La tregua di Natale

Marco Cimmino
4-4-2 – Calciatori, tifosi, uomini n. 14/2019
La tregua di Natale

Nonostante la sua relativamente recente creazione, il football nel 1914 era uno sport estremamente popolare in Europa. Questo, benché fosse nato come una pratica sportiva decisamente elitaria, all’interno del ristretto e selezionato ambiente dei college britannici: fu proprio un accordo tra studenti universitari, le cosiddette Cambridge football rules, del 1848, a segnare la nascita del calcio moderno. Nato, dunque, nel felpato mondo del fairplay, dei giovani rampolli del gentry vittoriano, si trasformò molto rapidamente in uno sport per tutti, praticato e seguito da ogni classe sociale in tutto il continente: questo per le sue caratteristiche intrinseche, come la facilità nel trovare un campo adatto o la semplicità dell’attrezzatura necessaria alla sua pratica.

Dal canto suo, lo sport, in generale, altro non è che la trasformazione – e, in qualche misura, la metafora – degli antichi giochi di guerra: tornei e battute di caccia furono una sorta d’imitazione della guerra, il cui scopo era mantenere allenati e pronti i guerrieri in tempo di pace e, con l’incivilirsi dei costumi, le pratiche sportive presero il loro posto, in un’ottica assai meno aggressiva ma certamente dotata di una propria etica cavalleresca e virile. Tra i vari sport, quelli di squadra rappresentano l’imitazione più credibile di un combattimento e, non a caso, nel linguaggio sportivo le parole tattica e strategia ricorrono con una certa frequenza. Nel football, tutto ciò assume caratteri evidentissimi: la difesa, l’attacco e la manovra sono tutti concetti traslati direttamente dalla scienza militare.

Inevitabilmente, perciò, la Prima guerra mondiale, conflitto di massa che coinvolse, trasversalmente, un’intera generazione di giovani europei, intrecciò la propria storia con quella del football, a diversi livelli e con fenomeni davvero peculiari. Cominciamo col dire che una delle immagini più famose e utilizzate per rappresentare i paradossi della Grande Guerra è proprio quella di un gruppetto di soldati britannici e tedeschi, impegnati in un’accanita partita di football: tutti indossano pesanti pastrani o scomode divise di panno, alcuni hanno in testa il berretto d’ordinanza e i polpacci avvolti nelle fasce mollettiere, ma, ciò nonostante, saltano per colpire un riconoscibilissimo pallone, che sorvola le loro teste. È la celeberrima Christmas Truce, la tregua di Natale, che il 25 e 26 dicembre 1914 rappresentò un incredibile episodio di fraternizzazione in vari settori del fronte occidentale – in particolare, in quello di Ypres, dove si fronteggiavano i soldati del British Expeditionary Force e le truppe germaniche. Dopo qualche canto natalizio e l’esposizione di ornamenti tradizionali fuori dalle trincee, molti soldati s’incontrarono nella terra di nessuno, per scambiarsi sigarette e piccoli souvenir, e qui, la mattina di Natale, si svolsero alcune partite improvvisate, tra cui quella della notissima fotografia.

Non è questa la sede per parlare diffusamente della Christmas Truce, ma l’episodio serve certamente a rendere l’idea della capillare diffusione del football tra le truppe, tanto da diventare uno strumento, per così dire, di dialogo internazionale, perfino tra avversari. Tutti giocavano a calcio, ne conoscevano le regole e moltissimi lo praticavano, ai più vari livelli: nelle retrovie, si costruivano porte con travi di recupero e, in prima linea, ci si esercitava a centrare piccole porte ottenute incollando assi alla parete di terra della trincea. I marinai della Home Fleet britannica e quelli della Hochseeflotte germanica sconfiggevano la noia dei lunghi periodi di inattività giocando a football sul ponte delle grandi navi da battaglia, in attesa di uno scontro decisivo che mai sarebbe giunto.

