"Solamente nero". Il giallo del non detto

Fabrizio Fogliato
Antonio Bido n. 11/2019

Solamente nero (1978), in origine Dietro l’angolo il terrore, richiama nel titolo, per volontà della produzione, Profondo rosso di Dario Argento (1975). La sceneggiatura, per il contesto da “strapaese”, rimanda a La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati (1976). Le musiche di Stelvio Cipriani nascondono un escamotage contrattuale dietro cui si nascondono uncreditedi Goblin. Il quadro raffigurante un episodio del passato replica lo schema di L’uccello dalle piume di cristallo di Argento (1970). Il tema della medium, nonchéquello dell’assassino deforme, echeggiano A venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg (1973). La soluzione del giallo riaggiorna quelle di Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci (1972) e Chi l’ha vista morire? di Aldo Lado (1972). La carogna nel tabernacolo cita L’Anticristo di Alberto De Martino (1974). Il finale rende omaggio a La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock (1958). Lino Capolicchio èil protagonista che doveva essere in Profondo rosso e che è appena statoin La casa dalle finestre che ridono. La scelta di Laura Nucci (esordiente in Palio di Alessandro Blasetti [1930]) replica quella di Clara Calamai nel capolavoro argentiano del 1975. Stefania Casini arriva direttamente da Suspiria (1977). La registrazione delle sedute della medium anticipa Trauma (1993), ancora Argento, mentre l’omicidio nel canale Amsterdamned di Dick Maas (1988).

Raccontato così, quello di Antonio Bidosembra un film di pura derivazione. Invece è tutto da scoprire nella sua originalità,a partire dalla tecnica con cui viene realizzata l’emblematica sequenza di apertura: «La scena iniziale di Solamente nero è, effettivamente, molto particolare. È frutto delle mie esperienze come giovane filmmaker. Ho sperimentato tanti e diversi linguaggi visuali e l’uso, anche esasperato, della macchina da presa. È un insieme di tre tecniche diverse che ha dato un effetto molto efficace: per quella scena ho girato a velocità più ridotta per avere un tempo di otturazione molto basso– normalmente l’otturatore è a 1/50°, mentre per questa ripresa è stato tarato a 1/25°; poi ho rallentato le immagini in trukae, prima di fare il ralenti, ho eliminato vari fotogrammi in modo da creare una scena mossa, stroboscopica, quasi a scatti».Il film è adagiato sulla stasi, sulla placida e torbida immobilità delle acque limacciose, grigie e invernali che attraversano l’isola di Murano (dove la pellicola, per gran parte, è girata) e la laguna veneta. Un’ambientazione spettrale, in cui anche l’attraversamento del Canal Grande in battello o un semplice ritrovo per le calli deserte assumono dimensione di minaccia incombente.

Dietro l’apparente lentezza della vita lagunare in cui non succede mai nulla – come confessa lo stesso don Paolo (Craig Hill) all’arrivo di Stefano (Lino Capolicchio) – si nascondono inquietanti e oscuri presagi, un passato indecifrabile (evocato dalla scena di apertura) che tormenta l’esistenza del protagonista – di ritorno al paese natìo – e dinamiche di potere ricattatorie che attraversano, nervosamente, una borghesia decadente. Il ritorno del “fratel prodigo” rianima demoni mai realmente allontanati, solo temporaneamente assopiti, e determina lo sconvolgimento tellurico necessario per fare riemergere la verità. Ecco, allora, che la cifra distintiva e stilistica di Solamente neropuò che essere solo quella del non detto.

Cosa si nasconde dietro lo strangolamento di una giovane da parte di un prete? Forse un tentativo di violenza carnale, forse un momento di preghiera che si perverte (come sembra suggerire la presenza del breviario strappato), forse altro ancora. Il film non lo dice mai chiaramente: allude, ammicca ma non rivela. Ed è un punto di forza, perché così facendo tutto l’assunto narrativo viene circondato da un’allure di inquietudine.

