Pieno de complessi, pieno de paure. Carlo Verdone, figlio della commedia all’italiana

Lorenzo Ciofani
Carlo Verdone n. 12/2019
Pieno de complessi, pieno de paure. Carlo Verdone, figlio della commedia all’italiana

In origine, Un sacco bello (1980) avrebbe dovuto dirigerlo un regista più strutturato del debuttante Carlo Verdone. Sergio Leone, il produttore, aveva pensato tra gli altri a Steno, già sessantenne nonché padre di due autori, Carlo ed Enrico Vanzina, più o meno coetanei di Verdone. Sulla carta una buona intuizione, quella del veterano regista di Un giorno in pretura (1953) e Un americano a Roma (1954). Dentro Un sacco bello – e poi in Troppo forte (1986) – c’è un personaggio che deve qualcosa al protagonista di quelle due commedie: difficile non rintracciare in Enzo, che si atteggia a epigono di John Travolta, il ricordo di Nando Mericoni (Alberto Sordi), il ragazzone romano che sognava l’America attraverso l’immagine filtrata dal cinema. Entrambi si sentono fuori luogo, vorrebbero scappare ma restano fermi. La differenza è nel contesto: se Nando, figlio del Dopoguerra, può sognare e, perché no, anche fallire, una volta scoperto che la sua idea dell’America è solo un inganno, Enzo è cresciuto nei cupi anni Settanta, ha mancato gli appuntamenti della generazione appena precedente con la possibilità di emancipazione e rivoluzione. È inevitabile che debba essere Verdone a dirigere se stesso, autonomo ma cosciente della tradizione nella quale si sta inserendo.
Il progetto del viaggio in Polonia ripropone idealmente quello di altri personaggi di Sordi negli anni Sessanta. Come in Il diavolo di Gian Luigi Polidoro (1963) il rampante Amedeo coglie l’occasione della trasferta a Stoccolma per conoscere le svedesi, qui l’annoiato Enzo vuole andare a Cracovia per conquistare le polacche. Gli esiti sono emblematici: il primo capisce di non essere mai stato felice, il secondo forse in Polonia non ci arriverà mai. Si potrebbe ricorrere alla distinzione, teorizzata da Christian De Sica, tra i comici “scopanti” e “non scopanti”. Al pari di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, Sordi fa parte della prima categoria: ha quasi sempre una moglie e un’amante, un harem nel suo Scusi, lei è favorevole o contrario? (1966). Verdone, nei panni di Enzo, lo annoveriamo tra i secondi: dopotutto, perché finire a Cracovia per portarsi a letto una ragazza? Perché quando, verso il finale, la malinconia invade la stanza in penombra mentre telefona a chiunque per rimpiazzare l’amico malato, bastano una rubrica con pochi numeri e la calura estiva per capire quanto la solitudine sia la sua unica compagna.
Gli altri due episodi di Un sacco bello sono molto indicativi per rilevare le nuove dinamiche relazionali tra uomo e donna. L’arrivo inatteso del fidanzato geloso interrompe sul nascere l’amplesso tra l’imbranato Leo e una turista spagnola: incredibile lo sguardo di Verdone che non comprende il loro idioma e osserva la coppia a cena sul terrazzo. E l’hippie Ruggero, che professa l’amore libero, ha una fidanzata dominante con cui non si scambia affettuosità. Benché i suoi film siano storie d’amore (su tutti Maledetto il giorno che t’ho incontrato [1992]) dove non mancano scappatelle extraconiugali (Compagni di scuola [1988], L’amore è eterno finché dura [2004]), Verdone non sarà mai uno “scopante”: piuttosto un romantico, un malinconico. E spesso nei suoi film l’amore è una dichiarazione d’impotenza determinata dalla perdita delle sicurezze. Sia nei primi due titoli (l’altro è Bianco, rosso e Verdone [1981]) che nelle successive commedie sofisticate (Borotalco [1982], Acqua e sapone [1983]), inventa un personaggio che la commedia all’italiana prima di lui non ha mai eletto a vero protagonista, il cui possibile antenato è il timido Nino Manfredi del feroce Una giornata decisiva (in I complessi di Dino Risi [1965]). «Pieno de complessi, pieno de paure», rimbrotta Enzo il lagnoso compagno di viaggio. Ma di chi sta parlando, se non di se stesso?
Verdone non incarna i coetanei dell’Estate Romana a Castel Porziano, poi evocati in Sotto una buona stella (2014). Quelli, altrettanto annaspanti, spettano a Nanni Moretti. No, Verdone racconta gli sfigati: in primis Leo, destinato a restare ingabbiato in un piccolo mondo da neorealismo rosa incattivito. Con altri nomi, tornerà tre volte: ma che si chiami Mimmo (Bianco, rosso e Verdone), Giovanni (Viaggi di nozze [1995]) o ancora Leo (Grande, grosso e… Verdone [2008]) è sempre succube dei legami familiari, goffo, ingenuo, docilissimo. Salvo esplodere in rapidi sfoghi per strada, come nell’assolato finale di Un sacco bello, un altro solitario ferragosto dopo Il sorpasso di Risi (1962): forse Leo avrebbe bisogno di un Bruno Cortona che lo porti sulla cattiva strada. In Borotalco, Sergio ne trova un surrogato in Manuel Fantoni, ruolo non a caso immaginato per Gassman. Ma forse bisogna aspettare l’epilogo di Benedetta follia (2018), dove tra le luci romantiche della Roma estiva riscopre una riconciliazione con la città da cui era scappato in La grande bellezza di Paolo Sorrentino (2013), l’ultima grande commedia all’italiana possibile.
