"Rito d’amore". Ultimo amore cannibale

Saccà Valentino
Aldo Lado n. 9/2019

Il tema dell’antropofagìa, all’interno delle pratiche del nostro cinema di genere, viene spesso ricondotto al filone cannibalico, molto popolare e frequentato tra il finire degli anni Settanta e gli Ottanta. Film come Ultimo mondo cannibale (1977) o Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato partono da un discorso antropologico serio per poi regalare efferatezze splatter. In questo filone la figura del mangiatore di carne umana è sempre legata al selvaggio, nel contesto della ritualità di continenti lontani.

Esistono però anche opere peculiari in cui il cannibalismo viene affrancato da una visione esotica e tribale e inserito in contesti civilizzati: è il caso di Rito d’amore (1989), uno tra i lavori meno apprezzati e visti di Aldo Lado, autore abilissimo nel mescolare orrore e sensualità.

Nella mise en scène ladiana esiste un elemento stilistico quasi sempre presente, che consiste in un incontro erotico-amoroso strutturato in maniera ritualistica. In molte sue opere si avverte spesso questa propensione alla dimensione cerimoniale del rapporto fra i due sessi, con una costruzione precisa nella preparazione dei corpi in vista dell’atto amoroso, sia nel caso della possessione brutale (L’ultimo treno della notte [1975]), sia in quello dello scambio sentimentale (La cosa buffa [1972]). Rito d’amore suona come l’epitome di questo concetto, fondendo il rituale amoroso con quello cannibalico attraverso una sofisticazione della figura antropofagica che, pur mantenendo l’esotismo a livello etnico (qui si tratta di un giovane giapponese), si emancipa diventando un colto intellettuale.

Il punto di partenza della storia è un fatto di cronaca nera. Nel 1981 il trentenne Issei Sagawa si trova a Parigi, dove frequenta il corso di Letteratura inglese presso l’esclusiva università della Sorbona. Durante le lezioni di Letteratura comparata conosce la sua futura vittima, Renée Hartevelt, olandese di 25 anni. Il giovane giapponese, durante una sessione di studio con la ragazza, la uccide con un colpo di fucile alla testa e la mangia. Da questo fatto, che diviene tristemente famoso in tutto il mondo, otto anni più tardi Lado trae lo spunto per la realizzazione della sua pellicola, eliminando totalmente la matrice cronachistica della vicenda e facendone un erotico-cannibalico non esente da un’inedita dimensione filosofica e visionaria. Rito d’amore non va infatti confuso con la produzione-fiume di erotici anni Ottanta: a tale proposito, nella sequenza in cui Valerie posa nuda all’Istituto di Belle Arti, i dettagli anatomici ravvicinati del corpo di Beatrice Ring, al di là del dato voyeuristico, posseggono una freddezza quasi medica.

Se nella prima parte del film Valerie risulta maggiormente attratta dal corpo maschile – quindi da una sessualità esplicita che si palesa nel sassofonista Peter (suo fidanzato) – più la storia procede e più in lei prevale la curiosità maliziosa di conoscere un altro tipo di erotismo maschile: quello della mente e dello spirito. La vicinanza di Yuro la conduce infatti verso la completa conversione a una sensualità filosofica, che la porta inevitabilmente a un punto di non ritorno.

Lado pare inserire volutamente delle figure allusive, come quella del sassofono (riferimento a Il miele del diavolo di Lucio Fulci [1986]? Poco probabile) reiterata più volte, mimando prima un senso di desiderio verso la virilità del musicista e poi di perdita della stessa (immagine finale del sassofono). Da notare che, dopo aver fatto l’amore con Peter, Valerie lo osserva con bramosia fumando una sigaretta mentre lui, in controcampo, suona nuovamente il suo strumento a torso nudo. Questa simbologia sessuale, invero piuttosto prevedibile, viene però poi negata da una dimensione misterica, dalla propensione a un erotismo che compendia mente e corpo, carne e spirito. Dimensione trascendentale e trans-carnale che Valerie raggiungerà solo tramite Yuro. A questo proposito, è interessante l’osservazione di Manlio Gomarasca e Davide Pulici presente nel volume La piccola cineteca degli orrori: «Il mutuo desiderio ha qui varcato il limite banale dell’amplesso, facendosi brama di compenetrazione totale, assoluta: smania irrefrenabile di fusione, di inglobamento dell’altro; fino alla sua ingestione»1.

