Di Il gatto a nove code (1971), opera seconda di Dario Argento, si parla generalmente come del titolo meno riuscito della trilogia degli animali, tendenzialmente a causa di un approccio che lo avvicina alle griglie convenzionali del whodunit americano – strutturato in delitto-indagine-risoluzione – quando di quel modello L’uccello dalle piume di cristallo (1970) e 4 mosche di velluto grigio (1971) sovvertono aspettative e assunti di base con eversione e urgenza espressiva indubbiamente maggiori. Nel firmare una pellicola nata soprattutto dal successo internazionale dell’opera prima, l’autore sembrerebbe adagiarsi sulle forme più impersonali del thrilling, dell’indagine metropolitana a sfondo psicotico, e un ritorno odierno alla visione verifica queste sensazioni generali: oggi Il gatto a nove code si conferma come il meno incisivo dei tre titoli. Eppure, c’è qualcosa in più. La formula non esaurisce il discorso e il giudizio tranchant non è sufficiente. Questo per tre ordini di motivi.
Il primo riguarda la piena coerenza stilistica e tematica che lega l’opera al corpus del suo autore: Il gatto costituisce, assieme a L’uccello e a 4 mosche, un motore primo che individua, formalizza e di lì informa negli anni a seguire buona parte del cinema di Argento. Qui sguardo e ossessioni trovano già una loro intenzionalità strutturale: dal tema della memoria al risorgere psichico del trauma, dal ricorso della soggettiva assassina alla trasposizione barocca della violenza – che penetra osmotica nei rapporti tra personaggi, creando incontri carnali a contatto con la sublimazione erotica e pornografica – Argento tratteggia la guida cartografica al suo cinema futuro, che in Profondo rosso (1975) troverà il suo punto cardinale.
Di qui il secondo motivo. Se Argento abita questo film nonostante la sua architettura più convenzionale, impersonale, a tratti televisiva per come sembra provenire dalle forme del piccolo schermo criminale americano anni Settanta; se vive insomma in queste immagini, lo fa come si indossa un po’ malvolentieri un vestito pensato per qualcun altro o che, comunque, non si sente pienamente proprio. Il gatto a nove code è un abito dal colletto troppo stretto e la vita un po’ opprimente, dalle cuciture che stringono e le maniche corte, e a poco servono struttura e disposizione ordinata del racconto se tale forma va in contrasto con l’indole sovversiva di un regista le cui architetture più potenti e fascinose, a tratti futuristiche e in senso più ampio avanguardistiche, rispondono ad altre logiche, appartenenti più all’immagine che alla pagina scritta, il lampo d’intuizione visiva piuttosto che la risoluzione razionale dell’intreccio.
Così si spiega l’andamento “a interruttore” del film, che nonostante la sua organizzazione narrativa strappa i punti di sutura per vivere di accensioni improvvise, sequenze che riscrivono le coordinate del genere e del visibile fin lì previsto aprendo scorci di possibilità, mostrando che è possibile vedere in modo nuovo e vivo anche dove le logiche di causa-effetto e le linee geometriche dell’impalcatura razionale sembravano non lasciar spazio ad alternative.
Perché Argento crea da sé le sue alternative, i suoi spazi e i soprattutto i rapporti spaziali tra i suoi luoghi, tra i contesti che avvolgono e ospitano e descrivono i personaggi. È così che accadono sequenze memorabili come la visita al cimitero dei due investigatori improvvisati, la morte altamente brutale e coreografata di Bianca Merusi o l’omicidio del di lei marito – il dottor Calabresi – che sua volta innesca un gioco di fotografie, zoom e verità nascoste nell’immagine con cui Argento palesa e salda il debito con Blow-Up (1966) riguardo il tema della crisi del processo conoscitivo. O ancora, su tutte, quel fenomenale inseguimento d’auto tra la polizia e la coppia formata da Giordani e Anna, durante il quale si attraversa tra centro e hinterland una città senza volto, asettica, che è epitome di come per Argento la dimensione metropolitana sia anzitutto un contesto di alienazione e perdita dei punti di riferimento per cui «il primo cinema urbano di Argento partecipa e aiuta a fondare un certo tipo di conturbante rappresentazione metropolitana in Italia»2.