Perfino le donne, durante il conflitto, praticarono tale sport, non senza un certo seguito di pubblico. Nelle fabbriche di munizioni britanniche si diffuse l’abitudine di fondare società calcistiche femminili, che diedero vita ad un vero e proprio campionato riservato alle operaie: le squadre femminili proseguirono con successo la loro attività, finché non furono escluse dai campionati inglesi, nel 1921.

Il football venne anche usato come strumento di propaganda e reclutamento, con continui ed efficaci richiami alle analogie tra la pratica agonistica e il combattimento. Si giocò su tutti i fronti, da parte di soldati di ogni grado, sia in incontri organizzati sia spontaneamente, su campi del tutto improvvisati. Per certi versi, si può perfino dire che, perlomeno per i britannici, la guerra avesse spesso le caratteristiche di una sanguinosa e gigantesca metafora agonistica: l’idea di giocare pulito o di segnare un punto affiora dal linguaggio militare dell’epoca, a dimostrazione di un retroterra culturale in cui lo sport svolgeva un ruolo determinante. Numerose sono le testimonianze diaristiche in cui un ufficiale o un sottufficiale, per indicare ai soldati di uscire dalla trincea all’attacco, scagliava un pallone da football over the top: il più celebre di questi episodi fa riferimento alla prima battaglia della Somme, il 1 luglio 1916, quando il capitano Nevill, dell’East Surrey, lanciò i suoi uomini all’attacco calciando un pallone verso le linee tedesche. Questo, probabilmente, oltre a stimolare lo spirito combattivo degli uomini, poteva servire a stemperare la tensione nel momento drammatico dell’uscita dalla trincea, specialmente per i soldati più giovani e inesperti.

Naturalmente, però, almeno a livello ufficiale, il football risentì di quella enorme crisi dei valori di Olimpia, rappresentata dallo scoppio di una guerra totale, che costrinse, nel 1914, il giovane CIO a dividersi e sospendere i giochi olimpici durante il conflitto: i campionati nazionali di calcio vennero interrotti praticamente ovunque, tranne che nell’Austria Felix (boemi, croati, polacchi e gli altri sudditi dell’impero, invece, smisero di giocare), ma sopravvissero moltissime competizioni a carattere regionale o locale e, di fatto, non si smise mai di inseguire un pallone, né in prima linea né nelle rispettive Madrepatrie.

Perfino in molti campi di concentramento che ospitavano i prigionieri di guerra si praticava attivamente il football, sia per mantenersi in forma sia per far passare il tempo: tra i generi di conforto inviati ai prigionieri dalla Madrepatria vi furono anche palloni, a dimostrazione dell’importanza attribuita a tale attività. Questo, va detto, riguardò molto meno i prigionieri italiani che, soprattutto dopo Caporetto, ricevettero dalla Madrepatria molte meno attenzioni rispetto ai loro omologhi di altre nazionalità in guerra.

La diffusione del football era tale che, ben presto, i vari governi videro nella sua pratica una sorta di viatico patriottico al combattimento: una specie di guerra incruenta che poteva preparare a quella vera. In Gran Bretagna, tra il dicembre 1914 e il giugno 1915, si formarono addirittura due Football battalions: il 17° e il 23° Middlesex, in cui militava un cospicuo gruppo di giocatori professionisti. Si trattava di due Pals battalions, ossia di reparti a reclutamento volontario, formati da vicini di casa, concittadini o, più genericamente, amici, che si arruolavano con la garanzia di restare uniti nel medesimo reparto nel corso della guerra. In questo caso, come si vede, il legame nasceva dalla comune attività sportiva, a riprova dell’importanza assunta dal football nei legami sociali. Tutto ciò, va detto, nacque da un’abile propaganda del Ministero della guerra inglese, il quale, dopo aver sospeso il campionato, temendo che il football distraesse gli spiriti bellicosi dei giovani, fece stampare dei manifesti in cui compariva un estratto della «Frankfurter Zeitung» che accusava i britannici di preferire giocare a football in Patria che rischiare la vita al fronte. Il manifesto recitava: «Sbugiardali! Gioca il gioco più grande sul campo dell’onore!».

