The Haunting of Hill House. "De rerum familia"

Mariangela Sansone
Mike Flanagan n. 16/2023

«Nessun organismo vivente può restare sano di mente a lungo, in condizioni di realtà assoluta; secondo alcuni, persino le allodole e le cavallette sognano. Hill House, che sana non era, si ergeva di fronte alle sue colline, in tutta la sua oscurità; era lì da un secolo prima che la mia famiglia vi si trasferisse e avrebbe potuto restarci in eterno. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi; il silenzio incombeva eterno sulle assi e le pietre di Hill House, e qualunque cosa vi si aggirasse, lo faceva sola».

I sogni straripano, a volte lo fanno come l’acqua da un bicchiere, ma i sogni dei bambini sono grandi, come l’oceano. Cos’è la paura? Un sogno che straripa o forse la realtà? Quanto di vero si cela in un sogno e quanto di irreale si nasconde nella realtà?
Il confine, talvolta, è talmente labile che immaginario e reale condividono lo stesso piano, sovrapponendosi e confondendosi. Bisogna strappare il velo di Maya che copre occhi e cuore per accettare una situazione apparentemente distante da ciò che si percepisce con i sensi. La trascrizione delle esperienze visionarie di uno sguardo che scandaglia la tenebra, muovendosi nella zona d’ombra tra sogno e realtà, è intercettata nel ritmo dilatato del dormiveglia, il sussulto dell’immaginario, concentrandosi sulle immagini ossessive del fanciullo sanguinante e del passaggio attraverso lo specchio, uno schermo che si scioglie in uno schermo d’acqua; il tutto in un’atmosfera convulsa, dilatata e allucinata, ma soprattutto in un universo alterato, percorso da furori cupi, visionari. In una nuova e sconosciuta epifania del reale.
La casa si erge come un monolite, cupo, misterioso e severo, un gigante fosco dagli occhi torvi, inospitale e burbero, un po’ come la casa degli Usher così ben descritta da Edgar Allan Poe: «Guardai ciò che mi stava dinanzi, il castello soltanto e in complesso quello che gli era d’intorno: i muri squallidi; le finestre come occhi spenti; pochi cespi di giunco; pochi tronchi bianchi di alberi risecchiti; e provai quel grave abbattimento dell’anima».
The Haunting of Hill House si apre sotto un cielo gonfio e senza stelle, in una notte popolata da incubi e fantasmi, strane presenze per i corridoi e nell’oscurità entità che si muovono a loro agio; nel paesaggio notturno e piovoso di Hill House, l’orrore si insinua e la morte è una presenza costante. La serie Netflix, scritta e diretta da Mike Flanagan, prende spunto dall’omonimo romanzo di Shirley Jackson, una delle più note storie di fantasmi del XX secolo (da cui erano già stati tratti, nel 1963, il capolavoro di Robert Wise, e nel 1999 il dimenticabile Haunting. Presenze, di Jan de Bont). Ma se la scrittrice, con una narrazione sottile in stile gotico, raccontava una storia di possessioni in una casa infestata da strane creature, Flanagan – stravolgendo l’opera di partenza (a differenza di quanto aveva fatto per Il gioco di Gerald da Stephen King [2017]) si concentra sulle storie dei membri della famiglia Crain, dal passato al presente che di quel passato è un riflesso oscuro, mentre l’orrore rimane sullo sfondo.
I coniugi Hugh (Henry Thomas/Timothy Hutton) e Olivia (Carla Gugino) Crain si trasferiscono a Hill House, con i figli Steve, Theo, Shirley, Luke e Nell, in un’estate a metà degli anni Ottanta, per ristrutturare la dimora. Niente sarà più lo stesso, dopo, perché Hill House nasconde molti misteri. I bambini se ne rendono conto subito e per primi: le loro notti, ma non solo quelle, scorrono lente, immerse in visioni terrificanti.
Decine di stanze si snodano lungo i corridoi, tutto è sempre avvolto dal buio, risucchiato dalle ombre e dal gelo perenne.
La costruzione dell’intera serie si snoda su diversi piani temporali, corredata da continui flashback, in equilibrio tra il passato e un presente in cui le vite di ognuno hanno preso strade ben definite. Steve (Michiel Huisman) è uno scrittore di fama; Shirley (Elizabeth Reaser) gestisce con il marito una casa funeraria; Theo (Kate Siegel) è una psicologa infantile e “capisce” le persone attraverso le mani, «dono particolare» ereditato dalla madre, a causa del quale deve sempre indossare i guanti. Infine i gemelli Luke (Oliver Jackson-Cohen) e Nell (Victoria Pedretti), uniti da un legame fisico e mentale molto forte: il primo, anima fragile e tossicodipendente, la seconda prigioniera dei ricordi a Hill House, afflitta da paralisi del sonno.
