Il giovane Eliade dall’Italia all’India

Horia Corneliu Cicortas
Il paradosso romeno – Eliade, Cioran e la «giovane generazione» n. 7/2014
Il giovane Eliade dall’Italia all’India

Nell’aprile del 1928, il giovane Mircea Eliade arriva in Italia, questa volta non per un viaggio di piacere – anche se il precedente, del 1927, era stato perlopiù impiegato in attività strettamente connesse al suo lavoro di studioso e giornalista – ma di ricerca per la sua tesi di laurea (1). Nonostante gli interessi orientalistici, che iniziavano a essere dominanti, Mircea aveva scelto come soggetto la filosofia del Rinascimento italiano. Questa decisione era legata alle esigenze “metodologiche” con le quali il laureando si stava confrontando, nel tentativo di “corredare” la storia comparata delle religioni (assimilata soprattutto tramite i lavori di Raffaele Pettazzoni) con una filosofia “universale”, capace di rendere conto anche delle realtà culturali e religiose “esotiche” o “sotterranee”. Inoltre, ricorderà Eliade trentacinque anni più tardi, «in Pico della Mirandola trovavo magia e occultismo a profusione, abbastanza mistica neoplatonica in Marsilio Ficino e una fantasia senza limiti in Campanella. Parimenti ritrovavo, in tutto il Rinascimento italiano, la fede nelle possibilità illimitate dell’uomo, il concetto di libertà creatrice e un titanismo quasi luciferino, cioè tutte le ossessioni della mia giovinezza» (2). Per quanto disparati, questi interessi convergevano insomma in quell’eroismo laico (inteso come superamento non conformistico dei limiti interiori e sociali) che, nel 1928, definiva la personalità di Eliade. Un’altra motivazione a posteriori – anch’essa plausibile, oltre che degna di attenzione da un punto di vista psicologico – è, tuttavia, suggerita poco prima dall’Eliade memorialista: «Senza rendermene conto, cercavo di equilibrare, attraverso uno studio serio e approfondito dell’immanentismo neopagano, del panteismo e della “filosofia della natura”, la mia passione per la trascendenza, la mistica e la spiritualità orientali» (3).

Il giovane Mircea è desideroso d’intraprendere nuove esperienze, forse decisive, all’estero. Ha scritto, durante gli anni universitari (1925-1928), il romanzo Gaudeamus, per fissare quelle «immagini che cominciavano già a impallidire» (la mansarda, la «vita da studente» e i primi incontri amorosi), ma anche per una ragione pienamente romantica: «Avevo il presentimento che avrei rinunciato alla “grande passione” che allora stavo vivendo e cominciavo a prepararmi in vista di questa prova e a preparare allo stesso tempo anche R., facendole capire che la più bella prova d’amore che le potevo dare era proprio questa: mi sacrificavo a lei, sacrificandola» (4).

In una lettera scritta alla famiglia l’8 aprile dello stesso anno, pochi giorni dopo l’arrivo a Roma, Eliade precisa di essere «in rapporti molto stretti» col direttore della Scuola Romena, il quale gli avrebbe chiesto di «venire a Roma l’anno prossimo per il dottorato» (5). I progetti di Eliade per il futuro non sono ancora precisi. È alle prese con la raccolta dei materiali per la sua tesi e trascorre molte ore nelle biblioteche romane. Il Rinascimento che lo attrae non è quel movimento intellettuale che aveva riscoperto i valori classici dell’antichità greco-romana ma, come scriverà nel suo elaborato, quello «desideroso di un nuovo enigma (proiettato verso l’Oriente)» (6). È insomma il Rinascimento delle correnti magiche, ermetiche, cabalistiche e alchemiche, associate soprattutto a figure come Pico della Mirandola.

