Jorge Luis Borges e “il libro di Dio”

Giovanni Allegra
Jorge Luis Borges – Il Bibliotecario di Babele n. 12/2017
Jorge Luis Borges e “il libro di Dio”

La letizia che all’uomo di non vol­gare cultura dà la lettura e il com­mento di Jorge Luis Borges è in questi ultimi tempi infastidita dal fiume di stucchevole critica che invade ogni rivista o foglio con qualche pretesa lette­raria. In gran parte si tratta, è vero, di ar­tificioso interesse creato dagli editori che avevano «tenuto in caldo» libri di Borges o sulla sua opera, in attesa che gli venisse concesso il premio Nobel, e come tale è da sperare che si diradi senza che avvenga la consueta torbida operazione dell’indu­stria culturale, consistente nel fare di ogni suo avversario – genuino o alla moda – uno strumento e finanche un alleato. Con ciò vogliamo premettere che il presente scritto non vuol essere né un omaggio all’opera nuovamente scoper­ta dell’argentino, né un lamento per il mancato conferimento degli allori sve­desi, verso i quali bisogna guardare con profondo scetticismo, memori della loro quasi mai tradita vocazione al banale, al commerciale e al perpetuo asservimento ai potentati politici in falsa contesa.

Uno scoglio da evitare per chi voglia av­vicinarsi alla lettura di Borges è il suo ac­costamento alla letteratura «fantastica» o, ancor peggio, d’anticipazione: sarebbe altrettanto grave che il considerare «fan­tastica» tutta la cosa poetica e narrativa – poniamo, dall’Iliade alle Mille e una not­te – sorta e sviluppatasi sotto il segno del mito che, rilievo quasi superfluo, è cosa opposta ad ogni utopia, ad ogni insipido e tenebroso fantasticare sui miraggi delle filosofie e sul sempre differito avvento dei paradisi della ragione(1). Tutto quel che in Borges appare fantastico è invece radica­to nel favoloso o fiabesco; la fantasia ha tendenze perniciosamente anarchiche quando è liberata dai ceppi che le furono imposti dalle regole accorte di ogni tra­dizionale educazione ed è stata vista con significativo sospetto dagli stessi maestri che hanno incoraggiato e adoperato l’uso della favola. Non per nulla la gente del po­polo non nascose mai un certo disprezzo per gli «idealisti» e i sognatori, mentre non conobbe altro sistema atto a dirigere le menti fanciulle che quello di ricorrere agli esempi sempre onesti e verdeggianti della favola.

1. La morale delle favole

Fino a La Fontaine, a Perrault – per­fino ad un certo Rocaille di Lessing – e, nuovamente, ai Grimm, se ben si osserva, non esiste un solo modello estratto dal­la favola che non serva a ribadire la giu­stezza di ogni canone civile e sociale che i philosophes contemporanei non giudi­chino malvagio e iniquo. Anche la favola settecentesca quindi, pure impregnata degli spiriti perversi che sono nell’aria del secolo, non arriva a distorcere l’esito generalmente conservatore e addirittura legittimista che conclude ogni favola: gli equilibri violati tornano al loro retto go­verno, i principi spodestati riacquistano i loro Stati, le donzelle regali sono ricono­sciute sotto vesti di mandriane da un se­gno minimo che dice del loro rango mi­steriosamente investito della monarchia, gli animali, dopo illusioni di società, tor­nano alla condizione di creature sotto­messe al dominio dell’uomo. Infine, non ci sono selvaggi «buoni» perché viventi allo stato di natura, ma genti degenerate perché dimentiche delle regole di ogni equo e perciò differenziato consorzio (gli Yahoos di Swift, ripresi dall’ultimo Bor­ges narratore).

Riepilogando: la favola e la fiaba – en­trambe da collegare etimologicamente a fari e psicologicamente alla nozione di «parola» eccellente e perduta, o favella di Dio – sono di ausilio al cosmos orga­nizzato secondo limiti invalicabili e freni punitivi; esse – superando la ripugnanza che suscita questo gergo – devono essere considerate «strumento di repressione». L’utopia è invece il tristo disegno che il demonio – principe con ingannevoli ca­ratteristiche divine – suggerisce ai suoi fedeli o ai traviati dal diritto sentiero, per ottenere l’avvento del caos che è il solo impero da lui riconosciuto. Certo, l’a­bilità dei suoi mezzani consiste nel bla­terare secondo registri di contraffazione che possano frodare chi, non immemore di esempi favolosi, è però sordo al loro insegnamento più sottile e verace: la fe­licità, il bando degli egoismi, la fine della violenza, l’esser fratelli, sono fra i motivi che più si prestano al grossolano travesti­mento diabolico(2).

2. Scandalo della ragione

Ciò che primamente colpisce nella disquisizione fabulatoria di Borges è il deliberato proposito di non ricorrere a tecniche «originali» o che almeno tali vogliono apparire. Ciò rimanda ad un suo tipico e mantenuto atteggiamen­to spirituale antiromantico, in sé non disprezzabile se si pensa che prescinde dagli usuali motivi in cui cade l’antiro­manticismo: esaltazione della ragione, linearità dello sviluppo letterario e scien­tifico, falsa esumazione di chiarezze e simmetrie «classiche», idolatria del do­cumento, storicismo, eccetera. Questo atteggiamento antiromantico consiste nella valutazione di un avvenimento o di un’opera solo se essi non sono stati nominati o concepiti per la prima volta; si tratta in sostanza di uno stato mentale tipico del Medio Evo – pensiamo subito all’Infante Juan Manuel e ai tardi alunni del romanzo cavalleresco, specialmente al Montalvo – che, pur di non cadere nel peccato di novità, giunge a fingere di aver «trovato» un certo manoscritto o udito un certo racconto. Nulla, per l’uomo di quel tempo, era degno di essere saputo o detto se già non era stato detto o saputo dagli «antichi»; da qui la sua grande vir­tù, disprezzata dal romanticismo di ver­sante moderno: l’emulazione, nel senso più ristretto di tale parola, cioè «l’arte di somigliare ai modelli».

