L’oscuro richiamo – un frammento di Robert Hayward Barlow

Howard Phillips Lovecraft
H.P. Lovecraft #2 – L’orrore cosmico del Maestro di Providence n. 8/2014
L’oscuro richiamo – un frammento di Robert Hayward Barlow

Apparso per la prima volta sulle pagine di «The Californian» (vol. 3, n. 2, inverno 1935, pp. 28-31), rivista diretta dall’amico di Lovecraft Hyman Bradofsky, The summons fa parte delle opere di revisione del Maestro di Providence, che corresse e in parte riscrisse la storia per conto di Robert Hayward Barlow (1918-1951), un suo giovane e talentuoso discepolo che sarebbe poi diventato suo esecutore letterario.

Uscito con la firma del solo Barlow, il racconto venne ripubblicato due volte, prima sul sessantesimo fascicolo di «Crypt of Cthulhu» (Hallowmas 1988), numero speciale dedicato interamente a Barlow, e quindi nell’esaustiva raccolta Eyes of the God: the weird fiction and poetry of R. H. Barlow (a cura di S. T. Joshi, Hippocampus Press, New York 2002). Solo di recente – e non ancora ufficialmente – si è appurata l’effettiva partecipazione di Lovecraft nella stesura del testo: il dattiloscritto originale (composto di sette pagine, di cui tre olografe), con le sue estese correzioni, è stato battuto all’asta su Internet. Si è così potuto valutare il fattivo coinvolgimento di Lovecraft e l’estensione della revisione da lui operata sul racconto, finora inedito in Italia, che esce qui per la prima volta con la giusta attribuzione (Barlow-Lovecraft).

Nel documento originale si vede chiaramente come la maggior parte delle modifiche – comprendenti la piena riscrittura di diverse frasi e paragrafi – siano di Lovecraft. The summons può essere dunque annoverato tra le sue opere di collaborazione e, anche se l’idea e la stesura principale sono attribuibili al solo Barlow, il racconto è in tutto e per tutto “lovecraftiano”: si tratta, infatti, di una specie di surreale fantasia onirica – non dissimile dai primi racconti del Nostro – non si capisce se creata dalla mente del protagonista (che ha subito un’operazione al cervello), dalla sua coscienza espansa, o se, invece, reale. Esso contiene, inoltre, molti elementi e meccanismi estetico-letterari propri di HPL, e diverse allusioni alla sua opera maggiore, che si denotano anche nelle scelte lessicali e nell’indecifrabilità del monster, una tipica creatura tentacolare, per metà fungoide (il che implica una discendenza dal pianeta Yuggoth, citato esplicitamente nel racconto), filtrata dagli spazi interstellari.

Lovecraft scrisse altre sei storie in collaborazione con Barlow, tutte raccolte nel succitato volume della Hippocampus Press. Quattro di queste sono state tradotte in italiano nell’edizione Mondadori di Tutti i racconti, a cura di Giuseppe Lippi (la quale verrà ristampata in un volume unico nel 2015), mentre le altre due si trovano rispettivamente in «Fictionaire» (n. 1, ottobre 1999) e «Studi Lovecraftiani» (n. 10, inverno 2009). Per un approfondimento su Robert Barlow si può consultare utilmente la monografia critica di Massimo Berruti, Dim-remembered stories: a critical study of R. H. Barlow (Hippocampus Press, New York 2011), che a oggi costituisce il primo serio tentativo di inquadramento dell’opera dello scrittore di cui Lovecraft fu mentore.

 

Pietro Guarriello

 

***

 

«Tahtra-ma; y thiesta, Tahtra-ma; y thiesta»: così si presentò lo strano e silenzioso richiamo.

