Il Lado oscuro. Esperienze e sodalizi di gioventù

Rocco Moccagatta
Aldo Lado n. 9/2019
Il Lado oscuro. Esperienze e sodalizi di gioventù

Impossibile non amare i frutti fascinosamente velenosi dell’estro cinematografico di Aldo Lado lungo gli anni Settanta, dal folgorante esordio La corta notte delle bambole di vetro (1971) almeno fino a L’ultimo treno della notte (1975) e L’ultima volta (1976). Inutile (e forse pure insensato) invece, erigerlo ad autore e, come lui, tanti registi che, in quegli anni, navigano a vista tra l’estasi delle pratiche basse e l’enfer dei piani alti dell’industria. Però, anche se si dichiara, con una punta di civetteria, “solo” un artigiano del cinema, Lado, enigmatico fin da quel cognome anagramma del nome (e viceversa), ha una marcia in più rispetto a tanti colleghi. Probabilmente bisogna cercarla negli anni da aiuto-regista tra Francia e Italia. Lo sanno anche i sassi: Lado si mette in luce Oltralpe, a metà anni Sessanta, sui set di Anatole Litvak e Marcel Carné, ormai vecchi dinosauri incartapecoriti alle prese con co-produzioni elefantiache e farraginose. Per il cursus honorum è fondamentale per imparare a dominare il set e gli torna utile quando si riavvicina all’Italia. A mettere in sequenza, allora, i film di Lado come aiuto-regista (e co-sceneggiatore/soggettista), si resta colpiti dalla densità qualitativa di nomi e titoli, a cavallo tra generi popolari e autorialità. Non è tanto questione di capire quanto di Lado c’è nei film altrui, ma piuttosto di ribadire il suo non volersi collocare nel cinema italiano dell’epoca né tra gli autori dell’ANAC né tra gli artigiani “invisibili” alla Bava e Margheriti. Lado, insomma, si trova – un po’ per caso un po’ per felice intuito – in un’ideale intercapedine osmotica tra alto e basso in un momento particolare della storia del nostro cinema, quando un’epoca aurea sta cedendo il posto a un’altra ben più critica e ambigua.

Subito, quindi, dal 1967 al 1969, ci sono i western (soprattutto, ma non solo) dell’ex montatore divenuto regista Maurizio Lucidi: un sodalizio intenso nel ventre profondo del cinema di genere. In realtà, Lado in Italia è tornato perché Valerio Zurlini cerca un aiuto-regista che sappia il francese per il suo Il giardino dei Finzi Contini, poi saltato (lo farà nel 1970 De Sica). Le piccole produzioni alla Palombi & Silvestri, sicuramente un ripiego alimentare dopo i gigantismi dei set di Litvak e Carné, sono l’ideale per imparare a fare tutto nella fabbrica impetuosa dei generi popolari. Tant’è vero che Lado comincia pure a scribacchiare, partecipa alle sceneggiature, elabora soggetti. Lucidi, eterno trafficone sempre alla ricerca di denaro e di produttori in grado di garantirglielo, ne intuisce le potenzialità: ne fa un suo stretto collaboratore e gli scippa quasi subito il soggetto di La vittima designata (1971), che pure farà con altri sceneggiatori, anche se il nucleo di partenza è intimamente ladiano, fin dall’ambientazione veneziana. Anzi, proprio sulla sceneggiatura di La corta notte (quand’ancora s’intitola Malastrana) s’incrina il sodalizio, peraltro sbilanciato a favore di Lucidi, perché quest’ultimo lo propone alla Titanus come sua co-regia con Lado. Che però vuole esordirci da solo, fedele al proprio progetto di partenza, e si nega persino a Margheriti che glielo vorrebbe produrre per Ponti, ma solo a patto di girarlo in Grecia.

Su un set di Lucidi, il bellico Probabilità zero (1968) prodotto da Salvatore Argento, c’è anche la scoperta di una sintonia con un giovane Dario Argento, già critico cinematografico di «Paese Sera», ma anche sceneggiatore per altri (Sergio Leone in primis), in partecipazione forsennata a tanti copioni e alla ricerca di una propria strada. Anzi, proprio sulle ceneri di un’amicizia prende forma il fondativo L’uccello dalle piume di cristallo (1970), un capitolo ambiguo, a lungo rimasto oscuro, per volontà dello stesso Lado, che rivendica come propri, ma mai riconosciuti, una sceneggiatura e il suo punctum, desunto dall’unico motivo d’interesse (per lui) del romanzo di Fredric Brown all’origine del film, La statua che urla (un testimone in piena luce assiste a un omicidio, ma non vede l’assassino che, però, vede lui).

