Dei sepolcri. Gli anni Duemila di Dario Argento

Sergio Sozzo
Dario Argento n. 15/2022

«Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri»
Ugo Foscolo

La ridefinizione formale dello sguardo di Dario Argento, negli ultimi vent’anni, non è solo figlia di una evidente ridefinizione produttiva, quanto di una ridefinizione estetica e culturale in atto nella società, di cui si fa allegoria innanzitutto visiva. «Anche i nostri antenati, tanto tempo fa, temevano l’eclissi», dice il padre alla bambina un po’ stranita dal fatto che sul laghetto dell’EUR stia facendo buio in pieno giorno. «Pensavano che la sparizione del sole fosse la fine del mondo», rincara la madre. Siamo nell’incipit di Occhiali neri (2022) ma, chissà perché, non ci sconvolge il fatto che sul quartiere, e su Roma tutta, stia per calare l’ennesima apocalisse. Per Dario Argento, Roma è davvero una città sempre in procinto di sprofondare all’inferno: «Gli spiriti vaganti sono ovunque, soprattutto qui a Roma» – si dice in La terza madre (2007) – «le vecchie case sono piene di fantasmi: pensaci bene, la città ha oltre 2.700 anni di età e sotto di noi ci sono cinque strati di cimiteri…».
I cimiteri, già. Ci vuole davvero poco, all’Argento dei nostri giorni, per trasformare gli androni dei palazzi e le viuzze del centro dell’urbe in portali che aprono dimensioni parallele (come il sottopassaggio da fiaba a due passi dal Gianicolo, da rifugio del Bianconiglio, con l’ingresso nascosto dai batuffoli di polline che si agitano nell’aria, dove si rintana il killer di Il cartaio [2004]). L’orrore non ha bisogno di particolari invenzioni visive, né di ritocchi importanti in post-produzione, per rivelarsi in tutta la sua inquietudine: è evidente in quella sequenza, appunto, del terzo capitolo delle Madri in cui la mentore della protagonista si limita a soffiare della cipria nel vuoto del suo appartamento, o ancora nel furgone bianco di Occhiali neri. La riduzione ai minimi termini dell’apparato argentiano, che tanto ha allontanato nel corso degli ultimi vent’anni i fan del cinema del regista, portandolo ossessivamente a giocarsi la carta spesso frustrante del “ritorno al thriller” (sin dall’approdo agli anni 2000 di Nonhosonno [2001]), mette al contrario in luce la capacità di questo sguardo di trasformare in visitazione ogni elemento del quotidiano, il livello apparentemente banale dell’esistente. Il furgone bianco di Occhiali neri non ha bisogno di alcun VFX per trasformarsi in una creatura mostruosa che dà la caccia alla protagonista Diana (!). La sua anima letale sorpassa la sua apparenza comune, tanto che la ragazza, rimasta cieca dopo un terribile incidente, percepisce la presenza del furgone per le vie di San Saba anche solo attraverso le parole della sua riabilitatrice. «Quello che vedi non esiste, quello che non vedi è la verità» era, d’altronde, già il mantra proprio di La terza madre: basta allontanarsi un attimo dal centro di Roma che la notte prende in un istante la deriva fantastica di una fuga infinita tra le astrazioni di un bosco magico, con i serpenti d’acqua, le caverne del custode, i cacciatori e le bestie feroci.
È così che Occhiali neri si riconnette al senso di fine imminente con cui il film si apre e con cui Argento sembra raccontare la Capitale d’Italia almeno sin dai tempi di Tenebre (1982), ancora ambientato tra le piazze post-umane dell’EUR. Se ripensiamo anche solo all’omicidio dell’agente letterario Bullmer, introdotto da una serie di scenette di ordinaria violenza metropolitana (risse, furibondi litigi di coppia, loschi figuri tra i passanti…), abbiamo già il seme di quella che diverrà la “seconda caduta di Roma” evocata ancora in La terza madre (già Tenebre era appunto infestato da senzatetto violenti, dobermann idrofobi a collare sciolto, commissariati soffocati dalle urla dei delinquenti…). Ma d’altra parte, già in Il cartaio la città non faceva sconti a nessuno: il personaggio di Silvio Muccino si perde tra i cunicoli, di notte, inseguendo la donna che con l’inganno fa sì che lui finisca trascinato in un Tevere che improvvisamente pare sterminato.