Esitai nel mio passo. Intorno a me si trovava la parte più malsana della città, vicoli tetri che davano riparo a negozi solitari, nei quali erano in vendita strane mercanzie. Più giù, lungo una strada dissestata, gli edifici brillavano e la gente mi passava accanto, stringendosi, sferzata dal vento pungente. Vaghi e indistinti rumori giungevano incessantemente, quando, all’improvviso, eccone uno nuovo, un inesplicabile richiamo, che non aveva origine. «Tahtra-ma; y thiesta…»

Mi fermai. Notai l’immagine offuscata di me stesso nella vetrina di un negozio. Non riuscii a vedere oltre il vetro, non percepivo altro che quel volto, lungo e piatto, quella sfrenatezza furtiva sotto le sopracciglia arcuate. La mia lunga e recente malattia era evidente, non stavo ancora bene. Vedermi in un tale stato mi ripugnava. I miei pensieri erano confusi. Lottai per fare chiarezza; il mio passo accelerò d’improvviso, quasi stessi per spiccar il volo. «…tra-ma; y thiesta. Tahtra-ma; y thiesta

Ombre incombenti. Da dove proveniva il monotono e oscuro richiamo? Volevo rimanere da solo e in pace, nel mio isolamento. Forse non sarei dovuto uscire da solo, per via della mia persistente malattia. Ne rimanevano tracce nel mio pallore e nella mia instabilità. Quel richiamo non avrebbe dovuto intrufolarsi nella mia agitazione. Ero abbastanza indispettito dalle sue lusinghe. Si ripeteva, ancora e ancora, in modo mai casuale, senza che mi fosse offerta una spiegazione di quelle parole criptiche e della loro interminabile successione.

Impulsivamente, imboccai uno dei vicoli oscuri che si trovavano lì vicino, lottando per sfuggire a quei suoni. Sussurravano qualcosa… eppure, in fin dei conti, non era nemmeno un sussurro… era qualcosa di strano e singolare. Evocava visioni morbose e fantasmagoriche. Per un istante, mi parve come d’intravedere delle foglie e il fievole ondeggiare dei rami contro un cielo empiamente illuminato. Pensieri folli. Dovevo smetterla. Perché mai la mia mente era così annebbiata? «Tahtra-ma; y thiesta.»

Il vicolo in cui ero entrato era completamente buio. Non vi erano negozi, solo un’oscurità stagnante. Nulla vedevo in quel buio – più avanti, dalla parte opposta, brillava la strada. La parte della città in cui mi trovavo era assai repellente. Muovendomi goffamente in quell’oscurità, il mio piede urtò qualcosa di morbido e orrido. Non vedendo cosa fosse, la mia mente s’immaginò di sfuggita qualcosa di piccolo e nero che si agitava.

Non ebbi dubbi: stavo per ricadere nella mia bizzarra e inesplicabile malattia, e mi doleva il trovarmi da solo in quei paraggi. Questa stramba afflizione aveva confuso i medici: non si trattava di epilessia, né di alcunché di analogo, nonostante le apparenze. Riguardava i problemi alla vista di cui avevo sempre sofferto, i quali, tuttavia, non avevano mai assunto le forme recenti. Sebbene nulla si fosse potuto capire dalla trapanazione del mio cranio, gli attacchi erano cessati. Qualunque fosse stata la causa, sembrava essere stata inconsapevolmente corretta dai chirurghi.

Prima dell’operazione, una sottile foschia dorata oscurava gradualmente la mia vista, causando strane e sconcertanti distorsioni dell’ambiente circostante, come se lo stessi osservando attraverso un vetro d’ambra, imperfetto e nodoso. Ma non è tutto. Avevo anche continue e spaventose vertigini, con profondi riverberi nella mia testa. Tali riverberi erano costituiti distintamente da suoni non provenienti dall’esterno, comunque incomprensibilmente diversi da qualsiasi tipo di capogiro conosciuto. È probabile ch’io avessi temuto oltremisura tali spiacevoli episodi ricorrenti. Ciò era dovuto in larga parte al mio eccessivo timore di qualsiasi cosa fosse legata alla pazzia. Vi erano stati episodi di follia tra i miei antenati, il che la rendeva, ai miei occhi, un campo di congetture patologiche. Rimuginavo su ogni segnale, quand’anche immaginario, sempre pronto a un eventuale crollo. Vivevo un’esistenza costantemente infestata dalla paura. Questi timori si concretizzarono con lo svilupparsi della malattia. Tuttavia, l’operazione cui, quasi entusiasticamente, avevo insistito nel sottopormi pareva aver dato dei benefici, malgrado la lunga convalescenza. Gli inganni visivi e acustici erano scomparsi, fisicamente non ero mai stato così bene e, per mia gioia, la vista si era addirittura rafforzata, conseguendo una precisione mai raggiunta prima. Quella sera assistetti alla prima ricomparsa dei sintomi di una qualche malattia, dopo la lunga convalescenza.

