Il bianco, il nero e il rosso

Errico Passaro
Jorge Luis Borges – Il Bibliotecario di Babele n. 12/2017
Il bianco, il nero e il rosso

L’assassino gongolava. Aveva portato a compimento la sua ultima impresa e ora, al sicuro nel suo rifugio segre­to, si godeva l’ennesimo momento di celebrità.

Quasi sommerso da ritagli di giornali, mappe cittadine, foto di persone e luoghi cerchiate e appuntate a pennarello, un tele­visore a ventinove pollici rimandava le immagini del notiziario della sera. Il mezzobusto raccontava, con tono di circostanza, la cronaca dell’ultimo efferato crimine del Mostro di ***, senza lesinare dettagli truculenti sullo stato in cui erano stati trova­ti il corpo della ragazza e il luogo del delitto. Poi le interviste di rito: i concittadini della vittima abbondavano con generosi necrologi, d’obbligo in quelle situazioni; le autorità politiche invitavano il loro elettorato a non farsi prendere da psicosi col­lettive; gli inquirenti assicuravano che il cerchio si stava chiu­dendo intorno all’assassino e presto il “mostro” sarebbe stato assicurato alla giustizia.

Lui, l’interessato, sogghignò. Sapeva che la verità era un’altra. Magistratura e questura brancolavano nel buio – come si diceva nel vieto linguaggio da “nera” – e non avevano il benché mini­mo indizio su cui far avanzare le indagini. E lui, il “mostro”, sapeva perché. Non era un mostro, ma molti mostri.

Spense il televisore e accese, una a una, con lentezza cerimo­niale, le candele che davano luce al suo covo. Il suo sguardo per­corse compiaciuto le pareti dell’ambiente, dove falde d’ombra si alternavano a vacillanti aureole di luce rossastra, e trovò scaffali ricolmi di libri e riviste, fogli volanti, foto, stampate di compu­ter e scatoloni di cartone a loro volta pieni di ninnoli e cianfru­saglie, ciascuno munito di un suo preciso significato, ciascuno funzionale al grande disegno di morte concepito dal “mostro”. Oggi era il Mostro di ***. Ma ieri? E domani?

La sua ultima incarnazione, il Mostro di ***, appunto, si ac­caniva su giovani prostitute dell’Est. I criminologi da salotto televisivo si erano spesi in prevedibili analisi alza-share, evo­cando il fantasma del “missionario”, l’assassino seriale che si credeva investito dall’alto del compito di ripulire il mondo da tutto il marcio che vi allignava: lui sorrise, a sentirsi descrive­re come una personalità affetta da turbe del comportamento sessuale derivanti da qualche malformazione fisica o da qual­che stupro infantile perpetrato in famiglia, su cui s’innesta­va un’educazione religiosa integralista e repressiva. Qualche altro opinionista l’aveva buttata in politica, sostenendo che il sanguinario uccisore se la prendeva esclusivamente con le immigrate e, quindi, era il frutto bacato di un’incosciente cam­pagna xenofoba. Parole, parole, parole… una cortina di paro­le dietro cui lui aveva tutto l’agio di nascondere e preparare il prossimo colpo ad effetto.

L’occhio gli cadde su un angolo della parete, dove si concen­travano armi, reperti e memorabilia vari di un altro filone di uccisioni. All’epoca era conosciuto come Copycat, che imitava lo stile di altri assassini seriali. Di quel tempo conservava un coltellino svizzero, una manciata di polaroid, alcuni capi di ab­bigliamento intimo femminile. Ricordava con piacere le muti­lazioni sessuali cui si era dedicato: avrebbe continuato ancora per un po’ su quella falsariga se non avesse cominciato a sentire sul collo il fiato dell’Unità Analisi Crimini Violenti. A quel punto, si era messo sotto traccia e aveva lasciato depositare il polverone alzato dai media e dalla polizia scientifica.

Al lato opposto della stanza, adocchiò un altro gruppo di testimonianze: un fascio di disegni infantili, un cappio, una lancia termica… Memorie dell’identità di Punitore – questo il nomignolo affibbiatogli dalla stampa – cui aveva dato vita dopo il clamore suscitato dalle imprese di Copycat. Anche quell’alias gli aveva dato non poche soddisfazioni: tutt’altro modo di pro­cedere, certo, ma era ugualmente appagante vedere tutto l’ap­parato militare delle forze dell’ordine ruotare senza costrutto intorno alle poche e fuorvianti prove da lui disseminate a bella posta sulla scena del crimine. Il Punitore si rifaceva alla Divina Commedia, sottoponendo le vittime a torture mutuate dai gi­roni infernali: commissari di Pubblica Sicurezza e ufficiali dei Carabinieri avevano avuto un bel scimmiottare i loro infallibili colleghi delle serie televisive, ma alla fine, inevitabilmente, ave­vano finito per non cavare un ragno dal buco.

Aveva avuto altri “avatar”. Erano come i “periodi” creativi de­gli artisti, talmente diversi gli uni dagli altri da far sembrare concepite da diverse mani le varie opere. Solo che i suoi passaggi da una tecnica all’altra non erano frutto di una naturale evolu­zione, ma del serrarsi delle ricerche della polizia e del tendersi della sua persona verso sempre nuove metamorfosi.