Poiché da una parte, moltiplicandosi, si accosta agli exploit virtuosistici dei “mostri” (Il mattatore di Risi [1960], Il disco volante di Tinto Brass [1964]) e dall’altra si misura con la critica dei costumi, Verdone è a pieno titolo seguace della commedia all’italiana. I suoi film degli anni Novanta in particolare, specialmente Perdiamoci di vista (1994) e C’era un cinese in coma (2000), davvero due tra gli esemplari più audaci, pungenti satire della volgarità nel solco di Risi e Mario Monicelli. Ma la discendenza si vede anche nel disegno dei personaggi di contorno, sospesi tra realismo e grottesco, dai paramedici di Un sacco bello ai becchini di Grande, grosso e… Verdone, e soprattutto nella convinzione del potere della sceneggiatura. Leone gli aveva messo accanto Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, maestri della commedia all’italiana, e Verdone se li tiene stretti fino alla loro morte. Nei primi due film, lui ci mette i personaggi e il mondo che si portano dentro, ma è l’ingegneria della coppia a garantire organicità e ritmo, ad approfondire la funzione umoristica e sottolineare quel rapporto con la realtà sociale che Verdone riesce a mantenere anche dopo il passaggio dai Cecchi Gori al più “interventista” Aurelio De Laurentiis. Il boato che riecheggia nel finale notturno di Un sacco bello è il segno di una stagione: le bombe eversive, gli amici ammazzati nei cortei o caduti nella droga. È un legame fortissimo con la commedia all’italiana, quasi un ricordo del pre-finale di In nome del popolo italiano di Risi (1971), ma non solo.
Nella seconda metà degli anni Settanta, la percezione della fine di un sistema convoglia la commedia all’italiana verso le trenodie: Amici miei (1975) e Un borghese piccolo piccolo di Monicelli (1977), I nuovi mostri di Monicelli, Risi ed Ettore Scola (1977), L’ingorgo di Luigi Comencini (1979), La terrazza di Scola (1980). Si può continuare a ridere in un clima di piombo? Eppure c’è un elemento che in questo quadro angosciante emerge con forza: la dialettica tra padri e figli. Tant’è che potremmo leggere lo scontro tra Ruggero e il padre «comunista… così!» Mario Brega come una parafrasi ipotetica di quello tra Gassman, già partigiano ora affarista, e il figlio terrorista in Caro papà di Risi (1979), uscito qualche mese prima di Un sacco bello.
Nella stagione di gloria della commedia all’italiana, i protagonisti quarantenni si sono creati nel dopoguerra e hanno figli piccoli. Il grande tema del conflitto generazionale è appannaggio dei giovani che esplodono nella temperie sessantottina, su tutti Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci. Ormai ultracinquantenni, in un momento storico decisivo, i “colonnelli” possono (sono costretti a?) misurarsi con problematici ruoli paterni: Sordi nel Borghese, Gassman in Caro papà, Manfredi cardinale con figlio illegittimo nell’allegorico In nome del Papa re di Luigi Magni (1977), Tognazzi immerso nell’incomunicabilità sia in Primo amore di Risi (1978) sia in La tragedia di un uomo ridicolo di Bertolucci (1981). Avendo cresciuto i figli negli anni Sessanta, si ritrovano ora in casa giovani che non capiscono. Veri e propri corpi infiammabili. Il cortocircuito più clamoroso è quello della serie La famiglia Benvenuti di Alfredo Giannetti (1968-1969), in cui il piccolo Andrea è interpretato dal futuro terrorista nero Giusva Fioravanti.
Con Verdone, la commedia italiana parla per la prima volta di figli e ai figli. E a parlare sono loro. All’inizio è addirittura il nipote di una nonna che incarna tutta una città, la sora Lella (Bianco, rosso e Verdone e Acqua e sapone). Poi per molti anni ha padri ingombranti (i luttuosi Al lupo al lupo [1992] e Io, loro e Lara [2010], Viaggi di nozze, Ma che colpa abbiamo noi [2003]), suoceri (Borotalco; Compagni di scuola; Stasera a casa di Alice [1990]), zii come surrogati di genitori (I due carabinieri [1984]). La prima svolta è l’autunnale Io e mia sorella (1987), tra Comencini e Antonio Pietrangeli, che comincia con la morte della madre e finisce con il bambino che dice per la prima volta «Papà». Dopo Il bambino e il poliziotto (1989), approda ancora a una paternità anomala nel cruciale Il mio miglior nemico (2006), dove il confronto con la nuova leva Silvio Muccino lo costringe a portare il suo personaggio sugli orizzonti già sondati alla mezz’età dai colonnelli, incaricandosi come autore di ammonire attraverso una prospettiva ironica e indurre la sua generazione a vergognarsi dell’incapacità di porsi quale guida morale di quella successiva.
