Il trauma è un occhio che vede: trauma è testimonianza, ma anche sogno (è il significato del tedesco träume). Traumatico è un evento che si inscrive nel soggetto come un geroglifico, un’orma incancellabile che chiede incessantemente di essere trattata, rimossa o inclusa nel flusso narrativo di colui che ne è segnato. L’impossibilità di rimuovere un trauma, di cancellarlo dalla coscienza – come accade nei soggetti psicotici – comporta una ripetizione sempre uguale dell’evento che si è impresso sotto forma di incubi, allucinazioni o attraverso la messa in scena seriale e letterale del trauma stesso, nel tentativo impossibile di farne qualcosa, di elaborarlo simbolicamente. La messa in scena vorrebbe addomesticare, depotenziare l’evento, mettere distanza tra lo stesso e il soggetto, ma questa dinamica, in alcuni casi, si traduce in una riproposizione continua del contenuto traumatico così com’è avvenuto. Senza mediazione, senza trasformazione.
Nel 1975 Dario Argento mette in scena il suo film fino a quel momento più teorico: un’opera lucidissima sullo sguardo e sulla percezione, sull’impossibilità di rimuovere, di dimenticare: Profondo rosso (1975) è a tutti gli effetti un film sull’impossibilità di salvarsi, di sopravvivere al trauma. Così il regista si serve di personaggi che hanno visto cose, che sanno vedere oltre il visibile, che hanno dimenticato ma non del tutto, per raccontare l’insistenza tragica e inesorabile di un reale che si ripropone sempre uguale perché scritto indelebilmente nella carne dei suoi testimoni. Storia di fantasmi che tornano sempre nello stesso luogo e ripetono le stesse azioni, Profondo rosso è intessuto di dettagli macroscopici, di un’attenzione ossessiva, ripetitiva, quasi morbosa, per ciò che è ai limiti del visibile: parti di oggetti e di corpi che non inquadriamo nella loro compiutezza ma che restano, appunto, pezzi, frammenti mnestici.
Ingrandire il dettaglio fino a fargli occupare tutto lo schermo sembra rispondere all’urgenza di guardare dentro, di entrare in profondità: proprio ciò che cerca di fare il protagonista Marc Daly, alle prese con dettagli che non tornano, con porzioni di immagini e ricordi che non riescono a incastrarsi in una visione unitaria, capace di dare senso al mistero in cui lui è precipitato.
Il mistero di Profondo rosso non ha meramente a che fare con l’identità dell’assassino, la cui schizofrenia ha tratti persino caricaturali e si manifesta elettivamente nella ripetizione di frasi e nella messa in scena ciclica di un evento avvenuto molto tempo prima. Ciò che sembra stare a cuore ad Argento è il confronto con l’impossibile, la distanza incolmabile tra sguardo ed evento, tra soggetto e oggetto. Così, nel prologo del film, lo spettatore assiste indirettamente a un omicidio; una volta entrato nell’appartamento della sensitiva Helga Ullman, Marc non si accorge di aver visto l’assassino riflesso in uno specchio e aver scambiato il suo viso per uno dei volti mostruosi ritratti in un quadro che, poi, pensa sia stato fatto sparire o spostato. Chi guarda, dunque, perde sempre qualcosa: c’è sempre un dettaglio cruciale che sfugge, inesorabilmente. Proprio come accade nella “casa del bambino urlante”: qualcosa non torna nella planimetria della villa. Alcuni dettagli sembrano non quadrare. E proprio l’ostinazione di Marc, la sua tenacia nel voler andare a fondo e sapere a ogni costo, gli consente di scoprire la stanza murata e il cadavere lì contenuto. In questa scena Argento rappresenta in modo molto efficace il ritorno del rimosso, e sembra suggerire che questo sia spesso foriero di distruzione e rovina: non a caso, la villa è distrutta dalle fiamme poco dopo la scoperta.
Chi riesce a vedere senza distanza, a inquadrare con precisione gli eventi è proprio la sensitiva Helga Ullman. Le sue capacità telepatiche, che nel film diventano oggetto di un convegno in una tra le prime scene, le consentono di entrare in contatto con la mente perversa dell’assassino e arrivare a conoscerne addirittura il nome. Chi può vedere chiaramente, sembra dire il regista, è solo chi non si serve dei propri occhi.
