Borges e Olivetti, eternità e futuro

Veronica Ronchi
Jorge Luis Borges – Il Bibliotecario di Babele n. 12/2017
Borges e Olivetti, eternità e futuro

Jorge Luis Borges e Adriano Olivet­ti, pur sapendo l’uno dell’esistenza dell’altro, non si sono mai incontra­ti. Le loro vite si sono però incrociate nel mondo della letteratura e dei libri, grandi passioni di entrambi. Un ritrovamento fortuito nell’archivio Olivetti di Ivrea, mentre cercavo notizie sull’apertura dell’impresa in Argentina, mi ha per­messo di far dialogare questi due grandi protagonisti del XX secolo. Riporto qui le parole pronunciate nel febbraio 1961 da Jorge Luis Borges, direttore, durante l’inaugurazione della sala Camillo e Adriano Olivetti, della Biblioteca Nacio­nal de la República Argentina [Archivio Olivetti – Ivrea, traduzione nostra].

«Signore e signori, dedichiamo questa serata al ringraziamento per la splendida donazione di libri che l’impresa fondata da Camillo Olivetti e oggi fatta progre­dire da Adriano Olivetti ha fatto a questo luogo, la Biblioteca nazionale dell’Argentina. I fatti importanti, e questa donazione di libri dall’Italia lo è, mi pare avvengano su due piani, uno temporale e uno eterno. Sul piano temporale oggi riceviamo que­sta collezione di libri italiani, sul piano eterno si sta compiendo un atto che tutti conosciamo: possiamo dire che l’Italia dona sempre libri al mondo, e la prova di ciò è che, ringraziando in questa remota città sudamericana della donazione rice­vuta, lo faccio in una lingua che è un dia­letto della lingua imperiale di Roma. Que­sta lingua che usavano, prima che esistesse lo spagnolo, gli spagnoli romani Seneca, Lucano e Quintiliano.

«Se è vero, come si dice, che tutte le stra­de portano a Roma, questo accade perché tutte le strade partono da Roma, perché Roma è con Atene e Israele una delle sorgenti di ciò che chiamiamo la cultura occidentale e che una volta si chiamava impero di Augusto.

«So poco del carattere inquieto e pro­fondamente umano di Adriano Olivetti, ma mi è chiaro come questa donazione faccia parte della sua persona. Sono mol­te le istituzioni culturali del mondo che hanno ricevuto un incisivo appoggio da parte di quest’uomo, che curiosamente si dedicò all’industria e alla sensibilità dello spirito. Ora tocca a noi argentini far parte di questo ringraziamento pressoché uni­versale. Il suo nome rimarrà in una delle sale della biblioteca come eloquente testimonianza delle mie parole.»

* * *

Adriano Olivetti: La riconosco: pur venendo da lontano, lei è sempre stato di questi luoghi.

Jorge Luis Borges: [tra sé e sé: Che stra­no trovarsi qui, di solito in questi dialoghi mi piace incontrare solo me stesso]. Vorrei avere anch’io la fortuna di riconoscere qualcuno allo sguardo, ma il crepusco­lo dell’esistenza me lo impedisce. Sento però la sua voce, calma e cristallina. Dove ci troviamo?

O. Nella patria dei nostri decessi.

B. Ah, la Svizzera! La città di Ginevra mi è sempre stata cara. Forse perché mi ricorda una felice adolescenza di lettore insaziabile. Ma veniamo alla ragione per cui siamo qui: nelle nostre vite ci siamo solo sfiorati, ma ho sentito molto parlare di lei e delle sue imprese eroiche. La sua figura ha sempre destato grande curiosità in me.

O. Non che il mio fosse prettamente eroismo. Diciamo che il momento storico di certo ha contato molto.

B. Di sicuro, per lei c’è stato l’aiuto alla fuga di Turati e il carcere nel ’43, momen­ti quasi epici. Io lasciai questa triste sorte a mia madre e mia sorella, che si opposero a un altro regime al di là dell’Atlantico, solo cinque anni più tardi. Le situazioni si somigliano, ma, disgraziatamente, non sono mai stato un uomo d’azione.

