Sulla creazione artistica e sul senso del meraviglioso

Howard Phillips Lovecraft
H.P. Lovecraft #2 – L’orrore cosmico del Maestro di Providence n. 8/2014
Sulla creazione artistica e sul senso del meraviglioso

Esistono molte motivazioni che possono indurre alla creazione letteraria, ma secondo me soltanto una – la meno accettabile per le persone che ragionano col portafoglio – è sufficientemente valida da giustificare la scrittura professionale. Pertanto, possiamo immediatamente eliminare la categoria di coloro che vedono nella scrittura solamente una fonte di guadagno. Costoro possono avere successo soltanto se particolarmente e naturalmente dotati sul piano tecnico, ma le loro creazioni suoneranno sempre artificiose. Non scriveranno mai qualcosa che – per usare le Sue parole – sia «meritevole» o di una «qualche profondità», e probabilmente potrebbero soddisfare le proprie ambizioni con maggior rapidità e profitto dedicandosi a qualche altra attività.

Possiamo anche fare a meno di quelle persone che scrivono per placare l’inquietudine della propria anima e trovare un rimedio alla noia o a condizioni di vita insoddisfacenti. Semplicemente, queste persone desiderano qualcosa che non possiedono, e pensano che il modo migliore per ottenerla sia confezionare un mondo fittizio sulla carta, nel quale loro stessi, impersonando i propri eroi, possano godere di tutte quelle cose che la vita non ha concesso loro. Non sono interessati alla letteratura o all’arte delle creazioni in se stesse, né ritengono che il mondo possegga una qualche meraviglia o fascino che meriti di essere raccontato. Le loro visioni sono limitate, comuni e condizionate dalla specifica ragione della loro insoddisfazione; ciò che scrivono ben difficilmente potrebbe mostrare vera forza, bellezza, grazia o un simbolismo o portata universali. Starebbero assai meglio se trovassero qualcos’altro che li potesse interessare o soddisfare – come talvolta accade dopo che la scrittura ha iniziato ad annoiarli.

Una terza categoria da eliminare è quella dello “scrittore per passatempo” – colui che, apaticamente e senza originalità, nella scrittura cerca soltanto il divertimento, e trova soddisfazione e gratificazione alla propria vanità nell’imitare (in modo più o meno elaborato) libri e storie che ha letto e apprezzato. Questo tipo di scrittore prova un piacere infantile nell’assomigliare ai propri idoli – o nel ricreare una sorta d’immagine riflessa del loro mondo falso e semplice (o del loro mondo autentico e complesso, nel raro caso in cui i suoi gusti siano classici) – un piacere che può essere paragonato a quello dell’abile solutore di parole crociate del 1925, o di quell’individuo che ha ottenuto punteggi altissimi nei quiz nel presente anno di grazia. Le creazioni di questa tipologia di scrittore possono talvolta raggiungere un livello discreto – ma dietro al suo lavoro non c’è vera forza vitale, tant’è che i suoi interessi spesso s’indirizzano in seguito ad altri campi. Ciò che oggi la letteratura significa per lui un domani potrebbero significarlo il baseball, la politica o le spedizioni belliche.

Un’altra categoria di scrittori improbabili è quella delle seriose – e assai rumorose – Persone Con Una Missione. Questa brava gente scrive perché desidera che anche altri facciano o credano ciò che loro stessi fanno o credono, e naturalmente i principali scopi delle loro opere sono la propaganda e la persuasione – e non quel rispecchiamento della vita reale o la pura esaltazione della bellezza che fondano la letteratura più autentica. Ovviamente, qualora questi individui siano accidentalmente dotati di cultura e naturale eloquenza – come, per esempio, Platone, Lucrezio e Ralph Waldo Emerson – possono anche, per puro caso, produrre vera letteratura; ma la coincidenza di questi aspetti non è un fenomeno frequente, e pertanto possiamo abbastanza tranquillamente consigliare alla Fervente Schiera degli Idealisti e dei Seri Pensatori di limitare i propri esercizi di scrittura alla saggistica e alla trattatistica sulle materie di cui sono esperti. Non otterranno grandi risultati in altre forme di espressione letteraria – per l’eccellente ragione che non sono particolarmente interessati a farlo!

Il significato di quanto detto finora è che il dilettante della scrittura, che riconosca in una di quelle descritte sopra la motivazione principale che lo spinge a scrivere, farebbe bene a pensarci due volte prima di dedicare altro tempo ed energia agli sforzi letterari.

Ora, qual è l’unico reale impulso estetico che veramente giustifica convinti e appassionati sforzi nella creazione letteraria – l’impulso che ogni autore degno di tal nome dovrebbe riuscire a scoprire dentro di sé? È terribilmente difficile da definire, giacché la sua stessa essenza è vaga, elusiva e inafferrabile; tuttavia ritengo che questo impulso possegga caratteristiche sufficientemente definite da poter essere quantomeno reso riconoscibile, sebbene non sia possibile descriverlo nei dettagli o farlo rientrare senza possibilità di errore nelle frettolose categorizzazioni della psicologia moderna.