Curiosamente, molti anni dopo, in Occhiali neri (2022) Argento fa una riflessione analoga. La serie di omicidi rituali, collocati quindi in una dimensione di rievocazione del trauma originario, prende origine proprio successivamente alla scena del convegno. Ognuno di essi è preceduto dall’ascolto della nenia infantile che lo stesso assassino aveva ascoltato nel momento in cui il suo scompenso aveva avuto origine, e che ripropone a ogni vittima affinché questa la ascolti e si collochi, suo malgrado, nel quadro dell’evento scatenante. Se la verità è potenzialmente mortifera – ed Helga è la prima a scoprirlo – anche chi prova a coprirla, a nasconderla, non subisce sorte migliore. Il personaggio di Carlo è in questo senso esemplare: non solo tenta disperatamente di nascondere la colpevolezza della madre, prigioniero di un legame simbiotico, ma passa la sua vita a occultare, persino a sé stesso, il proprio orientamento sessuale, la propria identità. La sua morte è una delle più sadiche e feroci della filmografia argentiana, un supplizio infinito che somiglia al martirio che lo stesso Carlo si era, fino a quel momento, auto-inflitto.
L’autore non fa sconti: esibisce ogni geroglifico a cielo aperto, ogni tratto traumatico così com’è, senza mediare, senza alcun filtro. La finalità sembra essere dichiarare l’intrattabilità del trauma, la sua resistenza a ogni tentativo di simbolizzazione. Il trauma è ciò che è: si è scritto, si è impresso come traccia su una retina (si riveda, a questo proposito, 4 mosche di velluto grigio [1971]). La rievocazione dell’evento traumatico, la discesa nelle budella dell’inconscio porta solo devastazione. Questo postulato appare in antitesi alla logica psicoanalitica, alla necessità di operare una ricognizione alla ricerca delle origini del proprio dolore. La verità è materia da iniziati, come suggerisce la figura di Helga; e anche a quel livello l’incontro con la Gorgone può rivelarsi fatale, in quanto Argento fa coincidere trauma e verità. La verità è traumatica, sempre; anche lambirla può essere insidioso.
Molti film argentiani rappresentano un percorso iniziatico, una via stretta costellata di ostacoli e pericoli, che i protagonisti (si pensi a Suspiria [1977]), personaggi apparentemente senza qualità particolari, percorrono cercando l’uscita dal labirinto. Ma per uscire dal labirinto bisogna prima arrivare al centro, che coincide con la scoperta di sé. Se in Suspiria questo avveniva attraverso la rinascita iniziatica di Suzy in strega, in Profondo rosso la trasformazione di Marc ci viene suggerita dal suo riflesso nella pozza di sangue lasciata dal cadavere dell’assassino decapitato. In entrambi i casi viene uccisa una Madre terribile, foriera di morte, follia e caos. Per rimettere ordine è necessaria un’operazione di distruzione, dunque, imprescindibile per poter rinascere.
Curiosamente il personaggio di Gianna Brezzi, interpretato da Daria Nicolodi, sembra essere una sorta di facilitatore, di Virgilio che accompagna Marc nelle profondità di sé stesso, alla scoperta del rimosso e dei propri demoni. Anche se inapparenti, le qualità iniziatiche del protagonista si palesano parallelamente al dipanarsi della vicenda: la sua abilità con la musica, per esempio, gli è di aiuto nel reperire la melodia che l’assassino utilizza prima di ogni delitto. Intorno a lui, un esercito di inetti: le forze dell’ordine sono macchiette, la punteggiatura paradossale di una vicenda nerissima, che richiede ben altre energie per essere affrontata e risolta.
La verità, da intendersi in senso simbolico, nel cinema argentiano ha lo statuto di divinità (Inferno [1980] ne è un fulgido esempio), di forza ctonia purissima. Come Perseo nella lotta contro Medusa si serve della superficie riflettente dello scudo, così Marc si avvicina alla verità attraverso un riflesso, grazie a uno specchio. È per mezzo di questo artificio che riesce a sopravvivere, a non perdersi nel labirinto, a uccidere il mostro, il kakòn. Ma quel sangue che si sparge nel finale, e che macchia indelebilmente l’immagine di Marc, ci indica astutamente che luce e oscurità sono due lati della stessa medaglia, e che ciò che il protagonista ha scoperto, i segreti che gli sono stati rivelati (la radice latina di segreto è proprio secretum, cioè qualcosa di rivelato), hanno a che fare con qualcosa di molto intimo, di personale, che non potrà più non vedere, esattamente come accade al protagonista di Cruising di William Friedkin (1980) interpretato da Al Pacino. Uccidere il mostro, in altre parole, significa assumersene la responsabilità, l’energia. Si è molto parlato e scritto di una presunta esibizione dell’elemento necroscopico nel cinema argentiano: la passione per il macabro, per la putredine, per il sangue, mostrati in primissimo piano, addirittura in dettaglio. E se questo non fosse altro che un modo, per l’autore, di insistere sul profondo, sull’insondabile, sulla morte come elemento reale, perturbante, terrigno? Un’indicazione precisa, come avviene in Inferno, peraltro, di guardare sotto la suola delle nostre scarpe, nelle interiora della terra, invece di avere l’intelletto, la ragione, come unica guida? Inevitabile pensare alla discesa di Jennifer Corvino nelle viscere della terra, appesa al filo (telefonico) di Arianna in Phenomena (1985), o all’esplorazione verticale degli abissi in cui alberga Mater Tenebrarum in Inferno.
