Di esordi ed esperimenti studenteschi. Uno scavo archeologico tra frammenti e fantasmi mediali

Alessio Baronci
Mike Flanagan n. 16/2023

Questa è la storia di un trauma irrisolto.
Durante gli anni del college Mike Flanagan ha diretto tre lungometraggi apparentemente alieni rispetto al suo cinema ma, anche per questo, affascinanti e bisognosi di un’adeguata contestualizzazione. Il punto è che non è possibile farlo in modo convenzionale.
Licenziati da Flanagan come superficiali lavori di gioventù, Makebelieve (2000), Still Life (2001) e Ghosts of Hamilton Street (2003) non sono usciti in sala né in home video, subendo una damnatio memoriae paradossale nell’era dell’informazione pervasiva. Eppure, nei primi lavori del regista ci sono elementi e strutture che delineano un “ritratto dell’Artista da giovane” che profetizzano l’Autore che sarà. Per portarlo alla luce occorre quindi adottare un approccio archeologico, che non può appoggiarsi a fonti solide ma mappare fantasmi mediali: brevi estratti, sinossi e suggestioni critiche recuperate tra polverose pagine web, nutrendo la ricerca di un apporto ipotetico-deduttivo che coinvolgerà anche il lettore.
Di Makebelieve, che Flanagan gira insieme ai compagni di studi, è rimasto solo un brevissimo estratto reperibile sul Prime Video americano. Il film è un racconto di formazione con quattro studenti impegnati a mettere in scena Romeo e Giulietta. Nel frammento, una ragazza, illuminata da una fotografia fredda, sta spazzando una grande sala. È il teatro del college. Poco dopo sale sul palco e inizia a recitare il monologo di Giulietta culmine del III atto: è quasi un prologo del rapporto sovversivo di Flanagan con la tradizione, lo stesso che gli farà trattare Shining (1980) come un’interferenza immaginifica in Doctor Sleep.
Alle prese con un film di formazione dall’impostazione teatrale, piuttosto che rifugiarsi nella sicurezza di un Olivier, Flanagan opta per il Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann (1996) – uscito appena quattro anni prima e a cui guarda con questo cortocircuito d’esordio che incrocia teatro classico e impianto contemporaneo – e l’allora altrettanto recente La vita è un sogno (1993) di Richard Linklater. Non si tratta solo dell’insicurezza del principiante, ma anche del desiderio di interfacciarsi con un contesto artistico in formazione, un territorio perfetto da esplorare e in cui testare la propria voce. È proprio con Makebelieve, inoltre, che Flanagan inizia a modellare una sua personale mitologia tematica e visiva, lambendo attraverso il lavoro sul gruppo di studenti quella coralità che diverrà tratto distintivo, e concependo un’atmosfera inquieta, in minore, che anticipa le future derive horror.
Di Still Life è sopravvissuta solo una breve sinossi, di contro è lecito leggere il testo come il primo turning point della carriera del regista. Nuovamente concepito in ambiente universitario e insieme allo stesso gruppo di amici del progetto precedente, Still Life tradisce quella fascinazione di Flanagan per le narrazioni espanse che lo farà approdare a Netflix: siamo di fronte a un sequel antologico di Makebelieve, i cui protagonisti tornano in scena impegnati, stavolta, a comporre il portfolio per l’esame di fotografia. Il gruppo deciderà di scattare foto a soggetti colti nel loro massimo momento di debolezza, dando il via a una spirale di eventi imprevedibili.
Rispetto al prequel, il cambio di passo è evidente. L’atmosfera si fa più inquietante e il focus del racconto si sposta sul lento svelamento delle debolezze dei personaggi. Da non sottovalutare la rilettura della macchina fotografica attraverso una luce quasi folk-horror, che la ripensa come strumento capace di svelare la vera essenza del soggetto rappresentato. Still Life è il primo tassello del futuro sguardo destrutturante il genere tipico di Flanagan, che qui porta a maturazione la sua idea di coming of age esplorandone certi lati oscuri – l’imbarazzo, la colpa, la vergogna – e trattandoli alla stregua di strutture inquietanti, in avvicinamento a quell’orrore psicologico che sarà il suo genere prediletto in futuro.
Ghosts of Hamilton Street è infine un evidente progetto di transizione, con il quale Flanagan amplia il suo campo di ricerca. Del film sono rimasti il minuto iniziale, reperibile su Prime Video US, e la sinossi, pubblicata nel 2006 su MicrofilmakerMagazine1. Il protagonista è uno scrittore che vede scomparire attorno a sé le persone della sua vita e, dopo ogni scomparsa, finisce catapultato in una realtà in cui quella persona non è mai esistita: sarà costretto a capire in fretta lo schema delle sparizioni per tornare nella sua dimensione prima che sia troppo tardi.
Siamo un po’ al ritorno all’ordine, dopo la sovversione degli esordi. Il regista ha appena finito il college, ha bisogno di farsi un nome, di inserirsi in un immaginario “alto” che gli permetta di emergere nel contesto del cinema indie. Per attuare questa “ripulitura”, si affida ad alcuni riferimenti colti, adottando un approccio postmoderno. La storia pare un outtake di Ai confini della realtà (1983) che rilegge in chiave inquietante La vita è meravigliosa (1946). Approccio sofisticato a cui è riconducibile anche il rigore che si intuisce dalle poche immagini rimaste: una panoramica, che forse descrive la casa del protagonista, caratterizzata da tono compassato, tempi dilatati, fotografia a dominanti calde.
Ma la spinta all’autocoscienza di Flanagan passa anche attraverso la maturazione della sua mitologia. Il gruppo di amici diventa gruppo familiare, l’horror è ripensato in chiave psicoanalitica, tale è l’importanza che nel racconto ricopre il sentimento di unheimlich freudiano. Al termine del film il protagonista ha ricostruito il suo mondo attraverso l’autoanalisi e Flanagan concluso il suo percorso iniziatico: ora è conscio delle sue potenzialità e della sua estetica2. I fantasmi sono diventati carne ma lo stesso Flanagan, alla fine del percorso, pare pacificato con il suo passato.
A testimoniarlo c’è Oculus: Chapter 3 (2006). L’ultimo corto che girerà prima dell’esordio ufficiale è infatti il dichiarato testo di partenza da cui nascerà Oculus, il suo secondo lungometraggio, nel 2013.
La pace tra il giovane filmmaker e l’autore che verrà è fatta.