3. Contro l’«originalità»

I modelli di Borges sono a loro volta i più sicuri spregiatori dell’originalità e gli assertori più convinti dell’osserva­zione malinconica o retriva della storia: tra gli spagnoli, in primo luogo, Cer­vantes, Quevedo e Torres de Vilarroel(3); tra gli stranieri, Dante, Shakespeare, Coleridge, fino ai più recenti Carlyle, Poe, Bloy e Nietzsche(4). Ma questi sono nomi che possiamo ricavare più da una paziente escussione delle citazioni, che non da una filiale e sistematica elezione di tecniche, se non di idee. Dietro c’è una maniera antica di concepire il sapere che non ha nulla a che vedere con le «scelte ideologiche», la «cultura» e con la fissa­zione sul suo asserito compito nobilitan­te. La cultura di Borges è «erudizione»; quella che ingiuriano le nullità scolasti­che perché non contribuisce a far girare la ruota del tempo; quella che si incentra su nozioni che non tendono a distrugge­re sfruttando, né al non-essere mutando senza posa, ma a comprendere e ad «ama­re» ogni parola che Dio ha scritto nel suo libro; quella che semmai propende a scoprire cause, non ad asservire effetti, come vuole la dannazione di ogni scienza anche filosofica(5).

Da qui discende pure quell’amore per l’argentinità che scompare, coi suoi vol­ti del coraggio pampero e della libertà per essere uomini, opposta alla licenza ad essere docili strumenti nella macchi­na perfetta dell’efficacia europea; qui è pure da vedersi la radice dell’amarezza reazionaria in quel poco che nell’opera di Borges può essere assimilato a ideali politici comunemente intesi. Qui, infine, il volersi libero prolungamento della Spa­gna cavalleresca e avventuriera dei grandi secoli, alla quale guardavano gli occhi dolenti del Quevedo difensore, e che era il disdoro dei dottori della sua ago­nia: «Spagna del bisonte, a cui la morte / sarebbe venuta dal ferro e dal fucile, / sui prati d’Occidente, nel Montana, / Spagna dove Ulisse agli Inferi discese, / Spagna dell’ibero, del celta, del punico e di Roma / Spagna dei forti visigoti, / di stirpe scandinava / che sillabarono e obliarono la scrittura di Ulfila / pastore di popoli, / Spagna dell’Islam e della ca­bala / e della Notte Oscura dell’Anima / Spagna degli Inquisitori […] / Spagna della lunga avventura / che seppe leggere nei mari e soggiogare imperi»(6).

4. Somigliare ai modelli

L’arte di «somigliare ai modelli» si manifesta in ogni opera dell’Argentino, ma è specialmente nell’Aleph (1949) che può osservarsi questa precisa attitudine speculare: l’Aleph è infatti una rutilante gemma di cristallo nella quale si riflet­tono miriadi di volti, di proporzioni, di realtà misteriose, di luci, la cui molteplice diversità vuole esprimere l’inconoscibi­lità razionale dell’universo. Solo la lette­ra-sfera degli ebrei è capace di compren­dere – multum in parvo –, come nella visione del Castello teresiano, tutti gli splendori della foresta del Creato. Una volta osservata la sua incomparabile sin­tesi, sembreranno sterili e insulse tutte le speculazioni approssimative che prescin­dano dal potere folgorante della Grazia.

Il primo racconto dell’Aleph si presta all’interpretazione di un fallito viaggio iniziatico, col suo lento degradare – a chi è pronto al linguaggio dei maestri erme­tici – che somiglia ad una morte chimica o putrefazione: da una relazione trovata fra le pagine dell’Iliade settecentesca di Pope risulta che Fabrizio Rufo, tribuno roma­no di una legione dioclezianea accam­pata sulle rive del Mar Rosso, dopo aver tentato senza fortuna glorie marziali, ha intrapreso un viaggio per la Città degli Immortali. Fabrizio Rufo ha le prime no­tizie sulla città da un cavaliere ferito che proviene dall’India ed è diretto ad Oc­cidente, verso il fiume segreto che libera gli uomini dalla morte, in riva al quale sorge la metropoli leggendaria. Il cava­liere muore quando sta per rimettersi in cammino; Rufo allora, seguendo le indi­cazioni dello sconosciuto, intraprende il suo viaggio verso il paese che, secondo al­tre testimonianze raccolte fra tribù mau­ritane, si troverebbe nei Campi Elisi o ai limiti della terra. Attraversa il paese dei trogloditi che si cibano di bisce e discono­scono l’uso della parola, poi quello dei ga­ramantidi che hanno le donne in comune e si nutrono di leoni, poi quello degli au­giti, adoratori del Tartaro. Cento deserti e cento brughiere abitate da mostri e larve (e il continuo riferimento odisseo non è certo casuale e trova piena giustificazione alla fine del racconto). Poi, finalmente, ecco all’orizzonte stagliarsi le torri della città: per accedervi è però necessario gua­dare il fiume e inerpicarsi per le balze di un altipiano. Il romano penetra in una caverna al fondo della quale è una scala che s’inabissa fino alle tenebre inferiori e giunge ad una camera circolare con nove porte. Da qui si dipartono corridoi fitti­zi, rampe di scale che non conducono in nessun luogo o a finestre che si aprono su robuste pareti, ad usci che danno nel vuo­to. Tutto fa pensare ad una incompiuta opera di iddii, scacciati da una più forte razza di usurpatori, anch’essa scomparsa.