La coniunctio oppositorum, l’integrazione degli opposti, è l’unico modo per superare le prove terribili all’interno del labirinto e uscirne vittoriosi dopo avere ucciso il Minotauro. Jung direbbe che si tratta di integrare l’ombra invece che rigettarla, far dialogare il numero 1 (l’istanza numinosa, solare) e il numero 2 (il lato pulsionale, oscuro). La passione per il macabro che molti riconoscono o rimproverano a Dario Argento è, dunque, un segnale, uno sguardo preciso puntato verso la notte (o la luna), un occhio spalancato nel buio per vedere le cose che gli altri non vedono, le zone morte, e recuperare, dell’universo, una conoscenza allargata.
In Profondo rosso molte cose oscure avvengono di notte: esplorazioni, omicidi, dialoghi melanconici sul senso della vita, rivelazioni illuminanti: le notti argentiane sono uno scrigno di saperi, di verità pronte a svelarsi agli occhi di chi sa vedere oltre la superficie piana delle cose. Di giorno, al contrario, tutto cambia, e lo stesso registro filmico si fa più convenzionale, bidimensionale, privo di libere associazioni. L’impermeabile nero dell’assassino dà l’impressione di essere avvolto intorno alla stessa notte, e di essere a sua volta inghiottito dal buio delle strade torinesi. La città vuota notturna, fotografata magistralmente da Luigi Kuveiller, non è solo cornice alle vicende dipinte da Argento, ma è essa stessa protagonista, tableau vivant, affresco mobile che inghiotte personaggi e spettatori allo stesso tempo.
Il film si conclude, non a caso, con la formula «Avete visto Profondo rosso», vale a dire: siete stati testimoni, avete compiuto un viaggio, avete visto oltre la porta (come grida la ragazza che fugge dal collegio nell’incipit di Suspiria) e il vostro modo di vedere le cose, di inquadrare la realtà, forse non sarà più lo stesso. È innegabile, a tal proposito, la novità rappresentata dallo sguardo del regista, la sua attenzione a dettagli apparentemente insignificanti che in Profondo rosso trova la sua prima regale espressione: una serie quasi rituale di inquadrature macro, di fotogrammi riempiti da oggetti, forme, corpi tagliati, lame, superfici riflettenti, occhi, bocche, denti, sangue. Abbiamo visto oltre la soglia, là dove il buio si addensa, dove la verità si nasconde, senza alcuna certezza se non la volontà di conoscere, di arrivare in fondo, di trovare il centro.
CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento, Bernardino Zapponi; sceneggiatura: Dario Argento, Bernardino Zapponi; fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia: Giuseppe Bassan; costumi: Elena Mannini; montaggio: Franco Fraticelli; musiche: Giorgio Gaslini, Goblin; interpreti: David Hemmings (Marc Daly), Daria Nicolodi (Gianna Brezzi), Gabriele Lavia (Carlo), Eros Pagni (commissario Calcabrini), Macha Méril (Helga Ulmann), Giuliana Calandra (Amanda Righetti), Glauco Mauri (professor Giordani), Clara Calamai (madre di Carlo), Nicoletta Elmi (Olga), Piero Mazzinghi (signor Bardi), Geraldine Hooper (Massimo Ricci), Furio Meniconi (Rodi); produzione: Salvatore Argento e Angelo Iacono per Rizzoli Film, Seda Spettacoli; origine: Italia, 1975; durata: 127’; home video: Blu-ray Mustang Entertainment, dvd Mustang Entertainment; colonna sonora: Rustblade.