Eliade, che passa per la prima volta così tanto tempo in una biblioteca occidentale, trascrive giorno dopo giorno tutto quel che può, consapevole del fatto di trovarsi davanti a «pubblicazioni irreperibili a Bucarest», ma rischiando al contempo di non concludere il lavoro. Il materiale raccolto aumenta considerevolmente, anche per le prospettive di ricerca che apre: «La mia tesi di laurea minacciava di diventare una storia comparata della filosofia del Rinascimento. In apposite cartelle raccoglievo una documentazione supplementare sull’ermetismo e l’occultismo, sull’alchimia e le relazioni con l’Oriente. Avevo molti progetti in testa: tradurre in romeno una raccolta di frammenti e appunti di Leonardo da Vinci, commentare I Sonetti di Michelangelo, formare un’antologia di testi di Pico della Mirandola» (7). Tra i “grandi” del Rinascimento, Pico fu certamente un modello e un punto di riferimento anche per l’Eliade più maturo, fautore di un “nuovo umanismo”, legato a quello “integrale” appreso dai filosofi rinascimentali.

Tuttavia, lo studente romeno non si ferma ai soli pensatori italiani del Rinascimento (Pico, Ficino, Leonardo, Campanella, Machiavelli, Galileo e Bruno). La sua predilezione per l’enciclopedismo lo porta a scoprire anche i grandi eruditi spagnoli – Menéndez y Pelayo e Adolfo Bonilla y Saint Martin – oltre che ad approfondire un autore italiano contemporaneo, Arturo Farinelli, «una conoscenza di vecchia data. Nell’ultimo anno di liceo avevo letto i due volumi de La vita è un sogno, e da allora avevo cercato di tenermi aggiornato sulla sua prodigiosa produzione, acquistando tutto ciò che potevo procurarmi e chiedendo all’autore il resto con lettere appassionate» (8).

Il soggiorno romano non è destinato solo alle ricerche sui vari aspetti del Rinascimento, legate al progetto di tesi. Qui Eliade completa anche la sua «documentazione sull’India e in particolare sulla filosofia indiana. Attraverso la rivista Bilychnis avevo saputo, alcuni anni prima, del viaggio di Carlo Formichi e di Giuseppe Tucci in India. Con il professore di sanscrito Formichi ero già in corrispondenza e da lui avevo ricevuto libri e articoli» (9). Quando, un giorno di maggio, Eliade va a cercare Giuseppe Tucci all’università, gli viene detto che questi si trova ancora a Dacca: «Mi permisero tuttavia – aggiunge il Nostro – di lavorare nella biblioteca del seminario di Indianistica» (10). È lì che avviene la scoperta che avrebbe cambiato il suo destino: leggendo la prefazione al primo volume dell’opera di Dasgupta A History of Indian Philosophy, Eliade apprende che l’autore aveva portato avanti il proprio lavoro con l’aiuto finanziario di un mecenate indiano, referente di «tutte le iniziative in campo culturale e educativo del Bengala» (11). Senza pensarci più di tanto, stende velocemente una lettera al mecenate indiano per chiedergli una borsa di studio: «Emozionato, copiai il nome e l’indirizzo del mahārāja e poi lì, sul tavolo della biblioteca, cominciai a scrivere la brutta copia di una lettera in francese, che pensavo di inviargli. Gli dicevo che stavo preparando una tesi di laurea sulla filosofia del Rinascimento, ma che ero sempre più interessato alla filosofia indiana e che avrei voluto recarmi a Calcutta per lavorare per due anni con S. N. Dasgupta. Ero disposto a vivere modestamente, così come vive uno studente indiano, e gli chiedevo se, una volta arrivato a Calcutta, avrei potuto ottenere una borsa di studio da lui. In quella stessa notte, nella mia camera, trascrissi la lettera e la spedii il giorno dopo» (12).

Questa missiva sarebbe dunque da considerarsi un atto spontaneo, un’illuminazione istantanea, apparentemente non preceduta dall’intenzione di andare in India. Sicuramente, una certa India “interiore” si era già insinuata nella passione di Eliade, tutta romantica, per le discipline “sotterranee” della cultura europea e per alcuni aspetti poco indagati degli universi “esotici” come, ad esempio, l’alchimia indiana – interesse che l’aveva spinto, nel 1927, a ordinare alcuni libri sull’argomento, spediti il 17 novembre da Calcutta (13). A interessarlo era anche il tantrismo, sul quale scrisse un articolo – cui ne sarebbero seguiti altri – pubblicato sul numero dell’11 luglio del 1928 di «Cuvântul», intitolato Varnamala o la ghirlanda delle lettere.