Frastornato, in quel blasfemo labirinto di stradine nere, decisi di far subito ritorno a casa, se le forze me lo avessero concesso. Avrei dovuto evitare a ogni costo di affrontare i miei capogiri in un posto isolato, sconosciuto e sinistro come quello in cui mi trovavo. Quei suoni e quelle impressioni bizzarre che si rovesciavano furtivamente su di me erano effetti della mia malattia, non avevo dubbi in proposito. Era, davvero, l’unica congettura possibile in quel momento. Mentre mi affrettavo, ecco nuovamente giungere quella voce: «Tahtra-ma; y...».

Era cresciuta d’intensità – oppure a essere aumentato era il mio stato illusorio? Follia, doveva essere per forza così. Dovevo pensare a qualcosa di limpido, poiché ciò che aleggiava nel vicolo era impuro. Mi trovavo all’interno di una strada a forma di cunicolo. Era come se roteasse, e l’estremità illuminata era vicina. Dovevo andare verso la luce, così da restare nel cono del suo bagliore, in modo che l’oscurità non potesse più generare in me brutti pensieri. Il Male si celava nel vicolo, era ovunque, quella notte, mentre giungeva la voce, insinuante e corruttrice, ripugnante e seducente… «Tahtra-ma, y thiesta, tahtra-ma, y thiesta…».

Non avrei forse dovuto sbarazzarmi di quegli strani pensieri? I miei passi riecheggiavano solitari sull’acciottolato – ma non poteva essere, poiché innanzi a me si profilava una figura, la quale non produceva alcun rumore. La sagoma era ricurva, vecchia, e portava delle fascine di legna. Non le prestai attenzione, lottando contro una bizzarra influenza, come se si trattasse di un comando in qualche modo collegato a quegli strani suoni. Sollevò la testa, guardandomi con malizia. Nell’ombra risaltava il biancore dei suoi denti, e i suoi occhi erano come rovesciati, in modo inquietante.

Poi me la ritrovai dietro. Mi stavo affrettando, giacché quell’ordine giungeva in modo più imperioso. Aveva bisogno di me. Di me? Che confusione. Cosa voleva da me? Per quale motivo quella voce mi turbava incessantemente? Non smetteva mai, bassa ma persistente, mormorando: «Tahtra-ma, y thiesta…».

Ero stregato, costretto all’interno di uno strambo delirio. Ancora oscurità, benché ci fosse luce. I palazzi erano troppo alti, non vi erano porte nelle quali dileguarsi. Tuttavia, non avrei comunque potuto farlo. Non erano forse chiusi i negozi? Oppure, no… le cose sfuggivano ai miei sensi vacillanti. Niente appariva naturale. Stavo correndo attraverso un fosco vuoto, e le strade non erano che miraggi. Aveva bisogno di me

C’era una finestra, assai sporca e con molte impronte di mani. Mi fermai e guardai all’interno. Ciò mi aiutò a dipanare quel caos. C’era una statua. Non riuscii a decriptarne la forma – ciononostante, sapevo che lì c’era una sagoma. Era nuda e cavalcava qualcosa, ma cosa stesse montando sfuggiva alla mia vista. Tentai, invano, di capire cosa stesse cavalcando. Mi accorsi di altre luci e oscurità, ma le percepivo come si percepisce il male. Come si percepisce il male…

La notte era malvagia. Non riuscivo più a ricordare dove stessi andando. Tahtra-ma, y thiesta. Giunse ancora. I muri non erano più tali, niente lo era; ma quella voce, cui dovevo obbedire, non aveva forse bisogno di me? Tahtra-ma, y thiesta.