Proprio attraverso il romanzo di Brown c’è l’incontro con l’altro enfant prodige del cinema italiano, Bernardo Bertolucci, che vorrebbe portarlo al cinema prima di Argento, con il quale peraltro ha già scritto il soggetto di C’era una volta il West (1968). Lado, però, gli è affiancato nel 1970 come aiuto dal cugino produttore Giovanni Bertolucci per Il conformista (e poi sfiorerà pure Ultimo tango a Parigi, 1972, dove firma un contratto come collaboratore alla regia ma, in ragione dei ritardi imposti da Brando, deve rinunciare, anche se lascia in dote Maria Schneider, scoperta per caso grazie a Xavier Gelin, il fratellastro di lei, al quale aveva pensato per il ruolo andato poi a Léaud). Questa volta non si tratta tanto, come con Lucidi, di coadiuvare nel lavoro con gli attori un regista che è prima di tutto un tecnico, ma – al contrario – confrontarsi sul piano della tecnica con un regista poeta, cinéphile e figlio dei cineclub come Bertolucci. Lado ha un merito non da poco in Il conformista (dove, tra l’altro, asseconda la richiesta del regista, amico di famiglia, di usare la propria bimba di quattro anni come figlia del protagonista Trintignant): spingere Bernardo a considerare, accanto alla centralità assoluta del pianosequenza in movimento come opzione linguistica quasi univoca, le possibilità del montaggio, anche convincendolo a prendere Franco Arcalli come montatore al posto del rodato Roberto Perpignani. E Arcalli, che a Lado arriva dalla frequentazione veneziana giovanile di Brass (per il quale aveva avuto l’occasione, persa per un soffio, di fare da aiuto-regista nel suo film d’esordio Chi lavora è perduto [1963]), è un montatore vero, non semplice esecutore dei desideri del regista ma in dialogo continuo, anche acceso, alla ricerca di soluzioni sempre nuove. Bertolucci, dal canto suo, introduce Lado nei salotti e nei circoli letterari romani – che Aldo, da buon mitteleuropeo, ha sempre bazzicato poco – e nel cinema italiano di serie A subito dietro.

L’ultimo set con Lucidi – quello veneziano di La vittima designata – è letteralmente a pochi passi da un altro sodalizio nel Nord-Est veneto, sancito subito prima di camminare sulle proprie gambe: con Salvatore Samperi pre-Malizia (1973), prima come aiuto-regista per Un’anguilla da 300 milioni (1971), che Lado co-scrive, e poi, nel 1972, solo come co-sceneggiatore di Beati i ricchi (nel frattempo c’è già stata La corta notte). La coppia Samperi-Lado (l’uno padovano, l’altro veneziano d’adozione), nonostante una certa differenza d’età, esprime un idem sentire confermato nel montaggio di Arcalli, che nell’autore di Grazie zia (1968) e già dal precedente Uccidete il vitello grasso e arrostitelo (1970), ha trovato un altro spirito affine, dopo Brass e Bertolucci. Samperi gode di pessima fama, in quanto accusato di comportamenti non professionali e irresponsabili, anche se, in realtà, sconta il cattivo esito commerciale degli ultimi film. Con Lado c’è una splendida intesa nel camuffare sotto un nero grottesco, scivoloso come un’anguilla del Polesine, una vena di critica sociale anarcoide, che passa sotto il naso del produttore Coltellacci. L’alterità eccentrica di Samperi, nell’opinione del piccolo mondo pettegolo dell’industria cinematografica italiana, viene accettata allora grazie a Lado, che per contratto deve fare da aiuto-regista garante. Infatti, nel successivo Beati i ricchi, su un copione con gli stessi umori dell’Anguilla, ma inclinato verso la farsa, al produttore di turno (Clementelli) non serve più una simile garanzia. D’altronde, in quel momento, Lado sta già preparando il suo secondo film da regista, Chi l’ha vista morire? (il primo con l’Enzo Doria produttore del Grazie zia samperiano) e – benché non gli ripugni affatto l’idea di fare ancora l’aiuto, almeno per un Bertolucci (al quale addirittura farebbe da «portatore d’acqua sul set») – indietro ormai non si torna.

Infine, come se già non bastasse l’affascinante bosco dei sentieri incrociati appena tratteggiato, aleggia pure il fantasma sfuggente della primissima versione del Salò. Il tempo di Sodoma, scritta da Lado con Pupi Avati per l’Euro, prima che il progetto si riconverta in opus pasoliniano assoluto.

E qui, è il caso di ricordarlo en passant, ha ragione chi intravede una singolare sintonia tra i gironi sadiani di Pasolini e certi sentori ladiani nauseati da un Potere parassitario e sanguisuga dei suoi film anni Settanta.

 

 

 

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