O. Ma lei è tra i maggiori letterati del XX secolo e il suo nome splende nell’Olimpo, insieme a quello di Omar Khayyám.

B. Prima del nostro arrivo, niente man­cava al mondo; dopo la nostra partenza, niente mancherà. Siamo tutti destinati all’oblio, e quello di Khayyám giungerà ben oltre il mio. La grandezza dei Persia­ni sta nel fatto che hanno capito di po­ter esprimere tutto con pochi simboli: la rosa, il vino, la spada, la luna. In que­sti simboli c’è tutto, c’è l’immortalità. Confesso però che avrei preferito un de­stino epico, come quello dei miei padri. D’altronde, l’epica è l’unica cosa che mi commuove. Mio nonno materno, Isidoro Acevedo, combatté contro Rosas; il mio bisnonno materno, il colonnello Manuel Isidoro Suárez, fu vincitore della batta­glia di Junín a ventisette anni, l’audacia fu appannaggio della sua spada. Dall’al­tro lato il nonno paterno, il colonnello Francisco Borges, morì durante la Batalla de la Verde nella rivoluzione mitrista del 1874. In effetti sono anche l’altro, il mor­to, l’altro del mio sangue, del mio nome. Il valoroso muore una volta sola, il codardo cento, diceva Shakespeare.

O. Suo padre però ha rotto questa tradizione.

B. È vero, fu professore di psicologia; tuttavia, fu un uomo valoroso. Credo concorderà con me che dobbiamo en­trambi molto al genitore. Il mio mi regalò una biblioteca che mi sembrava immensa.

O. Il mio una fabbrica altrettanto gran­de, un’incalcolabile sfida. Ricordo che mi disse: «Puoi fare tutto quello che vuoi, ma non licenziare qualcuno a causa dell’introduzione di nuove tecnologie».

B. Non restò deluso, dunque.

O. Mio padre era un socialista, mai avrei potuto tradire la sua memoria.

B. Però lei trasformò la fabbrica in qual­cosa di diverso.

O. La fabbrica, io credo, è parte del de­stino dell’uomo – o, meglio, è una comu­nità di destino. Ciascuno nel suo ambito e nella sua funzione lavora, nella mia idea di industria, a un fine coordinato. Ma la tecnica deve essere al servizio dell’uomo. Quando la fabbrica si ferma, i problemi tecnici spariscono, ma il problema fon­damentale dell’uomo resta, ed è ancor più chiaro.

B. Il personalismo cristiano non mi ha mai riguardato, dell’intimità non mi sono mai occupato, non sono stato né fe­lice né particolarmente capace di amare.

O. Però ha amato molto Buenos Aires, come io Ivrea.

B. Abbiamo creduto in cose diverse. Buenos Aires esiste per me nella lettera­tura. Quando si è ciechi, poi, non ha im­portanza dove si risiede, perché si vive con cinque o sei persone.

O. Tuttavia, di Buenos Aires ha scritto anche da vedente.

B. Certo, anzi, il Fervor de Buenos Aires esercitava su di me un fortissimo ascen­dente. Tuttavia, non è questa l’Argentina che voglio cantare, ma è l’Argentina epica, l’Argentina dell’indipendenza e dell’or­goglio, quella della lotta contro Rosas.

O. Anche per me Ivrea era una città da rendere immortale. Ci vivevano però gli eroi contemporanei, gli architetti di un presente che sapeva già di futuro.

B. Architetture industriali capaci di integrare la funzionalità della fabbri­ca con la bellezza estetica e il rispetto ambientale; luoghi del lavoro pensati a misura d’uomo ma compatibili con le esigenze economiche e produttive; piani urbanistici e quartieri residenziali, bi­blioteche e servizi sociali, colonie, mense e asili nido pensati e costruiti per fare di un’area industriale un territorio dove la vita dell’uomo non fosse sacrificata agli scopi della produzione, ma rispettasse le esigenze delle persone e della società. Questo è quel che ho visto del suo lavoro.

O. E io del suo ho visto l’universo (che altri chiama la Biblioteca), che si compo­ne d’un numero indefinito, forse infini­to, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati da basse ringhiere. Da ogni esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabil­mente. La distribuzione degli oggetti nel­le gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, co­prono tutti i lati meno uno; la sua altezza non supera di molto quella d’un normale bibliotecario. Il lato libero dà su un angu­sto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte.

B. Mi complimento per la memoria, somiglia alla mia. La storica biblioteca di Babele mi è sempre parsa così, imma­ginavo chi ne potesse prendere possesso e potesse perdervisi, in un luogo eterno ma presente.