Se solo una nuova nota avesse potuto giungere in mezzo a quella monotona ripetizione! Ero davvero matto? Sì, era quello che avevo temuto a lungo. Avevo visto la pazzia negli altri, ma non l’avevo mai capita. La follia è strana. Non riuscivo a pensare e, malgrado ciò, ero consapevole dei fatti, e tentavo di combatterla, lottavo per riuscire a pensare. L’oscurità era crescente, la luce s’andava affievolendo, ma non era quello il punto. Un suono, montante.

Tahtra-ma, y thiesta.

 

Dove ero finito?

Quella in cui mi trovavo era una strada tutta diversa. Non avevo alcuna direzione in cui andare, eccetto per quella voce, che mi guidava. Lo sapevo, mi dovevo sbrigare, aveva bisogno di me. Ero ai confini della città. Non ricordavo come vi fossi arrivato, sapevo solo che la voce, in quel momento, era più forte.

La foresta non era lontana. Ne avvertivo la presenza. Le strade asfaltate con le loro file di case accalcate si sarebbero ben presto ristrette, per poi sparire; dopo, anche le vie di campagna si sarebbero interrotte, oltre l’ultima luce. Nessuno viveva in quel regno liminale poiché la foresta aveva i suoi abitanti, e cose non buone erano svolazzate fin dentro la città. «Tahtra…»

«…ma; y thiesta.» Percepii un freddo malsano e crescente. Ormai l’aria era diventata un’indefinibile mistura di caldo e gelo. Era come una coltre di velluto che ostacolava, avvolgeva. Già, era proprio così, avvolgeva. Non ero dunque, al contempo, vivo e morto nella Voce? Se aveva bisogno di me, quale diritto avevo di andare contro il suo volere?

Se, come ho detto, mi sentivo inebetito, questo non potrebbe comunque descrivere con precisione le mie curiose sensazioni. Mentalmente ero squassato da pensieri e impressioni pungenti e intrusivi, e non riuscivo a isolare quelle immagini confuse. Certo, le mie membra rispondevano con automatica sollecitudine a ogni comando mentale; tuttavia, mi sentivo come dentro uno strano sogno, visto che avevo la sensazione assoluta di trovarmi in uno stato di parziale ipnotismo. Una completa mancanza del senso del tatto era sopraggiunta in me, come un lampo inspiegabile e sconcertante.

Non saprei come descrivere meglio quella mia singolare condizione – non vi era alcunché di soporifero; mi trovavo nell’incapacità di guidare le mie azioni ma, al contempo, ne ero totalmente cosciente. Le mie dita toccavano la mia fronte umida, come spinte da un qualche comando esterno. Inciampando, vagavo a caso, frettoloso – come un automa guidato da una volontà altrui. Devo inoltre ripetere che non mi sentivo stanco, nel senso comune del termine, essendo interamente cosciente di quel che stava avvenendo. A volte mi convincevo che tutto ciò altro non fosse che una serie di distorsioni causate dall’operazione al cervello. Tutto fluiva, come all’interno di un sogno.

Mentre mi avvicinavo ai confini della città, potevo vedere gli edifici e i magazzini. Erano gli ultimi, prima della foresta. Che cosa vi era riposto? Niente di sensato, né normale, qualcosa di incalcolabilmente orrendo. Io lo sapevo. Le cose, immondizia e altri oggetti, giacevano per le strade. Dall’antro di un vicoletto, qualcosa pieno di bolle emetteva sensazioni indicibilmente terrificanti. Mi frastornava. Terrore – poi, la foresta. Io, però, non dovevo sottrarmi. Quella cosa aveva bisogno di me.

Oscuri cespugli crescevano dappertutto, insieme ad enormi, abominevoli alberi. Escrescenze rampicanti e parassitarie grigie e deformi in ogni dove. Sembravano muoversi sotto la Luna – non poteva essere. Tahtra-ma, y thiesta.

Tutt’a un tratto, realizzai di conoscere la foresta. Quel cielo radioso era apparso insieme alla voce, lunghi eoni prima. In qualche modo, avevo già visto questo luogo spaventoso e, qualunque fosse il potere che mi aveva chiamato, voleva così. Con un terrificante stupore, riconobbi una sorta di forma baluginante.