Mai un erotico-patinato di quegli anni si è spinto tanto oltre: Lado pare quasi irridere lo spettatore ingannandolo con una blanda verniciatura softcore, per poi procedere verso una sottile ambiguità erotico-filosofico-cannibalica totalmente estranea al genere, con «un’arditezza che colpisce all’interno di un film che ci fa credere per tutta la prima parte di essere non più che un dozzinale erotico italiano fine anni Ottanta»2.

Nel primo quarto d’ora, la vita di Valerie viene ritmata da un soundtrack danzereccio che scandisce la sue frenetiche giornate tra provini e lezioni di danza. Da quando iniziano gli incontri erotici con Yuro il ritmo si fa più disteso, organizzato in una struttura ritualistica sul modello dei Pinku Eiga giapponesi. I due amanti, posti uno di fronte all’altra, si spogliano lentamente nella penombra bluastra della stanza, mentre dietro di loro l’intelaiatura del separé disegna una croce: ecco che Lado organizza lo spazio lavorando sull’essenzialità, evitando qualsiasi forma di sensazionalismo erotico-violento, che resta confinato nella zona dell’inconscio come nel caso del sogno della decapitazione. In questo modo si crea un’atmosfera funebre, in cui il desiderio viene aumentato dalla sacralizzazione del gesto e dal momento dell’attesa contemplativa.

Nonostante gli evidenti limiti tecnici (montaggio approssimativo, musiche poco ispirate di Pino Donaggio), Love Ritual (questo il titolo per il mercato estero) resta un film intrigante nella fulgida filmografia ladiana, e pare davvero limitativo ricordarlo solo per l’innegabile sex appeal di Beatrice Ring.

L’autore di Fiume dimostra anche una certa attenzione verso la valenza drammaturgica dell’impaginato: sui titoli di testa mostra un cielo nuvoloso – che da blu sfuma nel rosso sangue come preludio al delitto che verrà consumato – per poi riprendere la sequenza nel finale. Questo esempio di mise en abyme, difficile da rintracciare nei prodotti di un filone solitamente più attento al lato esibizionistico che a quello diegetico, fa di Rito d’amore un testo più evocativo che rappresentativo, anteponendo simboli o parole all’immagine esplicita. Lado tenta di fondere coraggiosamente l’eros italico e quello di un certo cinema d’autore giapponese (specie quello di Nagisa Ōshima) ottenendo un film spurio, ibrido e appunto per questo ambiguamente affascinante.

Note

1) Gomarasca Manlio, Pulici Davide, La piccola cineteca degli orrori. Tutti i film che i fratelli Lumière non avrebbero mai voluto vedere, Rizzoli, Milano 2009.

2) Ibidem.

 

 

CAST & CREDITS

Regia: Aldo Lado; soggetto: Aldo Lado; sceneggiatura: Aldo Lado, Luigi Spagnol; fotografia: Gábor Pogány; scenografia: Alessandra Rapattoni; costumi: Elisabetta Fazio; montaggio: Otello Colangeli; musiche: Pino Donaggio (come Donaggio); interpreti: Beatrice Ring (Valerie, come Valerie Bosh), Larry Huckmann (Yuro), Francesco Casale (Peter), Natalia Bizzi (Louise); produzione: Futura Films; origine: Italia, Germania Ovest, 1989; durata: 87’; home video: vhs MultiVision, dvd inedito, Blu-ray inedito; colonna sonora: inedita.

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