L’evoluzione subita dal padre Hugh è forse la più malinconica: dopo la fuga con i figli affinché non scoprano il suicidio della madre, si allontana anche da loro, per non dovergli rivelare l’innominabile, e si rinchiude in un’amara solitudine, in cui coltiva l’amore ossessivo per i cari perduti.
Nel primo episodio, il regista porta in scena l’elemento più razionale dell’intera vicenda, lavorando su una dimensione metaforica. Steve Crain rappresenta lo spettatore incredulo, l’elemento di contrasto sull’accaduto. È lo scrittore di storie horror che nega di aver mai incontrato un fantasma.
La razionalità cerca di avere la meglio sull’immaginazione, portando alla luce l’intento di Flanagan di raccontare una famiglia disfunzionale, i suoi errori, i suoi vizi usando l’horror come maschera della patologia, congegno narrativo che ammanta di misticismo lo squilibrio e l’anomalia. O forse tutto ciò che l’occhio percepisce in quella casa, ciò che si muove e respira tra le tenebre, fino a condurre chi vi soggiorna alla pazzia, esiste realmente?
Il regista lascia decidere lo spettatore, senza mai sbilanciarsi, in un perfetto gioco di equilibri, tra la vertigine dell’immaginario orrorifico e la consolatoria realtà della distonia folle, che conduce lo sguardo a vedere anche ciò che non è visibile.
Il binomio tra razionalità e paranormale ricorre spesso nella poetica filmica di Flanagan. In Oculus, il riflesso del male (2013) i due piani si sovrapponevano, e la storia girava intorno all’implosione di un nucleo familiare a causa di un tragico avvenimento. Tesi contrapposte erano supportate da membri della stessa famiglia: da un lato il fratello con la sua logica lineare, dall’altro la sorella avvinta dall’intangibile e invisibile. Come in Oculus, anche in Hill House Flanagan affida al maschile la razionalità, mescola i piani temporali e richiama un concetto già espresso da Tim, protagonista del film, il quale aveva «imparato tantissimo su ciò che succede quando le persone non riescono a elaborare qualcosa di orribile. La mente crea ogni sorta di protezione per negare quegli avvenimenti». Tim e Steve Crain, per caratterizzazione, sono personaggi complementari, topoi cui Flanagan ha abituato il suo spettatore, così come il dualismo ragione/occulto usato come argomentazione per narrare situazioni in bilico tra reale e follia, l’uso del flashback e una grammatica narrativa in cui il tempo si muove per salti e distorsioni.
In Somnia, del 2016, il tema della contrapposizione tra razionalità e mistero era affidato all’assenza di sonno nella sua forma patologica: anche nella serie (del 2018) Nell è afflitta da una malattia notturna, così come torna il ciclico alternarsi tra passato e presente, tematiche che costituiscono il dizionario dello stile registico di Flanagan. La malattia veniva rielaborata, mitizzata, come una favola nera, si ammantava di misticismo dalle sfumature cupe.
Dopo il suicidio della madre, avvenuto nel passato, i Crain si ritrovano a Hill House per la morte di Nell, tornata a Hill House per risolvere i suoi conti con il passato. Il funerale è il momento in cui si ritrovano per l’ultimo saluto alla figlia e sorella più piccola, e per confrontarsi una volta per tutte con i ricordi e i fantasmi che ancora li accompagnano.
Il sesto episodio è dedicato alle esequie, piccola grande gemma per estro registico, la costruzione dell’impianto scenico e i virtuosismi stilistici di Flanagan, che alterna lunghi piani sequenza fluttuanti tra il presente, con il funerale di Nell, e il passato, le memorie più tenere della bambina.
Flanagan affida alla mappatura scenica un impianto volutamente teatrale, rallentando il ritmo della narrazione, concentrandosi sui dialoghi, sulle parole dette e su quelle non dette, sui silenzi di ognuno, per dare spazio ai sentimenti. Sono i moti dell’animo a parlare, come in tutte le famiglie, ma in questa, in particolare, le distonie sono al centro dell’attenzione. I figli cercano a distanza di anni un chiarimento con il padre, a volte trovandolo, come nel caso di Theo, altre no, come accade a Steve.