Non a caso, anche durante la seduta spiritica registrata dalla medium per ricattare i suoi accoliti la musica extradiegetica copre il suono delle parole del dottor Aloisi (Sergio Mioni), della signora Nardi (Juliette Mayniel) e del conte Mariani (Massimo Serato). Quali segreti stanno rivelando? Senz’altro terribili, sia per l’entità delle cifre corrisposte alla medium, sia perché questa viene istantaneamente eliminata sotto gli occhi del prete, in un vero e proprio ribaltamento della sequenza iniziale a cui assiste Stefano da bambino. Don Paolo, recandosi dal conte Mariani su invito di una parrocchiana, ne svela l’approccio improprio nei confronti dei giovani che ospita per impartire lezioni di piano. Pedofilia, molestie sessuali e violenze non sono mai dichiarate, mai denunciate (significative le caricature tanto del commissario quanto dei carabinieri), ma sempre taciute nella perfetta rappresentazione dell’omertà di paese. Don Paolo afferma – quasi violando in modo goffo e impacciato il segreto della confessione – alcune verità acclarate, ma queste rimangono nell’ambito di semplici confidenze al fratello. In paese tutto è rimosso, nascosto, al massimo confessato al sacerdote nella certezza che egli non possa violare il sacramento.

Bido mostra come proprio il silenzio sia un detonatore potentissimo che rianima vendette, rancori e rabbia, nonché una necessità per occultare un passato innominabile. C’è una frase – appare come un residuo di sceneggiatura – che rivela la portata potenzialmente esplosiva del non detto, fulcro concettuale di Solamente nero: un avventore dell’osteria di Tony, dopo avere visto nei pressi del locale Andreani (il padre della ragazza strangolata nell’incipit), dichiara, senza motivo apparente: «Mi fa paura, l’Andreani». È la paura del non detto, dell’allusione, dell’evocazione di fantasmi tremendi che si agitano sul fondo delle acque della laguna; paura che emerge con ancor più forza e inquietante naturalezza nel dialogo che segue tra Stefano e lo stesso Andreani alla ricerca della verità. Ma quale verità?

Bido punta la sua lente d’ingrandimento narrativa sulla famiglia: quella borghese e quella popolare sono accomunate dal segreto e dall’occultamento di misfatti che devono rimanere sepolti, come nel caso del figlio deforme e mai rivelato dalla Nardi. Tutti sanno che c’è, ma nessuno l’ha visto o ha mai chiesto alla donna di dare notizie in merito. Il silenzio, l’omertà, la sicurezza confortevole dei segreti torbidi ma familiari – e pertanto rassicuranti e protettivi – non devono mai venire meno.

Ecco perché Stefano è uno “straniero” (contaminato dalla città), colui il quale, provenendo dall’esterno, non può che portare problemi e sofferenza, incrinare certezze acquisite e rivelare l’oscuro, il male, il marcio annidato nella comunità. Emblematica, a tal proposito, la sequenza in cui il protagonista attraversa le calli di Murano sotto lo sguardo minaccioso dei residenti nascosti dietro i vetri delle loro finestre; in quelle stanze mai mostrate dal film, in quegli armadi oscuri si nascondono scheletri che il regista, con sublime maestrìa, evoca e non mostra. Anche i delitti – seppur degnamente coreografati – non esplodono mai in efferatezze gratuite, ma rappresentano solo la superficie più evidente e stereotipata del giallo: ciò che realmente conta non è né la modalità dell’omicidio né il suo effetto plastico, bensì la sua valenza ecologica, la necessità di fare pulizia di chiunque possa parlare e rompere la barriera che protegge la comunità.

Interessante è vedere come lo “strapaese” abiti solo ed esclusivamente spazi chiusi come l’interno della taverna di Tony, lo studio medico del dottor Aloisi (dove ci si preoccupa per incontri casuali ma sconvenienti) o la chiesa, luogo in cui la comunità si cementa nel mutismo e dove la fede è puro devozionismo finalizzato a preservare la sfera privata.

Sull’assunto – relativo a un uso così scientifico e calcolato del non detto, dell’implicito e della sobrietà visiva – si potrebbe opinare che ci sia, da parte del regista, la volontà di non esprimere pienamente la propria riflessione, magari a causa di un pudore di carattere censorio. Siamo nel 1978, però, e molto in merito allo sfondamento delle barriere del dicibile e del mostrabile è stato fatto, quindi non si spiegherebbe una scelta così conservativa e autolimitante (anche in merito alle aspettative del pubblico) se non nell’ottica di agire sul tasto dell’allusione utilizzando il fuori campo narrativo come ricettacolo di tutti gli elementi perturbanti che attraversano la pellicola.