Il film del 2004 è spesso indicato come il titolo dell’inabissamento definitivo della qualità delle sortite di Argento. Eppure, ancora una volta, il regista annuncia la propria dichiarazione d’intenti sin dalle prime sequenze, con il primo piano strettissimo sulla protagonista che rifiuta le avances del pretendente di cui ascoltiamo solo la voce fuoricampo, senza che il film stacchi mai su di lui. Questa insistenza sul volto di Stefania Rocca racconta, da un lato, il carattere fermo del suo personaggio; dall’altro, la decisione dello sguardo di Argento di abbandonare l’attenzione alla costruzione eccedente del quadro per focalizzarsi su una ridefinizione del proprio linguaggio filmico nella direzione dei nuovi sche(r)mi di fruizione del contemporaneo. A conti fatti, le uniche menomazioni in scena, in Il cartaio, vengono compiute su un cadavere nel corso della vertiginosa autopsia che in sostanza apre il film (una tra le vette compositive del geniale d.o.p. Benoît Debie, che l’Argento attore ritroverà quasi vent’anni dopo in Vortex di Gaspar Noé [2021]). Per il resto, l’ossessivo dettaglio sulle facce trasfigurate dalla tortura delle diverse vittime del serial killer – rapite e seviziate in diretta, via webcam, durante le partite di videopoker online – intuisce e in un certo senso anticipa (in contemporanea con le prime sortite del cosiddetto torture porn statunitense) la frammentazione delle finestre e dei pop up attraverso cui, per tutti gli anni Duemila, vedremo veicolato l’orrore. Sia quello di finzione, sia tutte le fuoriuscite del reale immortalate nei flussi del deep web, dei siti proibiti, dei forum che rilanciano i video delle esecuzioni dei gruppi terroristici o delle gang malavitose.
È in questa occasione, dunque, che Argento conia la nuova dimensione dei propri incubi. Quella per cui la minaccia è al tempo presente, anzi è il presente stesso.
Il perturbante si nasconde subito sotto il velo del reale, abitando gli indizi del quotidiano. Come il suono dello sparo del cannone al Gianicolo, uno tra i simboli più celebri di Roma che si fa veicolo del plot twist che lo script tiene in scacco mostrandoci continuamente l’orologio del commissariato, da dove i protagonisti giocano la partita online con il killer.
In quel periodo Argento gira davvero tantissimo e, quindi, il rifiuto a cui va incontro Il cartaio è lenito dal successo pressoché universale dei due episodi per il contenitore statunitense Masters of Horror (il gioiello Istinto assassino [2005] e poi Istinto Animale [2006], per la seconda stagione, tripudio gore con protagonista la star dell’hard rock Meat Loaf) e dall’afflato citazionista di Ti piace Hitchcock? (2005), tv movie girato per la Rai. Sarano gli anni successivi a scoperchiare le obiettive difficoltà, per Argento, nel continuare a imbastire le proprie strutture con budget sempre più risicati, produzioni sempre più arrabattate (il caso più eclatante è Giallo [2009]), set sempre meno accurati. Eppure.
Eppure, La terza madre sprigiona ancora una ferocia vicina a quella di un esordiente nell’horror più oltranzista. È un film genuinamente punk, in grado di portare alle estreme conseguenze proprio la poetica dell’Argento degli anni Duemila, per cui la realtà in sé basta a sprofondare nell’incubo. E infatti, anche stavolta, come in Il cartaio e poi in Occhiali neri, i poteri magici della protagonista non hanno bisogno di effetti speciali per manifestarsi: la capacità di Sarah Mandy di sparire alla vista degli altri è risolta con un semplice gioco di montaggio. Come nella strepitosa sequenza nella libreria di Termini in cui la donna scompare letteralmente tra uno scaffale di libri e l’altro e, per un attimo, la sua soggettiva dall’altra parte di questa dimensione d’invisibilità la fa esondare nella stessa condizione di noi spettatori, al cospetto di una sorta di schermo di cui gli altri personaggi non si accorgono (quasi un istante bergmaniano).
Ecco, proprio quella stazione Termini infestata di streghe moleste vestite come dark e goth queen, quel caos millenaristico di isteria e reazioni violente non è poi, in verità, così lontano dalla situazione effettiva che è possibile incontrare tra le strade e i luoghi più frequentati della capitale (interessante sarebbe un confronto tra queste sequenze e certi video su YouTube del canale Scuola di Botte). Tanto che, per ritrovare l’eleganza di un piano-sequenza che faccia da marchio di fabbrica in accordo con i due altissimi capitoli precedenti Suspiria (1977) e Inferno (1980), Argento deve per forza di cose allontanarsi dal panico che si respira sotto «l’oscurità che sta avvolgendo Roma», per inabissarsi in una catacomba dove coerentemente recuperare lo stile del passato. Ma dura poco anche questo, perché poi il sabba finale tiene insieme Hieronymus Bosch con il Roger Corman più ridanciano e la risata conclusiva di Sarah oltraggia definitivamente la mitologia delle Tre Madri con una forza iconoclasta inaspettata e irresponsabile. Lo strappo è oramai compiuto, non tanto alla veste infernale di Mater Lacrimarum, quanto alla propria stessa legacy. E dire che di lì a poco il culto argentiano sarebbe stato rivisitato dagli omaggi più o meno espliciti di The Neon Demon di Nicolas Winding Refn (2016) e del Suspiria di Luca Guadagnino (2018), per non parlare della messa a nudo di famiglia nel bellissimo Incompresa di Asia Argento (2014), o di celebrazioni come la mostra The Exhibit al Museo del Cinema di Torino, le sceneggiature per alcuni albi a fumetti di Dylan Dog e la pubblicazione dell’autobiografia letteraria Paura.