5. La violenza alchemica

Il racconto si conclude con la fuga del tribuno dalla città e con la sua rinuncia al regno immortale. Fabrizio non ha sa­puto, all’ultima muta questione, dare la risposta che avrebbe trasformato il caos in un mondo logico e ordinato. Resta­no però i motivi ermetici del viaggio ad Occidente, delle peripezie fra contrade e mostri selvaggi, ed esseri illusori, fatti di pura frode(7), i motivi del fiume lustrale, della zona elevata, immagine del Paradi­so, della discesa nella caverna – cioè nel cavo del cuore, sede del Sé –, della came­ra a nove porte(8), della tenebra e dell’in­spiegabilità del mondo fin quando lo squarcio della violenza alchemica o il favore divino non provochino l’estrema contemplazione. Ognuno di tali topoi meriterebbe di essere analizzato singo­larmente e ciò non è lo scopo di questo articolo, che intende mostrare per cen­ni una logica di insieme non solamente letteraria né genericamente «filosofica» nell’opera di Borges(9).

Il racconto che dà il titolo all’Aleph può esser considerato come indiretta rivinci­ta rispetto alla frustrazione della prima favola. Cosa non singolare in Borges, l’inizio ha uno sconcertante andamento ironico con l’impareggiabile ritratto di un poetastro infatuato dagli orpelli del progresso. La sua presentazione merita di essere riportata: «Mi pare di vedere l’uomo moderno – diceva con una in­comprensibile eccitazione – nel suo labo­ratorio o nel suo studio, come se si tro­vasse sulla torre di vedetta di una città, circondato da telefoni, da telegrafi, da fo­nografi, da apparecchi radiotrasmittenti, da cinematografi, da lanterne magiche, da glossari, da orari, da prontuari, da bol­lettini… Aggiunse poi che per un uomo dotato di tali mezzi lo stesso viaggiare era diventato inutile; il nostro ventesimo secolo aveva trasformato la parabola di Maometto e la montagna. Erano le mon­tagne che ora dovevano venire al moder­no Maometto! Simili idee mi sembrava­no talmente stolte, così pomposamente inutile e smodata la loro esposizione, che immediatamente fui indotto a metterle in relazione con la letteratura»(10).

La «letteratura» è giustamente ritenu­ta la madre di molta petulanza scientifi­ca, di quella garrula iattanza che, sempre martellante, raggiunge punte infernali ogni qual volta una nuova «conquista» si aggiunge alla lunga serie di turpitu­dini planetarie. Eppure il rapsodo dei telefoni e degli orari ferroviari si trasfor­ma – strumento incosciente nelle mani del caso – nel tramite insospettato per l’estasi davanti all’Aleph, prima lettera dell’alfabeto sacro variamente descritta dai mistici(11).

Gli emblemi degli orientali sono i più adatti a suggerire se non a descrivere la cosa inenarrabile: un mistico persiano parla di un uccello che, in un certo modo, è tutti gli uccelli, Alanus de Insulis di una sfera il cui centro è in ogni luogo e la circonferenza in nessuno, Ezechiele di un angelo a quattro volti che guardano ad Occidente e ad Oriente, a Settentrio­ne e a Mezzogiorno(12). Borges si sforza di essere preciso ricorrendo anche lui alla insostituibile metafora sacra: «Per la Cabala questa lettera esprime l’En Soph, l’illimitata e pura divinità; vi si poté pure ravvisare la figura di un uomo che indica il cielo e la terra, come a significare che il mondo inferiore è specchio e mappa di quello superiore»(13).

Con questa citazione siamo entrati nel pieno dell’argomento che il titolo del nostro scritto vorrebbe rammentare: l’u­niverso di Borges, come quello di Leon Bloy, è da considerarsi «libro di Dio»(14).

6. Il rabbino e il Golem

L’ordinata complessità di questo giar­dino celeste non tollera perturbazioni e tradimenti: chi fa violenza al Creato, vo­lendosi sostituire al suo Artefice, è desti­nato – se pure ne è capace – a conoscere il tormento del rabbino praghese mentre osserva il goffo e inutile dimenarsi del fan­toccio che una fabbrica estranea al seme e alla vita ha consigliato alla sua superbia: «Il rabbino lo guardava con affetto / e con un certo orrore. Come (si chiese) / potei generare questo infelice figlio / ri­nunciando all’inazione, che è saggezza? / Perché volli aggiungere all’infinita / serie un simbolo ancora? Perché alla vana / matassa che in eterno si dipana / diedi nuova causa, nuovo effetto, nuova pena? / Nell’ora dell’angoscia e della dubbia luce / sul suo Golem lo sguardo tratteneva, / chi potrà dirci quello che pensava / Iddio, guardando il suo rabbino a Praga?»(15).

Osservando il suo rabbino, Dio sente forse la stessa tenera tristezza, lo stesso stupido pentimento che prova il sacerdo­te ebreo davanti alla sua creatura. Non gli sarà questa ribelle come lui stesso è stato al suo Signore?

