"La porta sul buio". Un tram che si chiama Bernadotte

Stefano Loparco
Dario Argento n. 15/2022

È il settembre del 1973 quando la Rai manda in onda La porta sul buio, miniserie in quattro tv movie autoconclusivi supervisionata dal trentatreenne Dario Argento, autore romano della cinematografica trilogia degli animali, al suo esordio per il piccolo schermo. Operazione non estranea agli inganni del debutto («Ho una paura matta di fare fiasco, ma questa nuova esperienza mi eccita come tutte le cose nuove. Non girerò più gialli per il cinema per alcuni anni, ma spero, se questo tentativo riuscirà, di poterne realizzare molti per la televisione»1) ma, al fin della fiera, l’autore sembra crederci. Così, settimana dopo settimana, l’“Hitchcock italiano” fa capolino sulle televisioni del Belpaese preannunciando l’imminente visione dell’opera della durata di circa un’ora a puntata. Per carità, l’uomo non buca lo schermo: il tratto è incerto, la parola sembra spegnersi da un momento all’altro e quella gamba, durante la presentazione dello sceneggiato, ondeggia nervosamente. Ma il romano sa di cosa parla, la materia è quella che l’ha reso celebre in tutto il mondo: il giallo, con individuazione dell’assassino e messa in sicurezza della vittima.
Ma si sa, «il medium è il messaggio» (Marshall McLuhan) e la natura generalista del tubo catodico finisce per inibire l’estro orrorifico del regista e dei suoi collaboratori (così chiedono e ottengono i vertici di viale Mazzini) cosicché l’operazione, anche per motivi di budget, è formalmente espugnabile e con una fotografia – ah, i tanto cari rossi porpora – ridotta a una tavolozza slavata.
Ma il punto è un altro. Con un budget (evidentemente) risicato e senza l’elemento grandguignolesco, nei quattro film tv di La porta sul buio (Il vicino di casa, Il tram, La bambola, Testimone oculare) il motore della suspense non deriva dalla scrittura o dalla bravura drammaturgica del cast, ma da un uso proprio della tecnica cinematografica.
Come nelle sequenze finali di Il tram, firmato Sirio Bernadotte, alias Dario Argento. Dopo una prima parte umoristica e un po’ goffa, centrata sulla figura del commissario, l’autore – coadiuvato dalle partiture jazz del compositore Giorgio Gaslini, futuro autore della colonna sonora di Profondo rosso (1975) – chiude il suo viaggio in fondo al terrore con un affondo virtuosistico. E la macchina da presa è protagonista assoluta: zero dialoghi, primissimi piani, dettagli, zoomate, carrelli, riprese in soggettiva, a cavalletto, a mano libera. Tutto in una manciata di minuti, tutto per assicurare la sopravvivenza alla bella Giulia in fuga dal tipico maniaco guantato. Assieme a Testimone oculare, firmato da Roberto Pariante, Il tram è l’episodio migliore della quadrilogia, l’unico che aggiunga un lemma alla grammatica della paura e faccia da contrappeso ai più deboli La bambola di Mario Foglietti e Il vicino di casa di Luigi Cozzi.
Il soggetto del mediometraggio diretto da Cozzi assicura ai palati cinefili una fascinazione incerta – diversamente dall’evergreen La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock (1954), a cui il collaboratore di Argento dice di essersi ispirato – ma televisivamente sembra funzionare2. La vicenda è una sorta di Kammerspiel dell’angoscia – tutto avviene nel corso della notte – con una bella famigliola che, trasferitasi in un villino del litorale romano, cade vittima delle malversazioni omicide di un vicino di casa. Lieto fine per un lavoro non trascurabile nella filmografia di Cozzi [già regista di Il tunnel sotto il mondo (1969), non ancora di La portiera nuda (1976) e Scontri stellari oltre la terza dimensione (1978)], con Aldo Reggiani (reduce da Il gatto a nove code [1971]), Laura Belli, piccola ma bellissima diva del mitico Il segno del comando di Daniele D’Anza (1971), e Mimmo Palamara nel ruolo appena appena credibile del villain.
Con La bambola, il giovane Mario Foglietti (futuro autore tv delle serie Chiunque tu sia [1977] e L’enigma delle due sorelle [1980], nonché già collaboratore di Argento in 4 mosche di velluto grigio [1971]) tenta la strada del cinema dopo l’esordio a teatro e una robusta carriera di critico ma, alla prova della moviola, non eccelle. Nemmeno sorprende. Il suo episodio – storia di uno psicopatico ricercato dalla polizia – è forse il meno riuscito della saga: davvero sottotono, comunque lo si guardi. Né riesce a interessare la suspense, costringendo Gaslini a continue incursioni sonore per rimpolpare la materia che rimane sfilacciata. Con il belloccio Robert Hoffmann e due giovani alle prime armi – Gianfranco D’Angelo e Mara Venier – nemmeno nel solco del successo.
Infine, il Testimone oculare di Roberto Pariante (aiuto regista di comprovata esperienza, ma autore in prima persona del solo cortometraggio Il prete [1959]) è un lavoro di grande mestiere. Grande al punto che non è raro vederlo attribuito al regista romano, in virtù di alcuni movimenti di macchina e di un gusto del dettaglio, dalle mani guantate in giù, che sembrerebbe comprovare la tesi. C’è di più. Dopo due episodi sottotraccia, la macchina da presa toglie la sordina e torna a imporsi sulla scrittura. Lo spazio è aggredito con carrellate rapide, zoomate morbide, ralenti, pencolamenti, inquadrature dall’alto e a piombo, spesso in funzione deformante anche quando assistita dagli innumerevoli strali sonori di Gaslini – che deve aver mandato a memoria più di qualche partitura avanguardistica di Ennio Morricone – ma sempre alla ricerca del punto di ripresa più stupefacente. Tv movie pop, compatto, esacerbante e con un montaggio bipolare, spesso frenetico, altrove languido. Peccato per un cast appena sufficiente (che annovera Marilù Tolo, all’epoca compagna del Maestro) e un finale addomesticato dal medium televisivo come, del resto, quello di Il vicino di casa, la cui sceneggiatura originale prevedeva un epilogo ben più tragico.
Girata nell’estate del 1972 a colori ma trasmessa in bianco e nero dal 4 al 25 settembre 1973, la serie firmata Argento – che è anche produttore del progetto – tocca vette di 20 milioni di spettatori, raccoglie il plauso della critica3, divide il pubblico («Per carità, dite alla tv che non trasmetta quei racconti di ieri sera. Mia moglie è fuggita in cucina e non ha più voluto saperne di tornare da me, davanti al video» lamenta uno spettatore coevo) e, per alcuni anni, preserva il segreto: quel Sirio Bernadotte di Il tram, che la critica dell’epoca crede essere un vero regista in erba, altri non è che Dario Argento. Che ci credeva, sì. Ma con riserva.

