Editoriale: per una «letteratura differente»

Andrea Scarabelli & Luca Siniscalco
Dino Buzzati – Nostro fantastico quotidiano n. 13/2018
Editoriale: per una «letteratura differente»

Cosa fa di un autore un classico? I dati di vendita? Le recensioni? Il tedio suscitato in generazioni di studenti sui banchi di scuola? Non solo: forse la ragione per cui uno scrittore continua a essere letto e riletto, a distanza di decenni o addirittura di secoli, va cercata più in profondità. Vi sono autori, come disse una volta Arthur Conan Doyle, che «hanno varcato la porta magica», conducendo i lettori a fare lo stesso. Ci hanno insegnato che accanto al mondo che conosciamo ve ne sono altri, di natura differente. All’inizio del Novecento, su alcuni pulp americani fu coniata una curiosa locuzione per designare quelle opere aliene ai generi precodificati: letteratura differente. Ebbene, è forse questa la migliore definizione del protagonista di questo numero di «Antarès».

Quella soglia evocata dal padre di Sherlock Holmes, Dino Buzzati l’ha attraversata ripetutamente, e come ogni grande letterato è poi rincasato, irradiando il nostro mondo di una luce differente, regalando all’uomo del misero XX secolo autentiche meraviglie raggranellate nell’Altrove. Il suo è stato definito – a giusto titolo – fantastico quotidiano. Un ossimoro, si potrebbe dire, almeno agli occhi dei benpensanti – poco fantasiosi e altrettanto poco interessanti – che continuano a vedere nell’immaginario qualcosa di avulso dalla “normalità”, da quella quotidianità data in pasto a lavoro e aperitivi, mogli e figli, buone maniere e tweet.

Ebbene, a noi piace pensare che se Buzzati è diventato un classico è per aver mostrato che il fantastico non sta “dietro al mondo”, ma è un modo alternativo di vivere il mondo stesso, che è – e rimane – uno. I suoi racconti non ci fanno volteggiare in altri universi ma ci tengono saldamente ancorati al nostro, al nostro universo materiale, il cui cuore pulsa di fantastico. Basta solo saperlo intravedere, anche in quegli inferni moderni che ai suoi occhi erano le metropoli contemporanee, spersonalizzanti e sincopate, cui opponeva, bellunese di nascita, l’imponenza delle montagne, la solitudine delle vette, l’umbratile fascino della provincia. Salvo poi trovare nella dimensione cittadina e ultramoderna un senso simbolico. Valga come esempio il rapporto di Antonio con Laide in Un amore, tragico emblema di una possibilità di trasfigurazione, ancorché effimera, della vile esperienza borghese. Un amore che fa dimenticare la morte. Un’oasi, per dirla con Jünger, in cui ripararsi dal Leviatano.

La sua è una poetica antirealistica, che però non cade nemmeno nell’errore opposto, vale a dire l’idealismo. In fondo sono la stessa cosa, sembra suggerirci l’autore de Il Colombre: entrambi si concentrano su un solo aspetto della realtà, dimenticandosi della sua interezza. Insomma: vogliamo essere davvero realisti? Cominciamo a cercare le interferenze tra materia e spirito. Cominciamo a comprendere – secondo la lezione di molti altri autori, più o meno presenti nelle pagine di questa rivista – che ad irrorare scienza e discipline dello spirito è la stessa linfa, di natura fantastica. Cerchiamo quelle contaminazioni, quelle esperienze entro cui domini apparentemente opposti entrano in congiunzione. Riverberando sulla realtà di tutti i giorni una luce flebile, che rinnova e si rinnova. Nostro fantastico quotidiano.

È il fantastico a redimere la quotidianità. È il fantastico a battezzare l’uomo in quanto tale, altrimenti destinato alla miseria di una vita addomesticata e orizzontale, al giogo di una mediocrità social, secondo la vulgata zuckerberghiana. Ma un uomo di questo tipo, lo disse Buzzati stesso, è «una malformazione della natura. La natura, per una mutazione imprevista e imprevedibile, ha dato luogo a un essere destinato, per definizione, a essere infelice» (Dino Buzzati: un autoritratto, Mondadori, Milano 1973, p. 89). L’uomo di cui si parla è quello moderno, il profeta del “migliore dei mondi possibili”, tutto preso nel cinguettio del “mondo nuovo” e del culto del progresso. «Ma il destino dell’umanità futura» chiosa Buzzati «me ne frego assolutamente. Non esiste. L’umanità futura non esiste. Non esisterà» (ivi, p. 84). Sembra di risentire il vecchio Bernanos del «Où fuyez-vous en avant, imbéciles?»: nessuna teologia politica, nessuna crociata morale o sociale. Il mondo non va cambiato, ma profondamente vissuto: nei suoi aspetti reali, così come fantastici.

Impolitico e non allineato, allergico ai salotti e alle ideologie, per Buzzati conta anzitutto lo stile individuale. Ad attrarlo sono uomini e donne concreti, che tengono alla propria libertà interiore ed esteriore, allergici ai compromessi con le cose del mondo, anarchici amanti dell’ordine. Ecco perché si definiva «uno che tiene duro e rimane collet monté anche quando viene la tragedia e la rovina di tutto quanto… A me piace moltissimo. In questo sono molto conservatore. In questo sono militarista» (ivi, p. 114).

Borghese nei costumi e aristocratico nello spirito, ci piace pensare che le righe dedicate all’amico Bepi Mazzotti nei Misteri d’Italia (Mondadori, Milano 1978, p. 29) siano in realtà un suo malcelato autoritratto: «Che un uomo abbia potuto opporsi alla travolgente marea di volgarità per salvare le cose belle, oneste e pulite della sua terra e vincere più d’una battaglia […] è pressoché incredibile in un mondo teso alla speculazione e indifferente se non rabbiosamente nemico dei valori spirituali. Incredibile e consolante». È lo stile a giustificare l’uomo – specie se la sorte l’ha eletto scrittore – non l’adulazione del pubblico, né la critica letteraria, il cui linguaggio fintamente ermetico non fa che celare il vuoto di menti piccine che si trovano a commentare, glossare, “dignificare”, in una parola significare opere insignificanti. Non li poteva proprio sopportare i critici, balbuzienti Re Mida del mondo in cui Dio è morto – con le debite eccezioni, tuttavia, una delle quali è contenuta proprio in questo fascicolo.

Più che elemosinare recensioni e segnalazioni, Buzzati s’inventò un’epica del tutto personale, che seppe poi infondere nei suoi lavori, anche in quelli giornalistici, raro esempio di fusione tra cronaca e narrativa che molto avrebbe da insegnare a certi giornalisti à la page di oggi. Al pari di Truman Capote e Guido Morselli, tra i tanti, sapeva che anche il giornalismo richiede stile e trama, come la narrativa. E i suoi pezzi, a distanza di anni, stanno lì a mostrarlo, capolavori di uno che teneva soprattutto a raccontare storie.

Ora lui è scomparso, ma quelle storie rimangono a consolare l’uomo contemporaneo, perso in una realtà sempre più disumana e spersonalizzante, conducendo il Sole a mezzanotte, la speranza nella disperazione, lo spirito nella materia. Nostro fantastico quotidiano.

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