Meditando su componimenti poetici così pregni di significati che vanno oltre i confini di quel che si chiama «lettera­tura», si rimane meravigliati di fronte ai giudizi – per altri versi validi e acuti – dell’Alazraki, secondo il quale «Borges estrae dalla teologia la trama per tessere le sue finzioni, mostrando così che il suo interesse per certe dottrine poggia sul suo valore estetico e meraviglioso. Facendole discendere dal loro piedistallo divino e trasformandole in elemento di letteratura fantastica, Borges sublima il suo essenzia­le scetticismo in arte»(16).

L’opera di quest’autore risulterebbe così un abile e virtuoso susseguirsi di giuochi funambolici eseguiti al solo scopo di in­cantare il lettore col fascino di una scrittu­ra insolita, disseminata di colpi di scena(17).

7. L’allusione al mistero

Per noi le cose stanno in modo diame­tralmente opposto: Borges è costretto a ricorrere alla parola scritta per allude­re – in una misura che sa approssimata e difettosa – a mysteria tremenda che la mente moderna, diseducata alla felicità intuitiva, non può neppure immaginare attraverso un procedimento descrittivo avente parvenze razionali. Uno spirito scettico non ama la favola, né gli elemen­ti di tipo Ganz Andere, totalmente altro, che ne sono imprescindibile sostegno, ricorre piuttosto al conte philosophique, i cui intenti sono tanto moraleggianti e intellettualistici quanto estranei ad ogni sincero andamento misterioso.

Che sia così lo dimostra la maniera borgesiana di affrontare il cosiddetto meraviglioso e la sua più volte dichiarata noncuranza a convincere chicchessia del­la bontà o giustezza di una determinata idea, «missione», quest’ultima, alla qua­le difficilmente rinuncia – pur nella sua tolleranza – uno spirito veramente scet­tico, cioè settecentescamente libertino.

Il citato critico mostra poi la vera cagio­ne di tanta ingenuità da «ricercatore» quando si azzarda a sostenere che «la visione microcosmica dell’universo (si riferisce all’Aleph e ad analoghi simu­lacri), che avviene in un ambiente di de­gradazione, compie due funzioni: primo, spingere la nozione panteistica alle sue conseguenze estreme; secondo, deridere la serietà di tale dottrina»(18). Chiunque abbia la pur minima idea non già del si­gnificato, ma solo del linguaggio che vor­rebbe adoperare Alazraki, si accorge che questi si muove in un terreno che disco­nosce totalmente ma nel quale persevera con l’ausilio di qualche scadente lettura del genere «teosofico». Se avesse senti­to di Milarepa o avesse consultato solo qualche fonte cristiana orientale e occi­dentale, saprebbe che spesso la «degra­dazione» è il teatro perfetto dei massimi fulgori contemplativi.

8. La storia: rovine circolari

Il «libro di Dio» permette interpola­zioni e deduzioni di ogni genere, che par­tono dall’idea di compiutezza e inaltera­bilità del tutto, scritto con mano celeste. È questo il motivo delle false citazioni, dei testi apocrifi, dei molti eteronimi che lasciano perplesso il recente lettore di Borges. Se la storia non discorre seguen­do una linearità progressiva – come non discorre secondo Borges, e secondo ogni sapere che ha preceduto l’attuale civiltà – essa non solo non insegna nulla, ma è lecito persino trasferire un certo avve­nimento, già «precipitato» in un ciclo concluso, in un’epoca che si vorrebbe illuminare e interpretare secondo una chiave eterna.

Come nelle leggende immemorabili, alcune narrazioni borgesiane escludono ogni riferimento ad un tempo storico de­limitato e possono essere accadute sem­pre (c’era una volta è espressione delicata e sagace insieme, perché la volta è di per sé ognora rinnovabile). Similmente al Car­taphilus dell’Immortale, anche l’omo­nimo ebreo errante e molti personaggi mitici che gli si associano hanno un ince­dere perenne e onnipresente che permet­te loro di assistere col giusto distacco ad avvenimenti che sembrarono decisivi ma che sono soltanto parole nel libro divino; e le parole si ripetono sovente, anche se in apparenza cambia il loro senso.

«Percorsi nuovi regni e nuovi imperi. Nell’autunno del 1066 combattei sul ponte di Stamford, mi pare tra le schie­re di Aroldo, che presto vide compiersi il suo destino, o forse in quelle dello sven­turato Araldo che poté conquistare sei piedi di terra britannica o poco più. Nel settimo secolo dell’Egira, trovandomi nei pressi di Bulaq, trascrissi con calma grafia – in una lingua che ho dimenticato e in un alfabeto che ignoro – i sette viaggi di Sindbad e la storia della Città di Bron­zo. In un cortile delle prigioni di Samar­canda divenni abilissimo nel giuoco degli scacchi. A Bikanir fui astrologo e così in Boemia. Nel 1638 mi trovavo a Kolozsvár e poi a Lipsia. Ad Aberdeen nel 1714 pre­notai i sei volumi dell’Iliade di Pope che poi lessi con diletto. Verso il 1729 par­lai dell’origine di questo poema con un professore di retorica, chiamato, credo, Giambattista, e le ragioni da lui addotte mi sembrarono irrefutabili.»(19) Questo brano, tipico della fabulazione di Borges, fuga ogni sospetto sulla gratuità fanta­stica della sua opera: ogni luogo e ogni nome visitato con la mente è indicativo di una speciale storia e geografia esoterica che ricorre nello pseudo Lullo e in Arnal­do da Villanova, in Giuda Abravanel e in Agrippa, nei Lapidari alfonsini e nei centoni e nelle cronistorie tardo-latine. Un simile linguaggio potrebbe arrivare a Cagliostro e a Martinez Pascualis(20). Lo stesso riferimento a Giambattista Vico è tutt’altro che casuale, ché l’idea della sto­ria come successione di circoli conclusi appartiene anche al filosofo napoletano, come all’Argentino il recupero del nietz­schiano motivo dell’eterno ritorno(21).