Note
1 Dichiarazioni di Dario Argento, in «Corriere della Sera», 13 settembre 1972.
2 «Originale il racconto, ottima – il che è raro – la soluzione finale. E astute e intelligenti la sceneggiatura e la regia», in «La Stampa», 5 settembre 1973.
3 «Loderemo assai questo debutto del ciclo di Argento – non diciamo un capolavoro, comunque un pezzo, nel suo genere, di prim’ordine», in «La Stampa», 5 settembre 1973.

CAST & CREDITS

 

LA PORTA SUL BUIO
Ideatore: Dario Argento; fotografia: Elio Polacchi; scenografia: Dario Micheli; costumi: Dario Micheli; musiche: Giorgio Gaslini; produzione: Dario Argento per Seda Spettacoli, Rai; origine: Italia, 1973; durata: 4 tv movie da 60’ circa; home video: Blu-ray inedito, dvd Rai Trade; colonna sonora: Lucertola Media.

LA PORTA SUL BUIO. IL TRAM
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento, Franco Ferrini; sceneggiatura: Dario Argento, Franco Ferrini; montaggio: Alberto Moro; interpreti: Enzo Cerusico (commissario Giordani), Paola Tedesco (Giulia), Perluigi Aprà (Roberto Magli), Emilio Marchesini (Marco Roviti), Corrado Olmi (Morini), Fulvio Mingozzi (poliziotto), Tom Felleghy (passeggero), Maria Tedeschi (passeggera), Salvatore Puntillo (passeggero).

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