L’impulso che giustifica l’attività dello scrivere – quella virtù che dona dignità e ragionevolezza all’insaziabile desiderio di un essere umano di esprimere se stesso su carta – è una sorta di visione sublimata che ammanta l’universo di nuovi colori, e che avvolge il palcoscenico della vita di un fascino mistico e di un velo di significato così profondi e potenti che nessuno potrà più osservarlo senza avvertire un desiderio irresistibile di catturarne e conservarne l’essenza – per preservarlo in futuro, e condividerlo con coloro che saranno capaci di ammirarlo adottando un punto di vista analogo.

Solamente persone dotate di questa marcata inclinazione per il senso del meraviglioso e dell’insieme, e capaci di applicarlo al mondo reale o a quello del sogno, possono aspirare a creare vera letteratura. Se gli eventi della vita – o le fantasie della mente – non appaiono ai loro occhi in colori misteriosi; se tali eventi o fantasie rimangono confinati a puri e semplici illusioni ed effetti terreni, senza suggerire meravigliosi ed imperscrutabili schemi cosmici e profondi abissi d’insondabile mistero, allora è il caso che queste persone si dedichino a qualcosa di più sano, normale e pratico dello scribacchiare a un dollaro alla risma.

L’aspirante scrittore dovrebbe mettersi alla prova nel tardo pomeriggio, quando la luce obliqua del Sole riveste di bizzarri e incantevoli mantelli dorati i tetti e le guglie, i boschetti e i giardini, i campi e le terrazze, i prati rasati e i gigli sui laghi increspati. Se una scena simile non gli suscita un rapido serrarsi della gola – la folle consapevolezza che un qualche mistero si nasconde proprio al di là dell’Occidente in fiamme, o la feconda certezza che un’indecifrabile ma splendida meraviglia sta per manifestarsi – allora egli non dovrebbe sentire la necessità di scrivere quei pensieri e impressioni casuali che possono eventualmente allignarglisi nella testa. Tutto quanto si potrebbe concepire di ordinario e disadorno è già stato pensato e detto migliaia di volte. Il banale, prosaico mondo dei sentimenti e degli eventi comuni è già stato “compilato” così bene che non rimane nulla di significativo da aggiungere. Al contrario, si deve cominciare a scrivere quando gli eventi del mondo reale appaiono suggerire qualcosa che supera i confini di tal mondo – stranezze, schemi, ritmi, combinazioni uniche che nessuno ha mai visto o udito in passato, ma che in realtà all’osservatore si rivelano così importanti e ricche di magnifica bellezza da meritare senza dubbio di essere cantate con accompagnamento solenne e squilli di tromba.

Spazio e tempo prendono vita e significato letterari quando iniziano a suscitare in noi una sottile nostalgia per qualcosa “fuori dallo spazio e fuori dal tempo”. Nessuno scrittore degno di questo nome non ha provato un profondo senso di ammirazione e attesa di fronte ad una scena del mondo reale – come un panorama di colline silenziose all’alba, o un frammento di pavimento cittadino luccicante di pioggia e riflettente le luci della sera e le finestre illuminate, o un profilo di tetti lontani o di un giardino su una terrazza balaustrata – i cui contorni stimolino, dolcemente e intensamente al tempo stesso, un assillante, inarrestabile senso di memoria cosmica, ossia di aver già incontrato quella scena e altre simili in altre vite, altri mondi e sogni. Cantare quelle altre vite, quei mondi e quei sogni è il compito del vero scrittore. La letteratura è proprio questo; un testo generato da motivazioni diverse da una simile ricerca, meravigliosa e infinita, non è altro che una meschina e inutile imitazione.

Quanto detto finora riguarda la motivazione alla scrittura. Ma questa ultima, da sola, non basta a fare uno scrittore; ci sono infatti migliaia di anime inquiete che condividono questi sogni e desideri, senza però essere minimamente capaci di comunicarli. L’altro elemento essenziale – quello che, unito alla visione corretta, rende la competenza in ambito letterario una certezza – è un profondo senso della bellezza applicato al linguaggio. Lo scrittore di talento concepisce le parole solamente nelle loro relazioni estetiche – le sceglie per la loro capacità di cogliere con grazia e raffinatezza ogni sfumatura di significato e di emozione egli intenda esprimere, e per la loro capacità di cantare i suoi sogni in una musica d’ineguagliabile bellezza. Per il vero scrittore il linguaggio non è casualità o strumento utilitaristico, bensì la congiunzione del marmo e dello scalpello di uno scultore, per mezzo della quale scolpire oggetti di perfezione e bellezza assolute. Non ci si dovrebbe cimentare nella scrittura se non si è disposti e capaci di trattare il linguaggio come una delle belle arti – come una dimensione fondata su leggi complesse e delicate, dotata di significati nascosti e d’infinite possibili sfumature di suono, ritmo, forza, vitalità, tonalità e delle loro combinazioni. L’aspirante scrittore deve trovare in sé la volontà e l’entusiasmo per sottomettersi ad un lungo e faticoso apprendistato presso gli dèi del linguaggio – accettando di rimanere sempre docile e obbediente. Deve arrivare ad amare il linguaggio così tanto da percepirlo come fine a se stesso – e da provare uno squisito piacere anche soltanto nel modellare bei ritmi e parole.

 

[Brano tratto da una lettera di Howard Phillips Lovecraft, diretta a Zealia Brown Reed (Bishop) e composta il 5 giugno 1927]

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