9. La vittoria sul tempo

Codesta «mancanza di rispetto» per le leggi del tempo, anzi, questa continua sfi­da al suo trascorrere, non implica però un riconoscersi nell’indistinto, ma, al con­trario, una vittoria su di esso, colta me­diante la periodicità e la ricorrenza – ele­menti che contribuiscono, come insegna Mircea Eliade, a rompere l’omogeneità del tempo ed a costituire, come nello spa­zio, una sua porzione sacra ed incorrotta. È significativa a tal proposito l’opposizio­ne messa in rilievo da Borges fra l’opera di un Kipling e quella di un Kafka: «Nulla c’è a prima vista in comune fra i due, ma in realtà la preoccupazione del primo è la difesa dell’ordine e di un ordine preciso; quella del secondo l’insopportabile e tra­gica solitudine di chi è privo di un luogo esatto, sia pure umilissimo, nell’ordine dell’universo»(22).

La nozione di universo come totalità dominata attraverso cosmogonie e teo­fanie è fondamentale nell’opera poetica, narrativa e saggistica di Borges. La pre­occupazione di «tornare alle origini», arrestando lo scorrere distruttore dei millenni, è alla base del suo concepire universi nei quali è superflua ogni media­zione filologica e financo intellettuale(23). È scritto nei libri ermetici – ricorda nei Teologi – che ciò che sta sotto è riflesso di ciò che è sopra, e nello Zohar che il mon­do inferiore è riflesso di quello superiore; infine, senza giungere all’eresia dei cosid­detti monotoni o anulari, che nulla è che non sia stato e non sarà.

10. L’argentinità, o della nostalgia

La creazione intellettuale di Borges è quindi – rilievo non superfluo – quanto di meno «impegnato», o schiavo del­la storia e delle idee correnti, sia stato espresso dalla contemporanea letteratura di lingua spagnola. Questa libertà non è però, come crede di rilevare la critica pro­gressista, di natura «evasionistica», ma è il virile rifiuto a farsi corista di un’opera che sarebbe buffa se non avesse aspetti squallidi e truffaldini: firmare manife­sti, mentire svenimenti per le ingiustizie sociali, fingersi paladini dell’equilibrio ecologico, «insorgere» in difesa dei di­ritti civili, digiunare in nome di cause peregrine ma sempre opportunamente calibrate dalle centrali della menzogna collettiva. Non una sola di queste «cau­se», che ogni uomo libero deve aborrire o alle quali deve guardare con profondo sospetto, non è motivata da ragioni sorte nel terreno della civiltà moderna e non è sua sostanziale componente. Chiunque condanni i risultati immancabili delle ideologie che tuttavia continua a venera­re è solo un serioso pagliaccio che lo scon­volto ordine politico ha proiettato sulle cime della società dal giovevole lazzaret­to civile nel quale era isolato(24).

Jorge Luis Borges non solo non ha mai servito simili «campagne» – né, con quanto sopra s’è detto, ciò può destare meraviglia – ma non ha tralasciato occa­sione nella sua opera e nella vita pubblica per dichiararsi ostile a tutto ciò che sul piano filosofico e politico ne costituisce l’indispensabile ambiente. Non ci rife­riamo naturalmente solo alla sua recente e «provocatoria» affiliazione conserva­trice, ma a tutta una somma di miti civili e umani che egli è andato illustrando in quasi mezzo secolo di vita letteraria.

Fra questi sembrano specialmente in­dicativi quelli dell’onore, del coraggio e della tradizione. Tre valori giustamente ritenuti probanti di una stretta parentela fra la radice intellettuale e peculiarmente «religiosa», che ci siamo sforzati di lu­meggiare, e «amori» politici che, senza troppa difficoltà, possono intravvedersi fra le pagine borgesiane. Chi è avvezzo alla coerenza e alle deduzioni non potrà restare deluso: un autore che s’è formato a Quevedo, a Torres, a Schopenhauer, a Nietzsche, a Carlyle ed a Kipling – per fare qualche nome alla rinfusa – difficil­mente non sarà reazionario in politica. Nelle interviste concesse a Stelio Cro, Borges ha confermato che il suo spesso malinteso gauchismo e le sue pagine com­mosse in difesa del patriottismo creolo – che in nulla ricorda quello democrati­co e la retorica del «popoli oppressi» – vogliono essere un canto all’Argentina semi-feudale e paternamente schiavista per la quale si sono battuti i suoi antenati e quell’avo spesso ricordato che passò la vita combattendo, e combattendo morì nel Paraguay. Era «un Paese poco popo­lato, nel quale quasi tutti si conoscevano. Era inoltre un mondo un po’ feudale nel quale, per esempio, gli schiavi prendeva­no il cognome dei padroni […]. Appresi dalla mia nonna Haedo che i negri ave­vano dimenticato che i loro padri erano stati venduti come schiavi e che se si fosse loro parlato dell’Africa non avrebbero pensato a nessun legame fra quel nome e loro stessi. Certi miei parenti, i Llavallol, ancora ben conosciuti, divennero potenti esercitando il commercio degli schiavi». Allo studioso europeo che resta perples­so davanti a tanta sincerità, anche se non stupito, da conoscitore qual è dell’opera di Borges, questi riafferma i suoi imper­donabili amori: nostalgia per le tradizio­ni di vita patriarcale e pastorale, vergo­gna per l’attuale stato di «cittadino» al quale è negata ogni pagina epica dell’e­sistenza. «Ecco Buenos Aires. Il tempo che agli uomini / regala l’oro o l’amore, a me lascia soltanto / questa rosa estinta, quest’inutile glomero / di strade che ri­petono i nomi antichi / del mio sangue: Laprida, Cabrera, Soler, Suárez. / Nomi che mi riecheggiano (segrete) le diane, / gli Stati, i cavalli e le mattinate, / le felici vittorie e le morti militari.»(25)