«Non voglio abbandonare il mio passato» sbotta a un certo punto il personaggio interpretato da Dario Argento in Vortex, sorprendente critofilm girato in un perenne split screen asincrono a seguire l’impossibilità oramai irrevocabile di una coppia di anziani di potersi anche solo incrociare per un attimo all’interno della stessa abitazione – dove hanno sempre convissuto – o della stessa giornata. I personaggi di Argento e Françoise Lebrun vivono ormai due spazio-tempi che scivolano l’uno accanto all’altro, lei persa nella nebbia della sua malattia mentale, lui a lavorare a un saggio su “cinema e sogno” (spesso, nella sua porzione di schermo, lo vediamo appisolarsi sulla poltrona – e se quello che accade nel frattempo alla donna sull’altro lato fosse solo una materializzazione delle immagini oniriche dell’uomo, preoccupato per la sorte dell’amata?). Noé utilizza un apparato formale vicino alla costruzione del cosiddetto sphereplay della VR, mediante angolazioni diverse della stessa inquadratura, connettendosi così a certi esperimenti che vedono proprio nella realtà virtuale uno strumento per visualizzare una volta per tutte cosa ci succede nel cervello quando si ammala.
Ma per ciò che interessa in questa sede, Vortex – che è anche una profonda riflessione sulla questione delle droghe – contiene una serie di riferimenti alla figura di Argento, che non ha mai nascosto i suoi problemi passati di dipendenza: la lunga sequenza in cui il suo personaggio ha un attacco di cuore e si trascina per i corridoi e le stanze dell’abitazione, con una luce rossa che si spande per le camere buie, è un chiaro omaggio ad alcune grandi peregrinazioni allucinatorie in punto di morte dei film dell’autore. D’altronde, nella visione distorta della moglie che non è più in grado di riconoscerlo, l’uomo è una sorta di demone, di ombra piombata nella casa che «la segue dappertutto». E soprattutto, in un paio di dialoghi torna l’ossessione tutta argentiana per i pericoli della metropoli. Siamo a nord-est di Parigi e non al centro di Roma ma comunque, per il nostro, la città è il vero inferno: «Pensavo ti fossi persa, attaccata da un delinquente, uno spacciatore!», urla alla moglie che era uscita di casa all’improvviso. «È una città pericolosa. il mondo è pieno di matti e di persone orribili!». E ci sembra davvero di sentire la descrizione delle vie romane di Tenebre o La terza madre, quelle da cui è impossibile fuggire pur allontanandosi in campagna come in Occhiali neri. «Il male si muove per la città, poi sceglie dove colpire», dirà sempre il protagonista di Vortex al figlio, e pare proprio una di quelle frasi con cui i vecchi ipsissimus saggi dei film di Argento mettono in guardia le giovani protagoniste.
Dicevamo più sopra dell’avanguardistica sequenza dell’autopsia di Il cartaio: ecco, il programma radiofonico che ascoltano i due protagonisti di Vortex al loro risveglio a inizio film sembra un riferimento esplicito a quel frammento che segna, come detto, un passaggio importante nel cinema di Argento. La discettazione degli esperti in radio sulla sepoltura e sulle convenzioni sociali che riguardano i cadaveri è per noi un rimando troppo forte proprio alla sequenza con la donna in rigor mortis da dissezionare nel film del 2004. «A tutti quelli il cui cervello si decomporrà prima del proprio cuore», si legge nella didascalia all’inizio del film di Noé, e riecheggia l’insistenza verso le esequie in questi titoli di Argento anni Duemila: dalla bara riesumata in La terza madre al mito del vampiro, del non-morto, affrontato per Dracula (2012). «Sol chi non lascia eredità d’affetti/ Poca gioia ha dell’urna; e se pur mira/ Dopo l’esequie, errar vede il suo spirto», dice Ugo Foscolo in Dei Sepolcri: e l’ultimo cinema di Argento è esattamente quello di uno spirito errante che ha paura di essere sepolto vivo (in Vortex, Poe è uno dei riferimenti ritornanti) e allo stesso tempo continua a demolire ancora e ancora il mausoleo che gli è stato eretto in vita, come tomba prematura.

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