Luoghi che (non) esistono. Homo Argentum e l’invenzione delle città

Dario Argento n. 15/2022

di Luigi Coluccio

Una volta c’era un dio minore che non accettava sacrifici cruenti. Il suo nome era Terminus. A lui furono innalzati i primi canti durante la vera fondazione di Roma, che non fu il tempo del primo re Romolo, ma del secondo. Fu infatti Numa Pompilio, il filosofo, il legislatore, il sabino venuto da fuori, a dividere le proprietà dei romani, a imporre su ogni confine la presenza di una pietra senza volto, di un cippo dalla forma squadrata, dove nei giorni dei Terminalia i proprietari dei campi si incontravano per festeggiare il buon vicinato e la fine dell’anno. Terminus rappresentava una sorta di punto cieco per Roma e il suo destino. Quando Tarquinio il Superbo, durante la costruzione del Capitolium, decise di sgombrare gli altri edifici sacri presenti sul colle, l’unico dio che rifiutò di spostarsi fu proprio Terminus, visto che nessuno riuscì a smuovere la sua silenziosa e immutabile pietra. Così nel tetto del Capitolium fu tenuta un’apertura, perché il dio dei confini non può essere confinato a sua volta. Questo fu un presagio per gli àuguri che i confini di Roma non sarebbero mai regrediti, ma Terminus incombe su uno degli istituti giuridico-religiosi più importanti della Roma arcaica, cioè la sacertà: Homo Sacer diventava colui che violava i confini, attentando alla pax deorum e quindi alla sopravvivenza della città. Su chi cadeva il rito del Sacer esto veniva meno la protezione divina garantita alla comunità: ogni cittadino poteva ucciderlo impunemente, poiché la sacralità era stata trasferita dall’Homo sacer all’assassino.
Qualcuno che vìola un confine. Che sta dove non deve stare.
Qualcuno che lo bracca, che lo perseguita, che sembra poter fare ogni cosa.
Dall’Homo Sacer all’Homo Argentum.
Dario Argento è uno che sente le linee di forza. Sa che c’è qualcosa nell’aria, che ci si può ritrovare da una parte o dall’altra di un margine. Lo fa dire a diversi personaggi, sorta di bacchette rabdomantiche delle sue divinazioni filmiche («Magia est quoddam ubique, quoddam semper, quoddam ab omnibus creditum est»); lo dice lui stesso, parlando di come non si faccia ma si incontri un processo creativo («Quando stai scrivendo e pensando devi aprire le finestre, lasciare tutto aperto, perché le idee hanno una loro corposità, sono delle induzioni elettromagnetiche e girano nell’aria»1). Tutto il suo cinema è fatto di bordi da cui affacciarsi, di limiti da attraversare, di steccati da superare. Se Argento è un autore manierista, che lavora su codici e strutture che vanno dal classico al moderno senza sfociare nel distacco e nel disincanto del post, allora la prima forma che manipola è il rapporto con la cornice, cioè il genere, ma la seconda è sempre lo spazio. Lo ha fatto fin dall’inizio, da quella sorta di febbre mitopoietica dovuta a una malattia che lo costrinse a casa per mesi durante la sua adolescenza, chiuso nella biblioteca di famiglia a leggere, emergendo poi con una visione: «Mi si è, in pratica, spalancata una porta, e dietro questa porta c’era un panorama livido, nebbioso, che non era quello delle nostre città»2.
Già, la città, l’unità di misura minima del cinema di Argento. Adulterata, diluita, assommata a partire dal suo manierismo, dalla necessità della forma, per diventare sorta di Überstadt che tutto ha dove tutto occorre che sia – giri l’angolo a Milano e ti ritrovi in via Fritz Lang a Roma, anche se via Fritz Lang non esiste. Le linee di forza dell’erotismo, della follia e della magia sono le direttrici lungo le quali questi artefatti urbanistici vengono edificati. Chi solca il confine sbagliato, per incuria o accidente, diviene un surrogato allucinato e sciagurato di Homo Sacer, dove il detective per caso, l’uomo qualunque hitchcockiano, si trasforma in Homo Argentum. Le città si rivelano menzogne, e ogni rifugio che prima offrivano ora viene meno. Gli spazi si dilatano, perdono consistenza, ogni scala o finestra può nascondere qualcosa, forse il numen inest di Ovidio, la paurosa certezza che ci sia qualcuno in questo luogo. E le linee di forza sembrano amplificarsi dentro un edificio-soglia, sorta di grumo simbolico e materiale dove la sacertà dei vari personaggi può trovare compimento o assoluzione, dall’Istituto di Scienze Naturali alla Richard Wagner Academy for Girls, passando per Villa De Fabritiis, la Villa del Bambino Urlante, il Museo di Arte Antica… Il pieno di questi edifici-soglia viene rovesciato nel vuoto che sta tutto attorno, nelle piazze, negli slarghi che puntellano la città argentiana: sorta di temenos, recinto sacro dentro il quale officiare l’immolazione o l’agnizione, perimetro consacrato a qualche entità che ne ha il dominio assoluto – quanti omicidi, sacrifici, sono avvenuti dentro il loro spazio numinoso? Si varca una linea di forza e si è oltre, invisibili ai singoli e alle istituzioni, come i poliziotti che non sentono le urla terrificanti di Daniel nella piazza oscura di Suspiria (1977) o i passanti che non vedono l’accoltellamento di Bullmer nello slargo assolato di Tenebre (1982). Nessuno sembra cogliere i simboli che delimitano questi spazi, le statue, le targhe, il Blue Bar di Profondo rosso (1975), come se le Piazze d’Italia di Giorgio de Chirico e Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria non fossero mai esistiti.
E quando la corruzione e l’avvelenamento arrivano a tracimare (lo afferma Varelli in apertura di Inferno [1980]: «La terra dove le case sono costruite diviene mortifera e pestilenziale, così che gli edifici intorno e a volte l’intero quartiere ne maleodorano»), allora tocca scappare, varcare il confine della città e ritrovarsi altrove. Qui, nell’oltre-città, spesso si hanno le risposte. Capita già in L’uccello dalle piume di cristallo (1970): ad Aviano si trova il Berto Consalvi autore del quadro e in un paese fuori città avvenne la violenza che anni dopo innescherà la catena di delitti; o in La sindrome di Stendhal (1996), film che è tutto una fuga dalle metropoli, dal presente, dall’accerchiamento. Ma se si va troppo avanti, se perdiamo di vista la soglia, allora anche qui si rischia di essere divorati dallo spazio che sta attorno, come la Jennifer di Phenomena (1985) e la Betty di Opera (1987), oramai irraggiungibili nel delirio panteistico dei loro finali speculari – entrambe assimilate dalla Natura circostante, in quella «Transilvania della Svizzera» che è uno dei tanti posti che non dovrebbero essere lì.