Solamente nero vive sulla costruzione di contrapposizioni, a partire dai due fratelli: uno è uomo di scienza, l’altro di fede. Significativo che nell’anno del film – l’anno del reflusso del laicismo, dei tre papi, del delitto Moro – sia la scienza sia la fede falliscano. La prima, attraverso il personaggio di Stefano, viene evocata come qualcosa di ininfluente, superficiale e dai forti accenti patologici: causa nevrosi e depressione per il troppo studio, che riempie giornate vuote di rapporti relazionali senza condurre a nulla. Risulta volutamente grottesco e puerile l’approccio “scientifico” con cui Stefano pensa di indagare, dal difetto della “T” della macchina per scrivere all’interpretazione dei testi dei biglietti minatori, fino all’inconcludenza rassegnata dell’interrogatorio all’Andreani. La soluzione del giallo è infatti occasionale, frutto di un goffo incidente che duplica quello iniziale sul treno con la valigia.

La fede, invece, viene demitizzata sul registro del sacrilegio. La chiesa in Solamente nero è luogo incubico, le sue pareti sembrano impregnate di un Male che trasuda dall’intonaco. Anche durante la messa il tabernacolo svela l’orrore, anziché la grazia. La Chiesa è il luogo dell’alterità della morte: il confessionale racchiude segreti irripetibili, il ministro – dati i suoi trascorsi – compie peccato mortale ogni volta in cui vi mette piede, l’immagine di Cristo non salva ma rischia di uccidere, con quel crocifisso che cade e a momenti schiaccia il prete. Il peso della colpa, del peccato non rimesso, del crimine non confessato, del desiderio non contenuto e della (presunta) castità violata è un fardello insostenibile, che poco alla volta disintegra certezze e sotto cui don Paolo finisce oppresso, al punto che tutto l’assunto narrativo può essere letto come l’intrusione di un agente esterno che – attraverso il riemergere del passato – inchioda il sacerdote alle proprie responsabilità e lo conduce all’espiazione di una mortale pena del contrappasso.

In fondo, così si spiegherebbe anche il dialogo a distanza che – attraverso i biglietti minatori – don Paolo sembra intrattenere con l’assassino. Ancora una volta è nell’implicito, nel non dichiarato, che emerge la dimensione ricattatoria che stringe d’assedio don Paolo: «Allora t’ucciderò», c’è scritto sull’ultimo biglietto, in un’evidente richiamo a omissioni o al non rispetto di accordi pregressi e segreti. L’allucinazione finale – in cui don Paolo somministra la comunione alle sue vittime – sottolinea ulteriormente la dimensione sacrilega: alla ragazza uccisa in gioventù si allineano le altre vittime, manifestazioni letterali della punizione divina esercitata da Dio attraverso un suo vicario. I loro comportamenti abietti – in precedenza condannati dal prete con espressioni decisamente inusuali per un uomo di chiesa («Quell’uomo dovrebbe sparire dalla faccia della terra» e «La mia anima si sporca solo a sentirla», rivolte entrambe al conte Mariani) – vengono mondati attraverso l’omicidio, compiuto da un uomo di Dio che a esso si vorrebbe sostituire.

Così si spiega il fatto che l’allucinazione si chiuda con don Paolo in paramenti sacri intento a camminare verso il suo riflesso in abito talare sotto gli sguardi glaciali, ma compiacenti, dei parrocchiani: il peccato che dipinge tutto solamente di nero è quello ormai profanato del prete che, istigato dalla comunità, si sostituisce al giudizio divino e condanna all’inferno, a precipitare nel baratro della trasgressione alla propria missione. Così, il silenzio può essere conservato e protetto per sempre.

 

 

CAST & CREDITS

Regia: Antonio Bido; soggetto: Antonio Bido, Domenico Malan; sceneggiatura: Marisa Andalò, Antonio Bido, Domenico Malan; fotografia: Mario Vulpiani; scenografia: Carlo Leva; costumi: Ferroni; montaggio: Amedeo Giomini; musiche: Stelvio Cipriani; interpreti: Lino Capolicchio (Stefano D’Arcangelo), Stefania Casini (Sandra Sellani), Craig Hill (don Paolo D’Arcangelo), Massimo Serato (conte Mariani), Juliette Mayniel (signora Nardi); produzione: P.A.C. (Produzioni Atlas Consorziate);origine: Italia, 1978; durata: 109’; home video: Blu-ray Le chat qui fume (import Francia), dvd Cecchi Gori; colonna sonora: inedita.

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