Note
1 Vedi microfilmmaker.com/critiques.
2 Non è un caso, forse, che proprio il film della legittimazione di Mike Flanagan sia anche quello più premiato tra le sue opere giovanili (vedi Cast & Credits).

CAST & CREDITS

Makebelieve
Regia: Mike Flanagan; soggetto: Mike Flanagan; sceneggiatura: Mike Flanagan; fotografia: Jim Ball, Eric Blair; montaggio: Mike Flanagan; musiche: Mike Flanagan; interpreti: Jamie Sinsz (Ryan Marzano), Zak Jeffries (Gabe Tucker), Natalie Roers (Dawn Peterson), Megan Anderson (Lauren Blakefield), Christopher Cridler (Kyle Parker), Naomi Kline (Thatcher), Brian Gunning (Director); produzione: autoproduzione; origine: USA, 2000; durata: 93’; home video: inedito.

Still Life
Regia: Mike Flanagan; soggetto: Mike Flanagan; sceneggiatura: Mike Flanagan; fotografia: Nathaniel Starck; scenografia: Rebecca Shpak; montaggio: Mike Flanagan; musiche: Mike Flanagan; interpreti: Jamie Sinsz (David Styles), Zak Jeffries (Danny Potter), Natalie Roers (Karma Quail), Michael Caloia (Kevin Koufax), Steve Thomas (Terry), Kara Webb (Fiona), Christopher Cridler (Mark), Brian Cunning (bartender), Cara Cylus (Madison), Harry Rossen (Grandfather), Amy Hash (Stephanie) Megan Anderson; autoproduzione; origine: USA, 2001; durata: 78’; home video: inedito.

Ghosts Of Hamilton Street
Regia: Mike Flanagan; soggetto: Mike Flanagan; sceneggiatura: Mike Flanagan, Dave Foster; fotografia: Adam Valuckas; scenografia: Sharri Arlin, Jen Hoops; costumi: Kara Webb; montaggio: Mike Flanagan; musiche: Dan O’Brien; interpreti: Scott Graham (Brady Campbell), Zak Jeffries (Austin Ashley), Kristin Carter (Taylor Maris), Kerry Brady (Caroline Ashley), Jaime Sinsz (David), Steve Thomas (Scott Archer), Tom Brandau (Frank Maris); produzione: Back 2 One Productions; origine: USA, 2003; durata: 107’; home video: inedito; premi principali: premio della giuria Atlantic Film Festival e Philadelphia Freedom Film Festival, premio alla miglior sceneggiatura Ocean City Film Festival e Los Angeles DIY Film Festival (con menzione d’onore).

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