"Alibi perfetto". La sublime sfacciataggine dell’eccesso

Fabrizio Fogliato
Aldo Lado n. 9/2019

Racconta Aldo Lado in un’intervista concessa a Manlio Gomarasca: «Alibi perfetto è un film che avevano già montato e gli mancava solo il regista e l’aiuto regista. Io sono entrato con il film in corso e ho cercato di mettere un po’ a posto la sceneggiatura, ma era un’impresa disperata. Mentre stavo girando mi hanno chiesto di farne un altro che si chiamava Berlino ’39 [poi diretto da Sergio Sollima, nda]. Mi danno questo copione da leggere che faccio volare in giardino perché era una cagata. […] Comunque devi capire che anche i Sollima, i Lado, quando hanno bisogno di soldi, fanno anche gli Alibi perfetto. […] Era un film fatto con pochi mezzi che doveva sembrare girato in America, invece eravamo alla Garbatella».

Il film fa parte di un pacchetto di pellicole prodotte dalla P.A.C. prima del suo fallimento. Opere destinate per lo più al mercato internazionale straight-to-video, che spesso vengono realizzate in modo molto diverso da come erano state pensate. Il primo plot di Alibi perfetto era incentrato sulla vendetta di una donna nei confronti dei suoi aggressori (anche per questo assunto da rape & revenge, forse, si spiega il coinvolgimento di Aldo Lado nell’operazione). In realtà di questa ipotesi nel film non c’è alcuna traccia e il regista è chiamato a mettere al servizio alimentare della pellicola tutta la sua inventiva artigianale per riuscire a ottenere un prodotto dignitoso (nulla più).

Se il cinema – nella sua dimensione più basica – è luce in movimento su uno schermo bianco, è evidente che quello che conta è l’immaginazione dello spettatore, capace di convocare mondi e rappresentazioni, frutto della sua (e altrui) percezione e fantasia: allora Lado dirige Alibi perfetto sedendosi non sulla sedia del regista ma sulla poltroncina della sala. Costruisce un caleidoscopio di immagini iconiche e mitiche che rimandano al campionario del già visto. Sulla passerella sfilano il cinema di Hong Kong, Hitchcock, Bava (padre e figlio), Fulci, Argento, De Palma, Demme, Antonioni, mentre lo scenografo Carlo Leva si arrabatta per replicare l’immaginario (di matrice televisiva) che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta ha fatto la fortuna delle serie crime detection. Lado usa la citazione sia come omaggio al cinema che ha visto e amato, sia come filo per cucire le diverse parti della sceneggiatura, con l’obiettivo di intrecciare ordito e trama senza che il film si sfilacci alla prima sequenza. Ci riesce utilizzando la partitura jazz di Romano Mussolini, metonìmia concettuale di questa parodia di tutti i generi e le icone che caratterizzano il cinema del periodo, da Il silenzio degli innocenti (1991) in giù. Prende la coppia para-televisiva composta da Tony (Michael Woods) e Lisa (Kay Sandwik) e la mette al servizio di una sorta di reality show in cui tutte le parti in causa non sono ciò che sono, ma rappresentazione di se stesse. Non solo Marco Beaumont (con il ricorso alla plastica facciale) o il patologo interpretato da Bobby Rhodes, ma anche e soprattutto la contessa Beaumont (Annie Girardot), vero e proprio intreccio fantasmatico tra Hannibal Lecter e la Marta di Profondo Rosso (1975). Nel film scorrono – fianco a fianco – una vicenda poliziesca alla Miami Vice – in cui tutti gli snodi narrativi sono virati alla parodia nella rappresentazione di un mondo criminale da fumetto comico – e una thriller, con serial killer sullo sfondo, che si fa beffe di ogni logica narrativa per puntare, semplicemente, all’esaltazione dell’effetto. Il colpo di scena è quantomai prevedibile, corrivo, ma utile a demistificare sia la tensione narrativa sia la suspense prodotta un’istante prima. La sequenza del ristorante – con tanto di presentazione televisiva di Romano Mussolini e del suo accompagnatore al basso – è il paradigma delle coordinate parodiche e reality su cui si muove il film: atmosfera lounge, luci soffuse, il jazz come sottofondo alla cena. Poi la camera si assesta all’esterno e comincia ad arretrare e allargare il campo, facendo entrare in scena una macchina con il motore acceso. Lo stacco di montaggio riporta all’interno, sul tavolo a cui sono romanticamente seduti Tony e Lisa. Anche in questo caso viene accentuato il lato parodico e dissacrante: lei che si macchia il vestito e si alza per andare in bagno nel momento esatto in cui l’auto fa irruzione sfondando l’ingresso. Ci si aspetta una carneficina e invece a uscire con le ossa rotte sono i criminali, spaventati dalla “Beretta da borsetta“ (!) di Lisa e dal suo successivo imbracciare il fucile a pompa che – anche per il vestito nero indossato – fa salire alla memoria l’iconica Christina Lindberg in Thriller di Bo Arne Vibenius (1974). Poi tutto si quieta: si immagina che Romano Mussolini si alzi da terra, si riassetti il vestito e si rimetta a suonare, e l’immediatezza da reality con cui è realizzata la sequenza diventa l’unica carta possibile da giocare per renderla credibile agli occhi dello spettatore. Così si muove l’intera pellicola, alla ricerca ossimorica di una coerenza contraddittoria che dia la possibilità di tenere assieme frammenti di cinema agé con riferimenti all’aria dei tempi. Chiaramente tutti recitano al minimo sindacale – compreso Philippe Leroy, improbabile e iracondo capo della polizia che rievoca alcuni tocchi del Gianni De Carmine di La mano spietata delle legge di Mario Gariazzo (1973).