Il terzo motivo – trasversale ai primi due – ha infine a che fare con la sorprendente consapevolezza autoriale che Argento svela di sé. Consapevolezza che è da intendersi certo in termini di urgenza e necessità creative, ma anche e soprattutto in termini ricettivi. Argento, insomma, ha già capito che per lo spettatore la dicitura “diretto da” significa qualcosa, crea previsioni e desideri, e grazie al grande successo con cui è stato accolto il titolo precedente ha la possibilità di giocare con la sua immagine e le aspettative che essa alimenta.
Quello degli animali, del resto, è un trittico che riflette sulla spettatorialità, sull’essere testimoni – attraverso lo sguardo o, come in questo caso, l’udito – di un evento cardine, e sulle possibili declinazioni gnoseologiche relative agli statuti di verità e menzogna che da quella situazione possono derivare. I tre film esplorano queste variazioni: nel primo l’occhio assiste e sa, ma non comprende o, meglio, non si rende conto di aver già compreso; nel terzo, al contrario, la verità insita nella visione viene costruita, artefatta, in un processo di post-verità che convive con la cecità più completa, il non rendersi conto che la propria moglie è l’assassina. In mezzo, come altra declinazione del rapporto spettatore-inganno, c’è la conversazione udita in apertura dal cieco Arnò e nipotina, dietro la quale, però, non c’è alcuna verità nascosta che riscriva quanto creduto attraverso l’emersione di dettagli rivelatori. Chi si aspetta una risoluzione spiazzante resta deluso, perché su quella conversazione la pellicola torna poco o niente: lo scioglimento del caso è molto più convenzionale e non risiede in traumi del passato che ancora esercitano il loro potere sul presente, ma sulla profezia auto-avverante della corruzione genetica, della mostruosità intrinseca perché atemporale, astorica.
Insomma, da bravo film hitchcockiano con bicchieri di latte avvelenato, Il gatto a nove code gioca con le aspettative dello spettatore: offre una verità più immediata, in relazione alla quale quel che crediamo essere l’indizio germinale, che il film vorremmo decifrasse pezzo dopo pezzo, si rivela poco più di un MacGuffin. Un’espediente attraverso il quale Argento gioca con le aspettative che il pubblico si è fatto già di lui e del suo cinema, offrendo attraverso la dimensione della meta-rappresentazione l’apoteosi ultima dell’inganno cinematografico. Per quanto si dilati, ossessiva e onnipresente, anche la pupilla più spalancata a volte resta cieca. Forse perché non sa cosa guardare.
Note
1 Menarini Roy, Dal thriller all’horror. Tra modernità, postmodernità e manierismo, in Carluccio G., Manzoli G., Menarini R. (a cura di), L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento, Lindau, Torino 2003, pp. 30-31.
CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento, Luigi Cozzi, Dardano Sacchetti; sceneggiatura: Dario Argento; fotografia: Erico Menczer; scenografia: Carlo Leva; costumi: Carlo Leva; montaggio: Franco Fraticelli; musiche: Ennio Morricone; interpreti: James Franciscus (Carlo Giordani), Karl Malden (Franco Arnò), Catherine Spaak (Anna Terzi), Aldo Reggiani (dottor Casoni), Werner Pochath (Manuel), Tino Carraro (professor Fulvio Terzi), Pier Paolo Capponi (commissario Spimi), Horst Frank (dottor Braun), Rada Rassimov (Bianca Merusi), Tom Felleghy (dottor Esson), Cinzia De Carolis (Lori Arnò); produzione: Salvatore Argento per Seda Spettacoli, Terra Filmkunst e Labrador Film; origine: Italia, Francia, Germania Ovest, 1971; durata: 112’; home video: Blu-ray Arrow Video (import Gran Bretagna), dvd RaiCom; colonna sonora: GdM.