Non mi fermai, né scappai, le mie gambe continuavano a muoversi. Altro non ero che una coscienza arrendevole e impotente, innanzi a qualunque malvagità fosse in attesa.

Sì, Maestro, sto arrivando!

Questo pensiero impulsivo cresceva in me, confondendo e attenuando i miei sensi e le mie impressioni. Mi guidava e, in quel momento, quanto rimaneva in me della mia vita senziente era quell’irresistibile desiderio. Mentre incespicavo attraverso tetri boschetti, mi attirava sempre più verso di lui, in direzione di una meta senza nome.

La foresta, dagli alberi antichi, era mostruosa. Nessun animale vi abitava, poiché le forme di quei tronchi neri e rigonfi erano estremamente sinistre. A evitarle erano anche gli uccelli, che non facevano il nido tra quei rami proibiti. Antichi tronchi si ergevano da umidi ammassi di erba innaturale e residui di rami in decomposizione. Qua e là, sopra quei cumuli di membra putrefatte, crescevano macchie di funghi flebilmente luminosi: la desolazione e il fetore regnavano ovunque. Piante del genere affondavano le proprie radici in quella terra, assai compatta, ed erano curiosamente deformi, condividendo la debole luminosità di quella natura putrescente. La sgradevolezza della foresta abominevole non si limitava alla terra, dato che quegli orribili rami, ricoperti di singolari foglie, ondeggiavano tristemente contro il cielo. Solo di tanto in tanto la Luna brillava sopra quelle altezze agitate, ma forse era meglio così: se illuminate, avrebbero rivelato tutto il proprio orrore. Malgrado l’assenza di una luce intensa, una tenue radiosità, simile alle fosforescenze provenienti dalle sinistre profondità delle caverne, inondava il cielo intero. Anche le nuvole erano inclini ad assumere forme suggestive, e non era raro scorgere pallidi vapori di origine inspiegabile sopra alcuni punti della foresta abbandonata.

I mortali la evitavano e, quando dovevano sbrigare delle faccende oltre la valle, sceglievano un percorso lungo e tortuoso, pur di non passare tra le ombre minacciose che dimoravano sotto gli alberi.

 

Mentre barcollavo, indebolito dalla vegetazione ripugnante e urticante di quel bosco, empio e fosforescente, un cambiamento cominciò a maturare in me. Mi accorsi che il mio passo rallentava e quel mio torbido desiderio di ricerca svaniva. Presto realizzai di essere fermo, preda di una strana nebulosità mentale; la fatica e il senso di costrizione mi avevano abbandonato. Ero nuovamente me stesso, benché ostacolato dalla sensazione di un invisibile blocco fisico, come se dei muri nascosti stessero premendo su di me, impedendo i miei movimenti.

Cominciò a pulsarmi nelle orecchie una corrente vibrante, simile alle onde di una musica inespressiva e prodigiosa, che cresceva d’intensità, fino a quando non fui inebetito e sordo. Si combinava in qualche maniera con le cime degli alberi, che si agitavano con violenza, fino a farmi immaginare per un momento che si fosse scatenata una tempesta. L’assoluta mancanza di suono di quegli ondeggiamenti sfrenati, insieme alla solennità, innaturale e minacciosa, del loro ritmo, ne indicava un’origine che non poteva essere di questa Terra. La musica, se tale poteva essere considerata, si lanciava e assaliva le foglie, muovendole in modo anomalo. La luce nel cielo crebbe d’intensità, come se qualche divinità demoniaca avesse ordinato alle lune dell’eternità di risplendere su quel posto. Nemmeno la cacofonia suonata davanti ad Azathoth nell’oscurità avrebbe potuto superare quella terribile maestosità. Desideravo con tutto me stesso prostrarmi davanti a questa forza, sollecitante e solenne, eppure ero ritto e totalmente immoto, osservando la bizzarra radura e quelle orribili ombre…