E pazienza se il modus operandi contraddiceva tutta la lettera­tura scientifica prodotta in materia.

La sua era una partita a scacchi con la Legge. Più che il de­litto, lo eccitava l’idea dell’impotenza dei suoi tutori. Godeva a vedere tutte quelle uniformi girare a vuoto per il Paese, uno spiegamento di uomini e mezzi buono più per tranquillizzare l’opinione pubblica che per raggiungere l’obiettivo. Quando, alla fine, giungevano a un palmo da lui, quando ormai le pattu­glie cominciavano ad avvicinarsi alla sua tana, quando i tasselli del mosaico investigativo iniziavano finalmente a combaciare, disegnando una rappresentazione dei fatti verosimile, ebbene, in quel preciso momento spariva dalla circolazione, taceva, os­servava, per poi riciclarsi in un nuovo personaggio di fantasia.

E ora si trovava, appunto, in uno di quei momenti di passaggio. Il Mostro di *** aveva fatto il suo tempo. Le potenziali vittime erano troppo guardinghe. La rete di controllo si era fatta a ma­glie strette. Il gusto che traeva a beffare il dispositivo poliziesco si stava appannando. Doveva cambiare i panni dell’uccisore, ancora una volta, prima di raggiungere il punto di non ritorno. Nelle pareti del suo guscio protettivo cercava ispirazione per la successiva maschera.

Lì per lì non riuscì a trovare un’idea, uno spunto da cui par­tire per la sua nuova personificazione. Era molto stanco, la giornata gli aveva succhiato energie dal corpo e dalla mente. Si coricò sul suo giaciglio, si buttò addosso una coperta e si ad­dormentò di colpo.

Si svegliò nel pieno della notte per un insieme di motivi: lo stomaco reclamava acqua e cibo; la vescica chiedeva di esser li­berata; la testa risuonava delle voci d’un sogno di cui non ram­mentava il corso. Rimase supino sul letto senza rispondere alle proteste del suo fisico e si guardò attorno, pigramente.

Era lì da qualche minuto e stava quasi per assopirsi, quando la sua attenzione fu catturata dal titolo di un libro che giaceva di traverso su una delle mensole a muro. S’intitolava La scacchiera ed era firmato da un certo John Brunner. Non sapeva per quale strano scherzo del destino si trovasse dove si trovava, ma riuscì a scatenare dentro il suo cranio un’associazione mentale. Forse era la metafora di lui che giocava a scacchi con la Legge…

Quasi in stato di dormiveglia, si alzò e recuperò il libro dalla mensola. Più che un volume era un albo pieghevole, che porta­va in copertina un’illustrazione dalle suggestioni surrealiste di tale Karel Thole: pezzi umani su una scacchiera, busti raffigu­ranti un generale, una dama, un uomo di affari e altri personag­gi minori; sullo sfondo, le forme geometriche di una città del futuro. In basso a sinistra, data (2-9-1979) e prezzo (lire 900) riportavano indietro nel tempo, a un’era passata per la quale provava un’oscura mescolanza di rimpianti e nostalgie. Sfogliò le pagine ingiallite, che sembravano doversi sbriciolare da un momento all’altro fra le sue dita: i caratteri erano sistemati a doppia colonna, un tipo d’impaginazione che non si usava più e aveva un fascino retrò.

In un’ipotetica capitale sudamericana arrivava Boyd Ha­klyut, un celebre urbanista, con l’incarico di razionalizzare il caos della metropoli. Un’attesa snervante e inspiegabile in do­gana era il preludio di una serie di delitti, suicidi, incarcerazio­ni, duelli e sommosse, tutti quadri di un gioco di potere in cui l’uomo si ritrovava a svolgere letteralmente il ruolo di pedina: l’intreccio corrispondeva, infatti, agli schemi di una partita a scacchi giocata nel 1982 fra i campioni Steinitz e Cigorin; gli individui avevano poteri all’incirca equivalenti a quelli delle fi­gure che li rappresentavano; gli eventi avevano un corrispettivo nelle mosse, nell’ordine esatto e in corrispondenza con il loro effetto nella partita originale. Interessante. Davvero interessante.

D’un tratto uscì da quella strana forma di sonnambulismo, colpito da un’intuizione folgorante. Sapeva ciò che l’aspettava nell’immediato futuro.

Perché non giocare alla lettera quella famosa partita con la Legge? Perché non individuare negli agenti, nei funzionari di polizia, nei giudici, nei giornalisti e nelle vittime, rispetti­vamente, i pedoni, i cavalli, gli alfieri, le torri, i re e le regine del Giocatore avversario? Perché non iniziare quel gioco a eli­minazione, guidato da una logica stringente e letale, lasciando agli investigatori tracce sparse per far capire loro in quale trama agghiacciante fossero rimasti invischiati?

Interessante, davvero. Una geniale variazione sul tema. Un salto di livello nella rischiosa contesa con il nemico. Un pro­getto di morte organizzato secondo leggi e simmetrie rigorose, simili all’ordinamento dell’universo.

Avrebbe dovuto documentarsi, organizzarsi. Avrebbe dovuto rivoluzionare l’approccio alle vittime e ai difensori. Ma aveva tempo, tutto il tempo del mondo. La partita era appena cominciata.

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