Negli ultimi anni di liceo e in quelli universitari questa passione si era spostata verso lo studio comparato delle religioni e delle filosofie – come, per l’appunto, quella rinascimentale – che avrebbe potuto fornire il quadro teorico di un “umanesimo integrale”, incentrato sull’idea più ampia dell’“uomo universale”. I progetti di Eliade prevedevano un eventuale soggiorno all’estero, preferibilmente in un Paese occidentale: «Non c’è dubbio che senza questa lettera la mia vita sarebbe stata un’altra. Sapevo che il miglior posto per imparare la lingua sanscrita e per studiare la filosofia indiana era un’università dell’India, ma non osavo sperare di potervi arrivare tanto in fretta. Pensavo che avrei ottenuto, probabilmente, una borsa per una delle università occidentali, nel qual caso mi proponevo di studiare la filosofia comparata. È per questo che le mie ricerche sulla filosofia del Rinascimento non mi sembravano senza senso. Contavo di completarle più avanti con uno studio approfondito della filosofia orientale» (14). L’India, da quel momento in poi, divenne così una “tentazione”, una modalità di sperimentare quella “disponibilità dello spirito” che Eliade proponeva negli articoli del suo Itinerario spirituale (15). Questa apertura doveva tradursi nella nascita di una nuova coscienza culturale nazionale, che avrebbe sostituito quella precedente, dominata dal positivismo, dal razionalismo e dagli ideali “importati” dell’anteguerra. In questo manifesto programmatico della “nuova generazione”, Eliade si faceva portavoce dei suoi coetanei, accomunati dall’appartenenza a una nuova “realtà spirituale”, diversa da quella precedente la Grande Guerra. Sul piano della cultura europea, i vecchi ideali dell’illuminismo e del positivismo erano stati resi obsoleti dal conflitto; la guerra aveva messo in discussione tutto, favorendo la reazione di correnti irrazionali e spiritualistiche. In secondo luogo, sul piano nazionale, la vittoria militare a fianco degli alleati aveva reso possibile l’unificazione del Paese (l’integrazione della Bessarabia, della Transilvania e di altri territori più piccoli strappati agli Imperi), rendendo le nuove generazioni “orfane” di un ideale collettivo politico: «Eravamo la prima generazione romena non condizionata preliminarmente da un obbiettivo storico da realizzare» (16). Di conseguenza, pensato in termini vitalistici, spiritualistici, elitari e necessariamente iconoclasti, il “programma” della “giovane generazione” mirava all’affermazione di valori sintonizzati sulle esigenze del nuovo momento storico e fondati sulle esperienze, viste come necessità dello spirito di allargarsi oltre i confini delle proprie “specializzazioni”.

A metà maggio, Eliade salpa da Napoli verso la Romania, passando da Atene e Istanbul. Nella città turca divisa tra due continenti, sono le atmosfere orientali a richiamare alla mente del giovane studioso romeno questa “tentazione”, questa possibilità di dare una svolta “indiana” al proprio destino: «Nel bazar, la mia emozione crebbe ancora e il cuore cominciò a battere più forte. Il mahārāja risponderà alla mia lettera? Non osavo sperarlo. Sentivo che l’Oriente rappresentava per me molto di più che uno scenario fiabesco o un oggetto di studio. Era una parte del mondo che meritava di essere conosciuta per la sua storia segreta e per la grandezza delle sue creazioni spirituali» (17).