La resa visiva è amplificata dalla fotografia di Michael Fimognari, che accompagna i lavori più recenti di Flanagan, algida, sui toni del blu, dell’azzurro più cinereo e sinistro, mentre il passato è ispessito da una coltre di sfumature cupe e densi bui, squarciati da lampi di luce da cui emergono i dettagli o i protagonisti in scena. L’unico elemento sanguinante è rappresentato dalla porta, sempre chiusa, della stanza rossa.
La lettura simbolica dell’intera opera accompagna lo spettatore dall’inizio alla fine, in tutti i dieci episodi della serie: Hill House, con le sue mura spesse, alte, cadenti, sempre avvolte dalle tenebre, è l’allegoria della famiglia Crain, trasferitasi lì per “ristrutturare”: un nucleo in apparenza solido ma pieno di crepe, in cui sicuramente quello che doveva essere il muro portante si è rivelato il più fragile: Olivia, la madre.
Flanagan si affida a plumbee atmosfere espressioniste per scavare nell’animo dei protagonisti: non gli scuri netti e severi debitori del lavoro di Hermann Bahr per Il gabinetto del Dottor Caligari (1919) di Wiene, semmai i chiaroscuri di uno stato mentale alterato. La psiche di Olivia è un labirinto che si avviluppa su sé stesso, al suo interno ci si muove con lentezza e smarrimento, ignari della provenienza e della meta; è un percorso psicotico e contorto in cui è facile perdersi, come per le scale di Bombed Regency Staircase, Upper Brook Street, Mayfair fotografate da Bill Brandt nel 1942, o tra gli enigmi visivi di Escher; fosche ombre disorientanti affollano le pareti, illusioni mentali alienanti giocano con il paradosso mistificatore e caotico.
Sola, inghiottita dal vuoto della sua casa, quando anche la ragione l’abbandona, Olivia si smarrisce, precipitando negli oscuri meandri della sua psiche, occhi sbarrati e privi di qualsiasi barlume di emozione. La donna in apparenza serena è piena di contraddizioni. Quando nel primo episodio chiede al marito, accorso perché i bambini piangevano a causa degli incubi, «Sono tutti vivi?» la sua più che una battuta è una profezia.
Hugh, il padre, vero e proprio ristrutturatore, salva la famiglia, nel passato e nel presente, allora portando i figli via dalla madre impazzita, ora tenendoli lontani dalla verità. La stanza rossa con la porta sbarrata, chiusa a tutti, è l’utero di Hill House, metafora della madre, e come Olivia è l’elemento pulsante dell’intera narrazione. Rossa perché è il luogo delle passioni dove nascono embrioni di visioni e immaginario della famiglia: ognuno di loro è stato lì, e ci ha vissuto una situazione immaginaria e sconcertante. Al contempo la stanza è la rappresentazione della pazzia, Olivia ci soggiorna sovente, ed è lì che si svolgerà l’ultimo atto della sinistra tragedia familiare.
Flanagan costruisce un solido intreccio narrativo, supportato da un impianto tecnico e da uno stile registico rigoroso e inclemente verso le allusive e ammiccanti certezze del genere, preferendo dare spazio alla tragedia, quasi euripidea, al suo impianto drammatico; parlare di un’umanità ferita, mortificata e dolente che si interroga sugli errori compiuti e cerca di salvarsi, dove possibile.
L’estetizzazione della violenza, la sospensione della narrazione, le inquadrature ipnotiche e mistiche, gli stilemi tipici del suo cinema rendono la serie un’epitome flanaganiana: originale, innovativa, incredibilmente affascinante.

CAST & CREDITS
Regia: Mike Flanagan; soggetto: Mike Flanagan, Shirley Jackson (ispirato all’omonimo romanzo); sceneggiatura: Mike Flanagan; fotografia: Michael Fimognari; scenografia: Patricio M. Farrell; costumi: Lynn Falconer; montaggio: Jim Flynn, Brian Jeremiah Smith, Mike Flanagan, Ravi Subramanian; musiche: The Newton Brothers; interpreti: Michiel Huisman (Steven Crain), Carla Gugino (Olivia Crain), Henry Thomas (young Hungh Crain), Elizabeth Reaser (Shirley Crain), Oliver Jackson-Cohen (Luke Crain), Kate Siegel (Theodora Crain), Victoria Pedretti (Nell Crain), Timothy Hutton (Hugh Crain); produzione: Amblin Television, Paramount Television, Intrepid Pictures; origine: USA, 2018; durata: 10 episodi; home video: edizione USA “extended director’s cut” blu – ray/dvd, Paramount Home Entertaiment.

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