Esaltazione del Sud, dei grandi alleva­tori creoli, in opposizione alle province settentrionali piene di immigrati dediti alla piccola agricoltura, identificazio­ne con un suo personaggio che, mentre muore sotto i ferri di un chirurgo, sogna di cadere combattendo per riconquistare la regione dei padri. Borges parla ancora di un suo racconto, La otra muerte, nel quale un vecchio gaucho è attanagliato dal ricordo della sua prova non valoro­sa alla battaglia di Masoller e che riesce a liberarsi da quel rimorso solo quando giunge a «sentirsi» caduto in quella battaglia, «ottenendo con una forza magica della volontà la morte che aveva ambito»(26).

11. Soldati e colonizzatori

Borges non è e non si sente uno sradi­cato, come spesso succede all’intellet­tuale idealista refoulé; non è in «rotta con la società», della quale non intende denunciare se non ciò che essa presenta di meno stabile e differenziato. Non ama essere considerato «figlio d’arte» e del­la sua lunga carriera tace volentieri – o rinnega senza ambiguità – il periodo del brancolare avanguardistico in Europa; è orgoglioso di discendere da una stirpe di colonizzatori e soprattutto, sottolinea, di soldati. Da una progenie che ha por­tato in America la Spagna di Juan de Ga­ray, fondatore di Buenos Aires, e di Irala, fondatore di Asunción.

L’antiperonismo di Borges – che non data, come per altri suoi colleghi e conterranei, dalla caduta di Perón – è propriamente antidemagogia, ostilità «criolla» a forme di governo che attua­no la sovversione dall’alto del potere, appoggiandosi sugli strati meno solidi e più recenti dell’inurbamento gringo. È a questo proposito da rilevare che tra i movimenti di lontana ispirazione fasci­sta, già di per sé sospetti per ciò che con­tengono di totalitario e massificante, il cosiddetto giustizialismo è stato, prima e dopo la dittatura di Perón, assimilato ai movimenti di sinistra dei quali ha prov­visoriamente assorbito la vitalità. L’an­tiperonismo di Borges è, come lui stesso ha più volte chiarito, opposizione ad una tirannia destinata ad essere sfruttata dal comunismo(27). Altrettanto importante in questo inciso ci pare la sua difesa di Leopoldo Lugones, il grande poeta suo ispiratore, che passò dalle infatuazioni anarchiche e democratiche della gioven­tù ad aperte (e non ancora graziate) sim­patie per i sistemi fascisti. Si tratta sem­pre di affinità e di moti dell’animo che dicono qualcosa su una posizione ideale che è stata sempre aliena da «prese di ser­vizio» e servilismi.

12. L’affinità coi profeti

La ricerca continua di un asse segreto nel «libro di Dio», con l’ausilio non di speculazioni meramente razionali ma con il loro scandalo, cioè con la remini­scenza fabulatoria, erudita – se si vuole, eclettica – di nozioni e discipline senza tempo, associa il magistero di Borges a una condizione del sapere e dell’agire poetici che devono farci respingere come insulso e infecondo ogni giudizio critico basato su parametri recenti. A lui deve guardare ogni artista veramente libero per avere una guida sicura dopo il prov­videnziale fallimento di tutti gli -ismi letterari, remoti e prossimi. In lui è l’antica affinità dei poeti coi profeti, e così il parlare e l’aver assunto con umil­tà una parola sapienziale che nella sua «difficoltà» non è mai impenetrabile. La cieca veggenza di Borges ricorda in ciò quella di certi maestri antichi. Sotto la Babele dei suoi testi – autentici e apo­crifi, non fa differenza, come nell’Età di Mezzo – è la ricerca dell’occulto dia­mante a doverci guidare, a farci destare dal sogno del mondo e dalla sua allucinazione.