Da parte sua, nella prefazione al primo volume della History of Indian Philosophy, Dasgupta aveva sottolineato l’importanza della conoscenza del pensiero filosofico indiano, spesso trascurato o frainteso in Occidente: «La scoperta delle caratteristiche più importanti del pensiero filosofico indiano e il dovuto apprezzamento del loro pieno significato potrebbero rivelarsi tanto importanti per il pensiero filosofico moderno quanto la scoperta del sanscrito lo fu nelle ricerche filologiche» (18). In queste pagine, il giovane Eliade aveva sicuramente trovato una lampante ed entusiasmante conferma della correttezza delle proprie ricerche, volte a superare il “provincialismo” europeo e a scoprire una nuova universalità per il pensiero filosofico.

Tornato a Bucarest, sostiene gli ultimi esami, rimandando all’autunno la discussione della tesi. Incontra di nuovo Nae Ionescu nella redazione di «Cuvântul» [La parola], che sta attraversando un periodo di difficoltà economica (19), e progetta insieme a Mircea Vulcănescu e Sandu Tudor un nuovo periodico di filosofia religiosa, «Duh şi slovă» [Spirito e Dottrina], pensato come prosecuzione della rivista teologica internazionale «Logos», fondata da Nae e “morta” dopo soli due numeri. Il primo fascicolo avrebbe dovuto essere stampato entro il Natale di quell’anno, ma il progetto non si realizzò. Esso si proponeva di occuparsi del tema della magia, come ricorda Eliade stesso: «A me venne assegnato il compito di presentare la struttura delle filosofie magiche e di far vedere in che misura la magia rappresentava una delle più grandi tentazioni dello spirito. […] Riuscii a terminare il mio articolo all’inizio di dicembre, mentre mi trovavo a bordo della nave Hakone Maru, in rotta verso Ceylon. L’avevo intitolato Il fatto magico e lo spedii a Mircea Vulcănescu appena giunto a Colombo. Ma […] quel testo, che non era privo d’interesse, andò smarrito tra le carte di Mircea Vulcănescu e non l’ho più rintracciato» (20).

La sorpresa, destinata a sconvolgere «tutti i progetti e l’orientamento generale degli studi» sui quali Eliade si era concentrato, è tuttavia la breve lettera del mahārāja, ricevuta a settembre, in cui questi si dichiara disposto a “sponsorizzarne” il soggiorno in India. Il mecenate chiede a Eliade di comunicargli il preventivo mensile per la sua permanenza, non prima di aver precisato – in un francese piuttosto approssimativo – che «la filosofia dell’India non viene insegnata nelle università del Paese. La si studia negli istituti tradizionali, la cui lingua è il sanscrito». Nel post scriptum, gli comunica inoltre l’intenzione del professor Dasgupta di accettarlo come studente (21). Eliade aveva già chiesto informazioni sul costo della vita in India in una lettera a Dasgupta, nella quale gli aveva espresso il desiderio di restarvi un anno, come risulta dalla risposta, che trascriviamo per intero: «Gentile Signore, in riferimento alla Sua lettera del 4 settembre mi permetto di informarla che, in genere, l’Università di Calcutta è il posto migliore dove studiare Filosofia Indiana. Per quanto riguarda i costi, uno studente indiano deve spendere più o meno 4 £ al mese, ma se si vuole mantenere uno stile di vita europeo bisogna pagare molto di più. Non capisco nemmeno come Lei possa trarre profitto studiando in India per un anno solo – credo che Lei non conosca il sanscrito; se le cose stanno così, non può sperare di imparare la filosofia indiana in tempi così brevi. Cordiali saluti, S. N. Dasgupta» (22).

