leggenda, combatteranno tutte le crea­ture d’acqua. Per la psicoanalisi le acque sono il simbolo dell’inconscio e la storia delle religioni ci insegna che in ogni cul­tura rappresentano il luogo del mostruoso e dell’informe da cui nasce la vita e cui occorre ritornare, per purificarsi e riemer­gerne rinnovati. Quando l’Ombra viene riconosciuta e integrata arricchisce la per­sonalità, così che il soggetto diventa dav­vero individuo e non un semplice riflesso della società e dell’opinione comune.

Benché non sia un essere fantastico, per lo scrittore di Buenos Aires la Tigre è cer­tamente un animale favoloso ed è uno dei temi ricorrenti della sua poetica. Egli ri­corda come fosse attratto dalla sua imma­gine nelle illustrazioni dell’enciclopedia paterna fin dall’infanzia, e come queste si fossero poi unite a suggestioni lettera­rie. La tigre contemplata è un archetipo che si salda con l’immagine della tigre reale vista, finalmente in carne e ossa, al giardino zoologico. La poesia L’altra Tigre(11) esprime l’incapacità della pagina letteraria di cogliere la tigre vivente di carne e sangue, ma nel medesimo tempo la sua immagine evocata fa trasparire la Terza Tigre: il modello ideale di cui tan­to l’animale in carne e ossa quanto la sua espressione letteraria sono manifestazio­ni. Vive aldilà dello specchio, e solo stan­do di fronte al potere numinoso della sua figura possiamo incontrarla e riconoscer­ci in essa. Come già ricordato, nel Pro­logo al Manuale si dice che «il bambino non ignora che lui è le tigri e le tigri sono lui»(12), specchio reciproco, manifestazio­ne dell’unica volontà di vivere.

Ne Le Tigri dell’Annam Borges cita una credenza malese secondo cui nel cuore della giungla vi sarebbe una città «con travature d’ossa umane, mura di pelli umane, grondaie di capigliature umane, costruita e abitata da tigri»(13): un luogo speculare alle abitazioni umane costruite con ossa e pelli di animali delle epoche più arcaiche, nelle quali i nostri antenati ominidi divennero cacciatori, identificandosi con i grandi predatori. La Tigre è insomma la nostra componen­te inconscia e selvaggia, che abita aldilà e sotto la coscienza, pericolosa nella sua ferocia eppure affascinante espressione dell’innocenza del divenire e dell’eterno presente della natura.

Ma perché proprio la tigre e non un al­tro felino? Sebbene Borges parli di una fascinazione del tutto personale e perciò inspiegabile, possiamo azzardare una ri­sposta ricordandone gli attributi simbo­lici: nel Manuale e nel già citato Le Tigri dell’Annam, queste ricoprono il ruolo di Geni guardiani dei quattro punti cardi­nali: una Tigre Rossa per il Sud, che corri­sponde all’estate e al fuoco, una Nera per il Nord, legato all’inverno e all’acqua, una Azzurra per l’Est, che corrisponde invece alla primavera e alla vegetazio­ne, e infine una Bianca per l’Ovest, cui corrispondono l’autunno e i metalli. Ve ne è poi una quinta, di colore giallo, che governa tutte le altre ed è situata al cen­tro; le cinque tigri combattono, assieme, contro i demoni. In un altro capitolo si parla della Tigre come animale Yin, com­plementare e opposta al Drago, Yang. Tra gli altri simboli dello Yin, continua Bor­ges, troviamo la donna, la terra, il colore arancione, le valli e il letto dei fiumi(14).

In molte tradizioni orientali la Tigre è principio sia maschile, in quanto creatu­ra regale che soltanto i guerrieri possono cacciare, sia femminile, poiché partico­larmente dotata di istinto materno; né si deve dimenticare che, a differenza di altri felini, è connessa all’acqua, di cui non ha timore e che ama particolarmente. In Oriente è vista come mostro dell’oscurità e della luna nuova, ma anche raffigura­zione della luce nascente. È simbolo ma­schile e femminile, oscurità e luce, nume tutelare che difende dai demoni ma che è a sua volta un demone. La sua natura por­ta in sé il sacro e il numinoso, la potenza, la fascinazione, insieme, inevitabilmente, all’abisso inquietante del pericolo.

È in Nuova confutazione del tempo che la Tigre ritorna, come metafora del tempo: «Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi divo­ra, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi consuma, ma io sono il fuoco» (15). Nuova­mente compare il tema dell’identità oltre le apparenti divisioni. Per vivere davvero occorre abbracciare la tigre e identificar­si con essa, lasciarsi divorare. Il tempo è per Borges l’unica vera dimensione che caratterizza l’esistenza umana; citando Eraclito, è un fiume che scorre e nelle cui acque non ci si può bagnare due vol­te. La letteratura, tuttavia, permette di rendere presenti nell’attimo passato e futuro, come un unico libro sempre ri­scritto e riletto: «Tutti i quadri della sua esposizione fantastica nuotano in questo fiume, assieme a chi li osserva, in ogni tempo e a ogni latitudine» ha scritto Cristina Donati(16).

Le creature nate dalla fantasia umana, da quelle più improbabili – come la chi­mera, troppo eterogenea per continuare a essere rappresentata e perciò divenuta sinonimo di vana immaginazione – a quelle che mantengono intatto il loro potere nell’immaginario collettivo – come il drago e la sirena –, permangono e possono essere nuovamente rivissute e reinterpretate. La loro presenza ci invita ad andare oltre l’apparenza per tuffarci nella fluidità metamorfica delle forme, ci ricorda che sogno e realtà non sono mon­di del tutto distinti ma dirette espressio­ni di un’unica dimensione: «Noi (l’insi­diosa divinità che opera in noi) abbiamo sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, onnipre­sente nello spazio e fisso nel tempo; ma abbiamo consentito nella sua architettu­ra tenui ed eterni interstizi di assurdo per sapere che è falso»(17).

Note

  1. Jorge Luis Borges, Il libro degli esseri immaginari, Theoria, Roma-Napoli 1984, p. 13.
  2. Jorge Luis Borges, Margarita Guerrero, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino 2015, p. 5.
  3. Jorge Luis Borges, Nota alla presente edizione, in ivi, p. V.
  4. Domenico Porzio, Introduzione, in Jor­ge Luis Borges, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984, vol. I, p. XCIX.
  5. Ibidem.
  6. Jorge Luis Borges, Il libro degli esseri im­maginari, cit., p. 14.
  7. Jorge Luis Borges, Prologo, in Jorge Luis Borges, Margarita Guerrero, op. cit., p. 5.
  8. Jorge Luis Borges, Il libro degli esseri im­maginari, cit., p. 43.
  9. Jorge Luis Borges, Margarita Guerrero, op. cit., p. 13.
  10. Ivi, p. 10.
  11. Jorge Luis Borges, L’altra Tigre, in L’Artefice, in Tutte le opere, cit., vol. I, p. 1205.
  12. Jorge Luis Borges, Margarita Guerre­ro, op. cit., p. 4.
  13. Ivi, p. 139.
  14. Ivi, p. 57.
  15. Jorge Luis Borges, Nuova confutazione del tempo, in Altre inquisizioni, in Tutte le opere, cit., vol. I, p. 1089.
  16. Cristina Donati, Manuale di zoologia fantastica, in «Terre di Confine Maga­zine», marzo 2006 (articolo disponibile online).
  17. Jorge Luis Borges, Metempsicosi della tartaruga, in Discussione, in Tutte le opere, cit., vol. I, p. 399.

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