Di questo ruolo carismatico Moretti è da par suo fortemente consapevole e, giacché sia lui che Verdone contano su devoti pubblici che si riconoscono nei loro pezzi di mondo, quello tra i due ci sembra il confronto più interessante, che ha peraltro un trait d’union nell’indicativo utilizzo di Fabio Traversa, la faccia più nevrotica di un’intera generazione. Tipici figli della piccolo-borghesia romana affermatasi durante il miracolo economico, interpreti del riflusso, mettono in scena le mediazioni di loro stessi, i tic e le nevrosi del quotidiano, non si fissano su fenomeni effimeri e si proiettano su un più lungo raggio, combinando l’umorismo con il dramma. Soprattutto, intercettando umori alla Woody Allen, parlano dello spaesamento dei maschi nelle relazioni sentimentali. Tema piuttosto estraneo alla commedia all’italiana e che li accomuna al coevo Massimo Troisi, mentre Sordi si arrocca nel retrivo Io e Caterina (1980). Le loro donne sono, infatti, volitive, autonome, sfuggenti e procurano ai maschi crisi che sono il motore della storia.
Tuttavia, Moretti e Verdone non rompono con la commedia all’italiana: la ripensano, volenti o meno. In un’epocale puntata di Match, nel 1977, Moretti, appena esploso con Io sono un autarchico (1976), dichiara di volersi distaccare dalle ambiguità del genere, ma è il perfido Monicelli a stanarlo: «Cosa credi, che il tuo film non sia una commedia all’italiana?». Se Moretti è l’erede ribelle e indisciplinato di una tradizione che non riconosce, Verdone, invece, non ha alcun complesso con un passato di cui si sente prosecutore e innovatore. In viaggio con papà di Sordi (1982) è l’occasione per affiancare il simbolo preso di mira da Moretti nella famosa invettiva di Ecce bombo (1978). Sebbene risulti un’abulica commedia percorsa dalla tipica vena reazionaria dei film diretti da Sordi, è proprio qui che avviene il riconoscimento ufficiale: il nostro divo dal privato più impenetrabile, senza figli, lo elegge erede nell’unico luogo dove si sente a suo agio (il grande schermo).
Cos’hanno in comune? L’appartenenza alla Roma piccolo-borghese, rione Trastevere, zona racconti urbani di Sergio Amidei; la comicità che nasce dall’osservazione della gente; la vocazione alla sconfitta. È un equivoco sostenere che Sordi incarni dei vincenti, perché il Sordi più autentico si misura con i frustrati, i vanagloriosi, i disperati: Il vedovo (1959) e Una vita difficile di Risi (1961), Il boom di Vittorio De Sica (1963). Spesso piantato dalla partner (Io e mia sorella, Sono pazzo di Iris Blond [1996], Posti in piedi in paradiso [2012]), Verdone resta un loser. Si vede bene nei suoi desolanti coatti: Ivano in Viaggi di nozze, Armando in Gallo cedrone (1998), Moreno in Grande, grosso e… Verdone. “Grande freddo” alla luce oscura di una delle commedie all’italiana più segrete, La rimpatriata di Damiano Damiani (1963), Compagni di scuola è in questo senso il miglior catalogo del fallimento: una raggelante seduta spiritica, attraversata da molte amare suggestioni del genere – l’umiliazione di Tognazzi in Io la conoscevo bene di Pietrangeli (1965) rielaborata in quella del figlio d’arte De Sica – e abitata da una suprema galleria di caratteristi (Angelo Bernabucci, Luigi Petrucci, Isa Gallinelli…).
Il rispetto con cui Verdone tratteggia anche i più abietti non-protagonisti risulta evidente allo stesso Sordi, che si propone per il macchiettone dell’avvocato mitomane in Troppo forte. Lo interpreta sopra le righe con l’accento di Ollio, soffiandolo al prescelto Leopoldo Trieste. Caratterista infallibile, figura tra le più stralunate del cinema italiano, regista di due film sommersi, Trieste è il marito petulante e maniacale in Lo sceicco bianco di Federico Fellini (1952) che sta all’origine di Furio in Bianco, rosso e Verdone. E in un impossibile casting eighties di I vitelloni (1953), più che nell’infantile e cinico personaggio di Sordi, Verdone sarebbe stato perfetto nel ruolo del timido e ingenuo intellettuale Leopoldo, ispirato al vero Trieste. L’ideale affinità emerge finalmente in La grande bellezza: Romano è una trasfigurazione di Leopoldo, un fallito in città. Chiaro, Sordi è la facile chiave di lettura, utile e comoda, ma lo spazio in cui si muove questo autore-attore è molto più ricco.

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