Note

  1. Cfr. Thomas Molnar, Breve discorso su mito e utopia, «La Destra», n. I, p. 64; nel resto dell’articolo l’opposizione fra i due concetti non appare in tutta la sua fonda­mentale drasticità. Ciò specialmente a p. 65, dove si riporta l’opinione del Döblin, secondo il quale «caratteristica dell’utopi­sta è quella “d’interrompere la storia […] per giungere ad una condizione stabile di perfe­zione”. Da ciò consegue(ndo) che l’utopista non manifesta alcun desiderio di riformare la società». Ora, l’utopista (e non solo il moderno spacciatore di droghe anarchiche) è un adoratore della storia il cui discorrere condurrebbe da solo non ad una «condizio­ne stabile di perfezione» (essendo ogni idea di compiutezza e stabilità estranea alla sma­nia degli utopisti) ma ad un ennesimo mu­tare di paesaggio e di condizioni (le «rifor­me») che sono il suo domicilio mercuriale.
  2. Sul fantasticare come strumento dia­bolico e sulla sua presenza nella concezione di tutte le utopie e «ideologie» moderne è essenziale il saggio di Elémire Zolla Storia del fantasticare, soprattutto pp. 32 e segg. Qualcuno finge di non aver capito come l’ideologia sia la sola condizione affinché la frenesia utopistica si ammanti con par­venze di pensiero a mendicare una dignità che mai le concessero gli antichi: «Se la ideologia provoca l’apparenza, al contrario l’utopia è il sogno del vero e giusto ordine di vita» (Horkheimer); infatti – esemplifi­cando – «anche se il marxismo si oppone al socialismo utopistico poiché muove non dal semplice ripudio dell’esistente, ma dalla sua negazione dialettica, cioè da una negazione che comporta una conoscenza scientifica di ciò che esiste e delle sue leggi, può esser defi­nito utopistico nel senso che il suo fine ulti­mo è negare ciò che esiste e proclamare la sua dissoluzione». Questo rantolare del nuovo illuminismo davanti ai puntuali fallimenti delle sue sempre inaudite e opportunistiche «istanze» è stato registrato da Arnehelin Neusüss nel suo Eutopía, Barcellona, 1971. In difesa delle favole si veda il gentile, splen­dido libro di Cristina Campo, Il Flauto e il Tappeto, Milano, 1971.
  3. II primo, come si sa, adopera l’espe­diente del rinvenimento del codice del Chi­sciotte «escrito por Cide Hamete Benengeli, historiador arábigo» (D. Quijote de la Man­cha, parte I, cap. IX) e allo pseudostorico farà riferimento non sempre esclusivamente ironico (come avviene in Borges). Il secon­do è certamente l’autore più coerentemente «antieuropeo» della letteratura barocca e il più sicuro avversario di ogni novazione in campo religioso e politico. Il terzo, settecentesco alunno del precedente, è una delle fi­gure più enigmatiche e sconcertanti del suo secolo e un critico acutissimo della scienza nuova. A Torres è dedicato il primo articolo delle Inquisiciones di Borges (1925).
  4. Utile ma puramente enumerativo è al riguardo l’articolo di Victoria Ocampo, Visión de J. L. B., in «Cuadernos del Con­greso por la libertad de la Cultura», Parigi, n. 55, 1961.
  5. La precarietà del sapere filosofico come pura speculazione umana e il logico succe­dersi di scuole e sistemi che invariabilmente si negano con analogo procedimento ri­saltano in due saggi di Borges inclusi nelle Otras Inquisiciones (1952): La perpetua gara fra Achille e la celebre tartaruga e Vicissitu­dini della tartaruga, imperniati sul celebre paradosso di Zenone.
  6. In Obra poética (1964), pp. 255 e segg. Il volume comprende El Hacedor e gli altri componimenti poetici.
  7. Rammenta Santa Teresa che «in po­che dimore di codesto Castello non si sarà affrontati dai demoni. Vero è che in alcune stanno le guardie, disposte alla battaglia – come mi pare di aver definito le poten­ze – ma è mestiere non tralasciar nulla per scoprire gli stratagemmi dell’avversario che può trarre in inganno presentandosi come angelo fatto di luce. Egli possiede mille strumenti per farci del male senza che ce ne accorgiamo, e fino a che non avremo fatto la prova non ne saremo coscienti» (Moradas del Castillo Interior, cap. 2, in Obras comple­tas de Santa Teresa de Jesús, BAC, Madrid, 1967, p. 371).
  8. Sul simbolismo del nove come multi­plo del manuelino «conto esatto» si veda il preciso e documentato articolo di Enri­que de Rivas, Tracce del simbolismo esoterico nel «Libro degli Inganni» e nell’esempio 11 del «Conte Lucanor», in «Conoscen­za Religiosa», n. 3, 1970, pp. 362 e segg. Nello stesso studio si trovano ragguagli sul motivo della caverna e della camera sotterranea, come emblemi del cuore e del «centro del mondo». Quasi tutti gli esem­pi addotti appartengono alla tradizione ispano-islamica.
  9. Ben poco è stato fatto dalla critica che esca dai consueti accumuli che costituisco­no, come noto, «il materiale delle pubbli­cazioni». Quel poco che ecceda gli schemi puramente letterari e di «ricerca» formale si deve a: A. M. Barrenechea, El infinito en la obra de J. L. B., in «Nueva Revista de Fi­lología Hispánica», n. 10, 1956, e El tiempo y la eternidad en la obra de J. L. B., in «Re­vista Hispánica Moderna», gennaio 1957, n. I; R. Gutiérrez Girardot, J. L. B. Ensayo de interpretación, Madrid, 1959; Jaime Alazraki, La prosa narrativa de J. L. B., Ma­drid, 1968. Si veda la prima parte, Temas.