Tuttavia non si può non sottolineare come la pochezza di mezzi, l’improbabile e assurda sceneggiatura, la recitazione dozzinale e le scenografie all’amatriciana trovino una compensazione nella sapienza creativa della regia di Lado, il quale intuisce, dall’alto della sua esperienza, che per salvare il salvabile bisogna buttare la palla in tribuna. Ribalta quindi l’assunto serioso di fondo e restituisce allo spettatore quello che egli non si aspetta: una parodia sfacciata, eccessiva, ridicola e debordante che, sin dal titolo, scopre le sue carte. Se l’alibi perfetto è quello della maschera facciale, con il serial killer che si nasconde – tramite operazione transgender – sotto le spoglie di un prestigioso avvocato, e se il pericoloso mafioso Mancini si consegna quasi in lacrime alla polizia una volta scoperto a rubare nella cassaforte del commissariato, il sublime lo si raggiunge nel finale: lo psicopatico, nell’ordine, tenta di uccidere Lisa, si spara un colpo in testa, poi resuscita e, tentando di accoltellare Tony, si perfora da parte a parte in un gesto di harakiri che, per traslazione dell’immaginario, non può che rimandare a quello metacinematografico dell’intero film.

 

Note

1 Gomarasca Manlio (a cura di), Percorsi alternativi (controcorrente 2). Guida al cinema di Aldo Lado, Francesco Barilli, Romolo Guerrieri, Nocturno Dossier n. 30, gennaio 2005, pag. 18.

 

 

CAST & CREDITS

Regia: Aldo Lado; soggetto: Dardano Sacchetti; sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Robert Brodie Booth, Aldo Lado, Paola Bellu (collaborazione); fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia: Carlo Leva; costumi: Antonietta Amato; montaggio: Piero Bozza; musiche: Romano Mussolini; interpreti: Michael Woods (ispettore Tony Giordani), Kay Rush (ispettore Lisa Bonnetti, come Kay Sandvick), Annie Girardot (contessa Beaumont), Philippe Leroy (commissario), Burt Young (Mancini), Bobby Rhodes (dottor George); produzione: Produzioni Atlas Consorziate; origine: Italia, 1992; durata: 91’; home video: dvd Flamingo Video, Blu-ray inedito; colonna sonora: Beat Records.

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