Nel frattempo, non cessavano di risuonare in me quelle criptiche parole: «Tahtra-ma, y Thiesta; Tahtra-ma, y», fino a quando i miei pensieri intontiti non furono stremati dalla loro sequenza. Non riuscivo a carpirne il significato, ma sapevo distintamente che ne possedevano uno, mentre rapidissimi pensieri mi comunicavano cose tutt’altro che piacevoli. Quella lingua non era dei nostri luoghi, né simile ad alcuna di quelle che avevo sentito pronunciare dalle labbra dei viaggiatori in Paesi lontani. Quelle parole, pensai, forse non erano neanche umane, magari si trattava di orribili sillabe di un qualche linguaggio dei troll. Oscuramente in agguato, vi erano celati significati quasi affini a indicazioni di origine demoniaca. Talvolta mi sono interrogato sul loro sinistro senso – quando, però, richiamo pienamente alla memoria gli eventi di quella terribile notte, sono felice della mia beata ignoranza.

Di colpo, lo vidi.

Lì, nel bel mezzo della radura, si trovava un abominio che mai afflisse persino il buon Sant’Antonio. Era una cosa immensamente antica e maligna, estranea al nostro mondo e proveniente da qualche immensa e fortunatamente remota profondità stellare. Una forma da incubo. Come intrappolato in un orrendo sogno, mi trovai paralizzato, incapace persino di urlare…

Non capirò mai il motivo per cui, fra tutti gli abitanti della città, proprio io fossi stato scelto da quell’entità demoniaca per i suoi scopi inconcepibili. Ci sono delle volte in cui mi trovo incline a pensare che la mente di quella cosa fosse in relazione con la mia; come se, a causa di una qualche combinazione cosmica, i nostri pensieri fossero stati plasmati secondo antichi e simili piani. Tuttavia, non lo so, e ogni ipotesi è inutile. Mi basta sapere che ero stato scelto da quella incomparabilmente antica entità aliena per i suoi terribili scopi. Non oso nemmeno provare a indovinare da dove venisse, salvo pensare che la sua origine dovesse essere quella di uno sconcertante mondo primordiale. Solamente un mondo del genere avrebbe potuto sviluppare un mostro tanto oscenamente complesso e consapevolmente terribile. Era più antico di Stonehenge, avrebbe anche potuto essersi manifestato agli antenati dei costruttori delle piramidi. Era più antico di qualsiasi concezione e credenza umana.

Non mi era mai stato chiaro cosa fosse. Non un animale, benché fosse provvisto di alcune caratteristiche animali, né completamente vegetale – si trattava di una ripugnante e sovrannaturale fusione di tali arbitrarie differenze. Aveva uno spettrale aspetto fungoide e ringrazio il cielo di averlo solamente scorto nella penombra, poiché una sua visione più chiara avrebbe potuto precipitarmi in un’incontrollabile follia.

Stava in piedi, forse era accovacciato – sicuramente non eretto – nella radura, illuminata dalla Luna. Rami oscuri ovunque, ombre a chiazze si stendevano sulla sua figura. Rimasi inconsapevole della sua forma per diversi minuti, malgrado la mia intera natura si fosse subito rivoltata contro le suggestioni che trasmetteva. Credo che l’aspetto più orribile risiedesse nella sua mancanza di occhi. Quella faccia vuota e priva di forma che mi guardava di sbieco, follemente… E, ancora, quei nauseanti tentacoli fungoidi – la grottesca e deformata struttura di tutta quell’alterazione, un insulto alle leggi logiche della Natura – erano ancor più sconvolgenti…

Doveva essere proprio così e, per quanto superficiale potesse essere stata la mia prima occhiata, prima che la stramba nuvola oscurasse il cielo, quella momentanea impressione risvegliò nella mia mente confusa uno stato di spavento e repulsione. Se non mi fossi già trovato in una condizione di semi-delirio, ciò avrebbe potuto persino produrre effetti terribilmente peggiori sui miei nervi. Ciò detto, ricordo che urlai, precipitando in una mortale agonia, davanti a quel che vidi.