  10. J. L. Borges, El Aleph, p. 201; cito dall’ed. Pianeta di Barcellona, 1969.
  11. Borges rifiuta seccamente le inevitabi­li interpretazioni psicanalitiche alle quali potevano prestarsi certi suoi personaggi, ad esempio il persecutore perseguitato ne La muerte y la brújula, il Giuda come Cristo in Tres versiones de Judas, un dio cercato da una turba che non sa di essere essa stessa il dio cercato in El acercamiento al Almotásim, ec­cetera. Su questo rifiuto, molto significativo per l’inquadramento intellettuale dell’Au­tore, ci sembra interessante riportare un brano di conversazione con uno studioso italiano. L’argomento concerne i personaggi dell’Aleph: «C. Quindi lei ci dà l’interpre­tazione psicanalitica della quale ha parlato un momento fa. / B. Se io avessi immaginato che poteva somigliare a una interpretazione psicanalitica non avrei mai scritto l’articolo, io detesto la psicanalisi. Ma, pur senza voler­lo, tutti noi siamo contemporanei di Freud e soprattutto di Jung, che mi sembra più in­teressante. / C. Nell’Aleph lei dice: Beatriz perduta per sempre; per cui avremmo perdu­ta per sempre Beatriz nell’articolo, e Beatriz perduta per sempre nel racconto. / B. Sì, sono le parole rivolte al ritratto e che certamente ascolta l’ubiquo Carlos Argentino Daneri (cioè il poetastro). / C. Esatto. Orbene, io mi sono azzardato a fare una specie di pa­rallelismo: Beatriz Viterbo – Beatrice Por­tinari; Carlos A. Daneri – Virgilio; Borges – Dante. / B. Caspita, non ci avevo pensato! Però, povero Virgilio, che diamine, parago­narlo a quell’imbecille. Beh, comunque ha la sua funzione…». Cfr. Stelio Cro, J. L. B. Poeta, Saggista e Narratore, Milano, 1971, pp. 254 e segg.
  12. J. L. Borges, El Aleph, cit., p. 212.
  13. Ivi, p. 216.
  14. Per Léon Bloy gli uomini «sono ver­setti o parole o lettere di un libro magico, e questo libro senza fine è l’unica cosa che veramente esista al mondo: anzi è esso stesso il mondo» (Otras Inquisiciones, Buenos Ai­res, 1964, pp. 162 e segg.).
  15. J. L. Borges, Obra Poética, cit., pp. 171 e segg.
  16. Jaime Alazraki, op. cit., p. 78.
  17. «Interpretazione» puntualmente rac­colta da Ferdinando Castelli S. I., J. L. B. funambolo di gran classe, «La Civiltà Cat­tolica», n. 2915, 1971. Per il critico religio­so l’opera di Borges «è un codice disperato perché […] manca di speranza e d’amore. Gli uomini nel Vangelo di Borges si posso­no aiutare e compatire, non amare». La sua «Weltanschauung poggia sul vuoto metafi­sico», eccetera (pp. 436-437).
  18. Jaime Alazraki, op. cit., pp. 79-80.
  19. J. L. Borges, El Aleph, cit., pp. 25-26.
  20. Qualcosa deve ancora aver «sentito» Jan Potocki nel suo viaggio in Spagna e Ma­rocco nel 1780 e 1781, altrimenti ben dif­ficilmente uno spirito illuminista e avancé come il suo avrebbe potuto concepire quel curioso e mirabile libro che è il Manuscrit trouvé à Saragosse.
  21. A Nietzsche e alla sua concezione del tempo sono dedicati due saggi di Borges compresi nella Historia de la eternidad: La dottrina dei cicli e Tempo circolare: quest’ul­timo contiene acuti accostamenti che vanno dalle Riflessioni aureliane a Vico e Spengler.
  22. J. L. Borges, Otras Inquisiciones, cit., p. 3. La precisazione non ci sembra oziosa dato che spesso il testo di Borges prende un anda­mento labirintico – nei simboli, nello stile, nei testi portati a collazione, nella loro Me­desima sostanza – che ha fatto parlare ripe­tutamente di whitmaniana «enumerazione caotica» come suo tratto stilistico essen­ziale. Ma se il labirinto è stemma del caos, il filo d’Arianna o la parola di passo sono la condizione per averne la signoria: «Io amo la parvenza del caos con la presenza intima e segreta del cosmo» (cit. in Stelio Cro, op. cit., p. 259).
  23. Buon esempio di ciò è il racconto-sag­gio Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, compreso nelle Ficciones.
  24. Sulla falsità di posizioni ambiguamen­te antiscientiste, sostanzialmente garanti delle basi intellettuali della nuova strego­neria, cfr. Rodolfo Quadrelli, Da padrone a servo, in «Conoscenza Religiosa», n. 3, 1970.
  25. J. L. Borges, Obra Poética, cit., pp. 144 e segg.
  26. Si veda l’intervista nel citato volume di Stelio Cro, pp. 246 e segg. Mi limito a ri­portare quel che pare essenziale ai fini di un profilo ideale.
  27. Fatto abbastanza sintomatico, anche se discutibile, Borges ha recentemente trovato una relazione fra il peronismo e la posizione politica di Neruda. Questi, infatti, «gran­de poeta e uomo che giudico spregevole, ha scritto un libro sui dittatori dell’America Latina in cui erano inclusi parecchi brani contro gli Stati Uniti, per quanto sapesse benissimo che erano tutte fandonie, ma non una sola parola contro Perón […]. L’anno in cui mi recai in Cile, e le nostre idee erano diametralmente opposte, egli fece la miglior cosa che potesse fare: se ne andò in vacan­za per tre o quattro giorni, cosicché non si presentasse alcuna occasione di vederci». Cfr. il recente libro di Richard Burgin, Conversazioni con Borges, Milano, 1971, pp. 102-103.

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