Argento lo sa bene, visto che nella sua decennale rincorsa di una pellicola da girare negli Stati Uniti si aggroviglia su sé stesso con Trauma (1993). Si arresta davanti a tanti crocicchi diversi perché ha perso le tracce delle sue linee di forza: non ci sono né la magia né le tradizioni popolari a guidarlo, e la costruzione per sommatoria, per guizzi della sua Überstadt viene meno, assorbita da un’anonima Suburbia fatta di motel, diner, autostrade. Da qui – e dall’altrettanto seminale Il fantasma dell’Opera (1998) – sembra nascere, lentamente e dolorosamente, un nuovo ramo della filmografia argentiana che, specchiandosi nei titoli del passato e affrontando il nuovo sentore dei tempi, vede la sua forma in modo diverso. Non, come molti hanno scritto, dall’interno di una gabbia nostalgica, ma assaporando l’amarezza che sembra rimanergli in bocca. Così tutto diventa più piccolo, più sporco, più cattivo. Ci sono sempre Torino e Roma, non più come costruzioni irreali ma veri e propri correlativi oggettivi, tanto da avere cartelli, collocazioni temporali, suddivisioni urbane. Nonhosonno (2001), Il cartaio (2004) e Giallo (2009) ci mostrano queste città per intero, partendo dalla via più anonima per arrivare allo scenario più riconoscibile. Roma, poi, si erge a palcoscenico millenario di questa nuova urbanistica a misura d’uomo, gotica e moderna assieme in La terza madre (2007) e Il cartaio, fino alla fuga conclusiva di Occhiali neri (2022): Diana è cieca in città ma sente in campagna e così la sua wutende Heer, la caccia selvaggia, la vede come vittima e carnefice assieme tra i boschi che abbracciano la città, per un rito silvano officiato da cani feroci e uomini fetidi.
Se c’è un confine e chi lo oltrepassa diviene un Homo Sacer, allora deve esserci anche qualcuno pronto a sanare questa violazione. A uccidere con impunità. Ed è questo che fanno i maniaci, gli assassini, i serial killer di Argento. Appaiono e scompaiono a loro piacimento, instillando il dubbio di sapere ogni cosa, di vedere, percepire, comprendere tutto quello che riguarda le proprie vittime. E se tocca fare i conti con i topos della narrazione di genere, il cinema di Argento va comunque oltre: da dove giungono i suoi assassini? Come fanno a orchestrare i loro delitti? Forse la risposta sta nelle backrooms, leggende urbane nate sulla rete che si riappropriano di concetti legati al mito e alla religione, imbevendo di ansia contemporanea gli spazi liminali dell’antropologia e i non-luoghi di Marc Augé. Secondo redditors e cantori di creepypasta, le backrooms sarebbero gli interstizi della realtà in cui si scivola se non si è attenti o se si è anche soltanto sfortunati: spazi liminali fatti di infinite stanze tutte uguali tra di loro, non-luoghi che ricalcano la forma e l’essenza degli interni di un motel squallido e desolato. Noclip è lo scivolamento verso questa distesa-di-mezzo, termine preso a prestito dal mondo dei videogiochi a indicare una particolare combinazione di tasti che permette ai player di attraversare oggetti, ambienti e personaggi per avanzare quasi senza soluzione di continuità nella narrazione del gioco.
È qui che si trovano i maniaci dei film di Argento. Spostati a lato rispetto allo scorrere del mondo, tentano disperatamente di riaffacciarsi su di esso, perché, come scrive Simone Sauza in Tutto era cenere, i serial killer sono costituiti da un’ontologica «perdita di mondo», da un’impossibilità di farsi e identificarsi in rapporto a chi e cosa gli sta attorno: in un qualche momento della loro vita il processo senza cima né fondo della consapevolezza si è spezzato, lasciandoli da un’altra parte, con la necessità di ricostruire questo legame attraverso l’omicidio, unico strumento conoscitivo che hanno per affermarsi di nuovo da questa parte. Argento lo sa, lo sente, e così invade le scene dei suoi film di improvvisi tagli, salti, frammenti – l’iride di Il gatto a nove code, tra i tanti. Inserti perturbanti non per la sorpresa che provocano, ma per via della loro irriducibilità, perché non si riesce a collocarli in nessun contesto spaziale, temporale, narrativo. Sono brevi momenti che restituiscono solo degli squarci sul mondo che ci sta accanto. Lì tutto è indefinito, buio, vuoto. Del maniaco non possono che esserci rantoli o singoli arti, e per ricostruire tocca scivolare di nuovo da questa parte e uccidere, mutilare. Così si esce dalle backrooms per la caccia selvaggia e la vittima ideale non può che essere il proprio opposto, l’Homo Sacer speculare che ha anche lui attraversato un confine. Tanti protagonisti della filmografia argentiana sono stranieri in terra straniera, impantanati negli spazi liminali, vittime sacrificali perfette da cui rubare qualche pezzo di carne e di vita per tornare a esistere. E il modo in cui farlo è proprio quel noclip che permette di attraversare gli ambienti, di essere in più posti contemporaneamente – il cinema di Argento disegna camere chiuse, finestre dietro muri, tendaggi, sipari, stanze invisibili, ostacoli apparenti che si trasmutano in passaggi. Questa totale penetrabilità spaziale viene mimata dalla forma argentiana, fervidamente alla ricerca di un modo per mostrare assieme la scopofobia della vittima e la scopofilia del maniaco, con figure estetiche e ritrovati tecnici sempre più arditi e innovativi. Fino a che le immagini non bastano e deve intervenire lo stesso Argento a sigillare lo spaesamento panico che si impossessa delle vicende raccontate (ancora i finali di Phenomena e Opera).