Come si vede, molteplici furono le sfumature del rapporto tra football e ostilità: tutto, però, concorre a dimostrare come tale gioco fosse profondamente radicato nell’immaginario collettivo dei contendenti. Naturalmente, a questo vasto coinvolgimento corrispose anche un tributo, in termini di caduti, tra i praticanti del football agonistico: la squadra italiana che diede alla guerra il maggior numero di calciatori fu il Milan, in cui militava anche il primo giocatore perito in combattimento, il giovanissimo sottotenente della brigata Marche Erminio Brevedan, caduto nel luglio del 1915 sul Monte Piana. In tutto, furono dodici i milanisti caduti: senza contare il vicepresidente della società, Porro Lambertenghi, e uno dei suoi fondatori, Glauco Nulli, aspirante del 59° fanteria, caduto al Colbricon e decorato di Medaglia d’oro al valor militare.

Un eroe inglese militava nel Genoa, di cui era stato addirittura uno dei fondatori: il luogotenente Spensley, caduto nel 1915. Sempre del Genoa era l’ingegner Ferraris, ucciso da una cannonata nell’agosto 1915: la sua Medaglia d’argento è tuttora sepolta sotto la gradinata nord dello stadio di Marassi che porta il suo nome. Oltre agli altri quattro genoani caduti in guerra, vale la pena ricordare il tenente dirigibilista Giuseppe Castruccio, anche lui giocatore della squadra ligure, che ottenne la Medaglia d’oro al valor militare da vivo, per una straordinaria impresa aviatoria.

Anche altre squadre subirono una grave falcidie, durante la Grande Guerra: l’Inter, l’Udinese e il Verona ebbero decine di caduti. La Juventus perse il suo ex presidente Canfari, caduto nella terza battaglia dell’Isonzo. Per ultimo, non va dimenticato il giovanissimo eroe del Monte Nero, il sottotenente Picco, dell’Exilles, fondatore e primo marcatore dello Spezia calcio. Insomma, il mondo del football, forse per lo spirito che animava i suoi praticanti, forse per la preparazione fisica degli atleti, fu una vera fucina di buoni soldati – il che, purtroppo, significò altresì un numero considerevole di perdite.

Anche in Gran Bretagna molti calciatori combatterono valorosamente: tra loro segnaliamo Donald Bell, caporale dei Green Howards, caduto sulla Somme nel luglio 1916, unico calciatore decorato con la Victoria Cross, la massima onorificenza britannica. La Germania non fu da meno: numerosi giocatori di buon livello persero la vita nel conflitto, da Hermann Bosch a Georg Krogmann, da Karl Hansenn a Gustav Unfried. Il football e la morte non hanno confini, a quanto pare.

Va da sé che, a guerra terminata, il calcio abbia svolto un ruolo di distensione e riappacificazione tra i popoli: non si trattò solo della vecchia dottrina del panem et circenses con cui imbambolare il popolo, ma, piuttosto, di un desiderio comune di pace e normalità, di cui il ripristino delle sfide calcistiche e la ripresa delle Olimpiadi, nel 1920, furono tasselli importanti. Insomma, pur rappresentando un aspetto certamente marginale rispetto alla complessità e alla vastità del fenomeno storico della Prima guerra mondiale, possiamo senza dubbio asserire che il football abbia giocato un ruolo di un qualche interesse nella variegata fenomenologia del conflitto così come, anche oggi, esso riveste una notevole importanza in tutto il nostro pianeta, non solo come fenomeno sportivo, ma anche come elemento economico, sociale e perfino politico. Tanto che talvolta i suoi aspetti segnatamente sportivi paiono, a chi scrive, decisamente secondari rispetto a quelli spettacolari o finanziari. Anche oggi, probabilmente, si combatte una guerra, con armi differenti e belligeranti diversi: e non è detto che anche in questo conflitto il football non svolga un suo ruolo.

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