Eliade deve dunque affrettare la redazione della sua tesi di laurea e reperire denaro per il viaggio asiatico, ormai imminente. Scrive anche a Formichi, chiedendogli consigli e informazioni nell’eventualità di un soggiorno di studio in India. Questi gli risponde dall’Università della California, dove si trova in quel momento (è il 19 settembre), consigliandogli “caldamente” l’università di Dacca e suggerendogli di rivolgersi a Giuseppe Tucci a nome suo. Dalle scuse di Formichi per il ritardo nella sua risposta a Eliade, come anche dal tipo di informazioni fornite, possiamo dedurre che nei mesi estivi il giovane studioso non avesse ancora le idee chiare sulla sua partenza: a Formichi potrebbe aver scritto mentre era ancora a Roma, in preda all’euforia generata dalla scoperta del libro di Dasgupta, oppure dalla Romania, in attesa di notizie dall’India. Elementi ulteriori dimostrano come, prima di partire per Calcutta, Eliade avesse preso in considerazione l’ipotesi di recarsi a Dacca e studiare con Tucci. Ad esempio, in una lettera a Valeriu Bologa datata 22 ottobre 1928, scrive: «Tra venti giorni partirò per l’India (Dacca University). Resto lì un anno e mezzo per preparare la tesi di dottorato, sulla logica buddhista», per poi aggiungere: «Come vedi, sto per lasciare il Paese – e per un territorio così fantastico e incerto» (23). In un’altra missiva, scritta solo il giorno dopo, le previsioni sul viaggio sono tuttavia diverse, inserite in un progetto più ampio di permanenza all’estero: «Vado in India, in Giappone e poi in Germania. Per almeno quattro anni, sarò qui solo provvisoriamente» (24).

Nel frattempo, a quanto pare, Eliade aveva convinto Ionescu della necessità di andare in India: «Essendosi reso conto del mio interesse sincero e costante per l’Oriente e soprattutto per l’India, Nae Ionescu non cessava di ripetermi, tutte le volte che ne aveva l’occasione, che una filosofia è comprensibile solo là dove si è formata. E in India, ad esempio, aggiungeva, che ci si deve recare per vedere come si comporta e come cammina per la strada un uomo che non crede nella realtà ontologica del mondo» (25).

A ottobre Eliade discute la tesi di laurea: è ormai consapevole che, partendo per l’estero (come il protagonista di Gaudeamus), dovrà congedarsi da R., dai suoi amici, dai tanti progetti aperti e dalla sua cara mansarda. La “tentazione” dell’India si scontra drammaticamente con il sentimento di non aver portato a compimento nulla e il suo scoprirsi legato a tanti affetti. «D’altra parte – ricorda il memorialista, interpretando la partenza per l’India nella prospettiva del proprio destino – sapevo che se non mi fossi staccato in quel momento, quando quelle separazioni mi facevano soffrire oltre ogni limite, non avrei più affrontato in tempo il mistero che mi attendeva da qualche parte in India. Sapevo che quel mistero si trovava là perché io lo decifrassi, e che decifrandolo avrei scoperto chi ero veramente e perché ero così come mi piaceva essere, perché mi erano capitate certe cose nella vita e perché mi avevano appassionato a volta a volta i problemi della materia, le piante, gli insetti, le letterature, le filosofie, le religioni, e attraverso quali vie, dalle partite a oină (26) sullo spiazzo del Municipio nella mia infanzia ero arrivato ai problemi che mi tormentavano» (27).

Il 22 novembre, il padre e la sorella del giovane Mircea lo accompagnano alla stazione Nord di Bucarest. Ad attenderlo c’è un treno, diretto a Costanza. Una settimana dopo, sulle colonne del settimanale «Vremea», un amico pubblica una breve nota in cui descrive scherzosamente la partenza dell’anticonformista leader della “giovane generazione”: «Alle quattro e cinque minuti, inesorabile come quell’inexorabile fatum, il treno incominciò a muoversi. Ovazioni, grandi emozioni e lacrime scorrono a fiotti, la generazione presente al binario è presa dal panico… “Il capo se ne va, il capo se ne va!”, urla in coro la generazione… Alle quattro e sei minuti la più fresca di tutte le generazioni era rimasta senza capo» (28). È una svolta decisiva nel destino di Mircea Eliade che, a contatto diretto con la realtà indiana, troverà non soltanto una fonte rinnovata per i propri studi e scritti, ma anche l’impulso a intraprendere nuovi viaggi, orientali e non, nel segno della ricerca e del superamento eroico di sé.