Poi, come nella costruzione delle sue Überstadt, Argento esplora nuovi filoni, passando da questa inconsistenza esistenziale a una più opaca e problematica rappresentazione. Qui gli snodi sono Tenebre, manifesto iperrealista che per la prima volta ci mostra chiaramente lo spazio liminale del maniaco, e Trauma, dove la casa degli omicidi sta proprio accanto a quella di uno tra i personaggi. Questa collocabilità spaziale ed estetica sembra scaturire da un Argento incapace di ricondurre a una forma stabile le innumerevoli possibilità combinatorie del cinema televisivo-digitale, laddove il suo processo creativo si era basato su un’alchemica composizione di storyboard e shooting list, l’abaco e non il calcolatore. Come le città diventano riconoscibili e attraversabili, anche l’Homo Argentum va incontro ad altre funzioni e rappresentazioni: si tracciano fin dall’inizio le sue apparizioni (in La sindrome di Stendhal «L’assassino colpiva soprattutto a Roma e dintorni. Poi ci sono stati tre casi a Firenze»), ci si incardina dentro le istituzioni (i poliziotti al centro di Nonhosonno, Il cartaio, Giallo), si perde ogni contatto con l’indeterminatezza dell’altrove (in La terza madre Monsignor Brusca riconosce perfino l’esistenza dell’esoterismo come «scienza occulta» da studiare e praticare). La sacertà di vittime e maniaci rimane un orpello del passato, una superstizione arcaica che solo a sprazzi ritorna sulla superficie del nuovo reale, come nell’esilio imposto dal padre a Lorenzo in Nonhosonno e nel braccare le vittime straniere in Giallo, e solo alcuni ne afferreranno il reale significato. Lorenzo stesso lo dice: non c’è differenza tra gli omicidi locali e quelli altrove. Ed Enzo Avolfi lo rimarca con stanchezza: «Vittime che non mancheranno a nessuno, almeno alla gente del posto».

Anche l’Homo Argentum ha varcato il confine ed è stato sacrificato sul cippo senza nome né volto di Terminus.

Ma non è morto, è solo passato dall’altra parte.

 

Note

  1. Zagarrio Vito (a cura di), Argento vivo. Il cinema di Dario Argento tra genere e autorialità, Venezia, Marsilio, 2008, p. 35.
  2. Gomarasca M., Pulici D. (a cura di), Le porte sul buio. Il cinema, la vita, le opere di Dario Argento, «Nocturno Dossier», n. 18, 2004, p. 21.

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