La cosa non era però sola. Nel raggio della mia vista, acuita dalla paura, vi era una seconda forma vivente – e mi colse un nuovo orrore, mischiato a sensazioni troppo complesse da descrivere, nel momento in cui mi accorsi che quell’altra figura era umana. Già ho specificato come la luce fosse tenue; sebbene questo m’impedisse d’intuirne la forma, capii che la sagoma era quella d’un uomo assai vecchio, che si muoveva rapidamente nella radura. Compresi anche il motivo per cui quella cosa avesse allentato la sua presa su di me: davanti ai miei occhi si stava svolgendo una lotta di titanica potenza, nella quale tutte le energie maligne del mostro venivano assorbite dai suoi sforzi contro il suo avversario mortale. Tutto intorno a me, i rami di quella dannata foresta si contorcevano e ondeggiavano, in modo blasfemo e folle, al pulsare alieno di quella musica, incontrollata e inespressiva; vidi inoltre il malsano duello, combattuto silenziosamente tra il vecchio sconosciuto e quella cosa, che percepivo essere più antica – un’incarnazione più arcaica dello stesso universo e di tutta la nefandezza possibile – quella cosa che, davanti al mio sguardo pietrificato, combatteva per il possesso del nostro mondo.

 

Tutt’a un tratto compresi indistintamente quale era lo scopo di quell’abominio. Mi sembrava di conoscerlo da sempre, come se, per un fuggevole istante, la mia mente avesse condiviso gli odiosi pensieri e i ricordi di quella cosa aliena e imperscrutabile da cui era stata fino a poco prima soggiogata. Per qualche ragione – malgrado la mia conoscenza fosse svanita ancor prima di riuscire ad assimilarla – sapevo cosa fosse quel cosmico cacodemone e come fosse giunto in quel bosco notturno e repellente del nostro pianeta. Conoscevo la sua ordalia e il motivo per cui stava cercando l’aiuto di un abitante di un mondo nel quale brancolava come uno straniero frastornato. Ero al corrente dei suoi scopi, malgrado i miei ricordi siano talmente nebulosi da sfuggirmi, non appena li sfioro. Questo è quanto ricordo – esso voleva crearsi una specie d’inimmaginabile tana nel nostro mondo; intendeva contaminarlo con la nefandezza di Yuggoth…

 

Dio mio! Avrebbe anche potuto riuscirci… nessun dubbio sul potere della sua superiorità mentale. Vedevo quel coraggioso e determinato vecchio vacillare, incerto, in quella strana lotta. Capivo che non avrebbe potuto resistere a lungo. Non oso nemmeno immaginare cosa sarebbe potuto accadere. La putrescente mostruosità risplendeva proprio come quei funghi imputriditi…

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Il nuovo corso di INLAND. Quaderni di cinema, inaugurato dal numero #5, dedicato a Sergio Martino, è contraddistinto da aperture al cinema italiano, al passato, a trattazioni che possano anche [...]

Ultimi post dal blog

Fabrizio Fogliato è un esperto di cinema e in particolare del cinema dei generi. Da anni pubblica regolarmente saggi e analisi che diventano punti di riferimento per il mondo del cinema. Lo scorso anno ha mandato in stampa un nuovo importante volume intitolato Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano. Lo abbiamo intervistato per farci spiegare di che cosa si tratta e in che modo ha analizzato il cinema criminale della Penisola. Partiamo dal titolo. Come mai ha scelto Con la rabbia agli occhi, che è anche il titolo di un film degli anni 70? Con la rabbia [...]
Benedetta Pallavidino ha raccontato un attore molto controverso nel suo Helmut Berger. Ritratto su pellicola, edito da Bietti Edizioni nella collana Fotogrammi. L’abbiamo intervistata. L’attore classe 1944 è scomparso il maggio scorso ed è stato interprete di tanti capolavori tra cui diversi film di Luchino Visconti con cui ebbe anche una relazione. Ecco le sue parole sull’artista: Come nasce la tua voglia di andare a raccontare un personaggio controverso come Helmut Berger? Nasce dal fatto che l’ho sempre trovato un attore molto sottovalutato, ricordato solo per essere stato il divo e il compagno di Visconti. È sicuramente vero che diretto da [...]