 

  1. Nel primo volume delle sue Memorie (Le promesse dell’equinozio, a cura di R. Scagno, Jaca Book, Milano 1995, p. 155), Eliade “dilata” la durata di questo secondo soggiorno italiano: «All’inizio dell’aprile del 1928, partii per trascorrere tre mesi a Roma». Se questa frase potrebbe tradire un’intenzione, l’originale romeno recita letteralmente: «La începutul lui aprilie 1928 am plecat pentru trei luni la Roma», cioè «All’inizio di aprile andai per tre mesi a Roma» (Memorii I, a cura di M. Handoca, Humanitas, Bucarest 1991, p. 157). Poco dopo, può leggersi: «Verso la metà di giugno, decisi di ritornare in Romania. Dovevo essere a Bucarest prima della fine del mese, per dare i miei ultimi esami» (Le promesse dell’equinozio, cit., p. 158). In realtà, le cartoline e le lettere spedite da Eliade alla famiglia durante i suoi spostamenti ci consentono di ricostruirne il soggiorno italiano, la cui durata fu di un mese e mezzo. Cfr. M. Eliade, Europa, Asia, America… Corespondenţă, vol. I (A-H), a cura di M. Handoca, Humanitas, Bucarest 1999, pp. 233-244 (d’ora in avanti indicato come Corespondenţa I).
  2. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 140.
  3. Ibidem.
  4. Ivi, p. 151.
  5. M. Eliade, Corespondenţa I, cit., p. 235.
  6. M. Eliade, Contributi alla filosofia del Rinascimento, in Mircea Eliade e l’Italia, a cura di M. Mincu e R. Scagno, Jaca Book, Milano 1986, p. 146.
  7. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 156.
  8. Ibidem.
  9. Ibidem.
  10. Ivi, p. 157.
  11. Ibidem. Il brano menzionato fa parte della prefazione di Surendranath Dasgupta, A History of Indian Philosophy, vol. I, Motilal Banarsidass, Delhi 1975, p. XI.
  12. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 157.
  13. M. Handoca, Mircea Eliade şi corespondenţii săi, vol. I, Ed. Minerva, Bucarest 1993, p. 174.
  14. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 157.
  15. Le dodici “puntate” dell’Itinerario spirituale furono pubblicate su «Cuvântul» tra il 6 settembre e il 16 novembre del 1927 (ora in M. Eliade, Itinerariu spiritual. Scrieri de tinerețe, 1927, a cura di M. Handoca, Humanitas, Bucarest 2003, pp. 263-362).
  16. M. Eliade, Memorie, cit., p. 144.
  17. Ivi, p. 159.
  18. S. Dasgupta, op. cit., p. VIII. Traduzione nostra.
  19. Quell’estate il giornale fu infatti comprato dallo stesso Nae Ionescu, che dovette lavorare sodo – e spesso solo, non potendo pagare i collaboratori – per rimettere a posto la situazione.
  20. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 161.
  21. Lettera del 5 settembre 1928, in Corespondenţa I, p. 175.
  22. Lettera del 12 ottobre 1928, in ivi, p. 248. Traduzione nostra.
  23. Ivi, p. 74. Contestualmente a queste notizie, in un articolo – pubblicato alla fine di aprile del 1933 sul settimanale «Vremea» – dal titolo L’inverosimile e utilissima vita del mahārāja di Kassimbazar, Eliade aggiunse come l’impulso di scrivere al mecenate indiano fosse stato determinato dall’intenzione di recarsi in India: «Siccome stavo progettando un viaggio in India, gli scrissi. E, circa due mesi più tardi, ricevetti una risposta in francese» (M. Eliade, La biblioteca del mahārāja e Soliloqui, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 92).
  24. M. Eliade, Corespondenţa I, cit., p. 75.
  25. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 160.
  26. Gioco sportivo tradizionale, simile al baseball e allo tsan valdostano.
  27. Ivi, p. 165.
  28. P. Mihai [Mihail Polihroniade], Il Sig. Mircea Eliade se n’è andato in India, ovvero su come la “generazione” è rimasta senza capo, in «Vremea», 29 novembre 1928, ora in M. Handoca, Dosarele Eliade, Curtea veche, Bucarest 1998, p. 35.

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