O. La storia non mi ha mai interessato, il mio orizzonte è sempre stato il domani.

B. Un capitano d’impresa difficilmente può fare diversamente, deve vedere il futu­ro, se spera che il suo sforzo gli sopravviva.

O. Indubbiamente. Del passato si occu­pino i nostalgici, gli storici, gli uomini di lettere.

B. Ora che ci penso, lei è uno strano connubio tra uomo di lettere e d’azione. Ricordo con immenso piacere – ma anche con un certo stupore – il suo invio di una bellissima collezione di testi in italiano alla Biblioteca Nacional di Buenos Aires, di cui allora ero direttore.

O. La ringrazio per aver dedicato una sala di quella biblioteca a me e a mio padre. È stato un gesto di grande bellezza. L’idea di sopravvivere a noi stessi in un luogo che si trova al di là dell’Atlantico, tra i Paesi più lontani eppure così vicini all’Italia, ha un grande fascino esotico.

B. La biblioteca è una forma di eternità, un modo di superare i limiti di tempo e spazio. La biblioteca perdurerà: illumina­ta, solitaria, infinita, perfettamente im­mobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta. La biblioteca segna il destino dell’esistenza, è il sigillo dell’uo­mo. Per esempio, la biblioteca di Kipling era piena di libri tecnici, militari e nava­li. Quella della mia infanzia era colma di libri argentini, ma c’era anche l’enciclo­pedia britannica, e mi sembrava infinita. Com’era la sua?

O. La biblioteca Olivetti a Ivrea mi ha reso molto orgoglioso. Si componeva di cinquantamila volumi, divisi in tre sezio­ni: culturale, scientifico/sociale e ricre­ativa. Gli operai leggevano moltissimo, eppure non ho mai voluto che questo gioiello fosse una biblioteca aziendale, ma pubblica.

B. L’Olivetti è stata un’impresa di gran­de rilievo anche in Argentina. Lo stabili­mento di Merlo, nato nel 1961, è stato tra i più belli e avanguardistici mai costruiti nel mio Paese. E il suo grande insegna­mento è rimasto: la scuola per i ragazzi, le aree di ricreazione, i convegni alla scuola elementare d’insigni scrittori argentini.

O. Tra cui lei. Ho saputo della sua confe­renza sulla letteratura fantastica nella no­stra scuola, nell’aprile del 1967: i ragazzi ne furono entusiasti.

B. Credo che per loro quella scelta fu molto azzeccata. E poi il testo venne pub­blicato. Mai avevo visto un’industria operare anche nell’editoria.

O. Educare i giovani alla comprensione dei valori della cultura è stato uno dei miei obiettivi primari e vedere che tale scelta è stata quella dei miei successori ha signifi­cato che ogni sforzo non è stato vano. Con Edizioni di Comunità abbiamo introdot­to quella che reputavo l’avanguardia del pensiero comunitario in Italia. Perché la comunità è il riferimento dell’uomo.

B. La mia è stata una comunità creata in­torno alle riviste, i miei amici appartene­vano tutti a «Sur». La nostra è stata forse un’epoca di riviste, non crede?

O. Già, l’architettura in volumi per me è stata una vera passione, ma anche, con «Rinascita» e «l’Espresso», un grande cruccio.

B. Checché lei ne dica, la comunità di destino è un’utopia, e a questa utopia di­spendiosa preferisco altro. Del resto, come diceva Verlaine, qui stiamo parlando noi due, tutto il resto è letteratura.

O. Il nostro incontro lo prova.

B. Quest’incontro potrebbe far parte degli elogi del ricordo impossibile, tra i quali mi sarebbe piaciuto annoverare il ricordo vivo di un discorso di Socrate. Per me, la domanda fondamentale riguarda il tempo. È un problema essenziale, dell’i­dentità personale. Io non sono sempre stato lo stesso. Potrei essere lei ma non lo sono, sono Borges. Il passato è per la mag­gior parte dimenticato, ma esiste. E lì sta tutto il mistero del tempo. L’idea del tem­po e della memoria mi ha sempre inquie­tato. Diceva Blake che il tempo è un dono dell’eternità, il quale ci permette di vivere anche dopo la morte.

O. Non vi è alcun dubbio, infatti siamo qui.

B. Ogni uomo è una moltitudine, soste­neva Stevenson: forse siamo tutti i nostri avi e coloro che ci hanno preceduti.

O. Lo siamo, così come l’Olivetti e l’Aleph sono in qualcun altro.

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