I fantasmi di Tilcara

Giorgio Ballario
4-4-2 – Calciatori, tifosi, uomini n. 14/2019
I fantasmi di Tilcara

Sono stato con i fantasmi di Tilcara, sissignore. Ma perché lo vuole sapere? Ah, lei è un giornalista. Italiano. Non mi dica che laggiù vi interessano queste vecchie storie? Adesso avete Cristiano Ronaldo, a chi può importare di una stramba vicenda di quarantacinque anni fa? Comunque, se ci tiene tanto gliela racconto, si figuri se mi tiro indietro. Sono bei ricordi da cavar fuori dalla memoria, a maggior ragione adesso che è passato tanto tempo e sono soltanto un povero vecchio con un piede nella fossa. All’epoca era un po’ meno piacevole: è stata un’esperienza allucinante, faticosa e logorante, persino per me che ero solo il massaggiatore della squadra. Però, che avventura! Be’, per farla breve, siamo partiti a metà agosto in aereo da Buenos Aires e siamo atterrati a San Salvador de Jujuy, la provincia più a nord dell’Argentina, sulle Ande, quasi al confine con la Bolivia. E di lì in autobus abbiamo proseguito fino a Tilcara, a 2600 metri sul livello del mare. Come sarebbe a dire, perché? Scusi, ma allora non sa proprio niente di questa storia. Come dice? Vuole che gliela racconti dal principio, passo passo? E va bene, se ha tempo da perdere… s’immagini io, che sono in pensione da anni.

Allora… intanto deve sapere che stiamo parlando del 1973, che per noi era un anno cruciale, e non soltanto perché si giocava la fase eliminatoria dei campionati Mondiali, che si sarebbero disputati l’anno successivo in Germania Ovest. No, per noi argentini c’era in ballo un appuntamento ancora più importante: le elezioni presidenziali e il ritorno del Generale. Sì, è chiaro che alludo al generale Perón… Se parlo del Generale, con la G maiuscola, mi riferisco a lui, mica a quei bellimbusti in uniforme da operetta che c’erano prima e che purtroppo sono venuti dopo, cosa crede? Quelli erano gorilas, come noi chiamiamo gli antiperonisti che da sempre, guarda caso, assecondano gli interessi di certi soggetti antinazionali… Ma non mi faccia parlare di politica, per favore. È meglio tornare al fútbol.

Dov’eravamo rimasti? Ah, sì… siamo saliti fino a Tilcara, la località scelta dalla federazione come sede della lunga sessione di allenamento in vista della partita più importante della fase eliminatoria. Tre anni prima, ai Mondiali del Messico, eravamo rimasti a casa, per cui stavolta non si poteva fallire. Precedo la sua prevedibile domanda: perché siamo andati ad allenarci in quel buco di culo sperduto sulle Ande? È presto detto: la gara decisiva si sarebbe disputata a La Paz, contro la Bolivia, a 3500 metri di altitudine. Non so se lei abbia mai provato a fare una corsetta a quell’altura, con le gambe che tremano, il cuore che impazzisce e i polmoni che sembrano scoppiare nel petto per via del soroche, il mal di montagna. Ed evito persino di domandarle se per caso lassù ci abbia mai giocato una partita di calcio, novanta minuti di battaglia contro degli indios nanerottoli e dal fisico tozzo ma dai polmoni d’acciaio, abituati da secoli a scarpinare su quelle vette ruminando foglie di coca per darsi energia. Bene, se l’avesse fatto non mi chiederebbe perché la federazione mandò quei poveri quindici ragazzi a farsi il culo per più di un mese e mezzo tra pietraie, condor e lama.

L’idea era stata del direttore tecnico della Selecciòn, Omar Sivori, quel bassetto talentuoso che giocò anche in Italia, nella Juventus e nel Napoli. Ma lui mica ci venne a Tilcara, nossignore. Se ne restò bello comodo a Buenos Aires, perché doveva badare al resto della Nazionale, che nel frattempo stava preparando un’altra partita contro il Paraguay, una settimana prima della sfida a La Paz. In pratica sdoppiò la Selección: i più esperti e affermati li scelse per giocare ad Asunción mentre i giovani emergenti li spedì a prepararsi alla gara in altura agli ordini del suo vice, quel galantuomo di Miguel Ignomiriello, un tipo troppo buono che eseguiva gli ordini e non protestava mai.

Quindi partimmo per Jujuy e da lì, con un pullman scalcagnato, per Tilcara. Un giornalista ci chiamò “la squadra fantasma” perché lassù non ci seguì nessuno e a quei tempi non c’erano telefonini, computer e robe così. Eravamo isolati in quel luogo dimenticato da Dio, alloggiavamo in una specie di locanda fetida e di notte faceva un freddo fottuto. Pensi che Mario Kempes, proprio quello che sarebbe diventato campione del mondo cinque anni più tardi, nella sua autobiografia ribattezzò quel postaccio “Hotel de Mala Muerte”. Di giorno, sotto il sole abbacinante e un cielo color cobalto, i ragazzi sudavano correndo su e giù per le montagne e palleggiando fra le rovine pre-incaiche; di notte, invece, nella topaia si gelava, la temperatura scendeva vicino allo zero. Girava poca grana a quei tempi nella Selección, altro che sponsor e televisioni, si mangiava poco e male: Kempes dimagrì di otto chili in poco più di un mese. Un paio di ragazzi non ce la fecero e tornarono a casa, rinunciando alla convocazione.

Ma Ignomiriello e gli altri tennero duro, fra una bestemmia e l’altra. La “squadra fantasma” prendeva forma: in porta c’era Ubaldo Fillol, del River (anche lui si consacrerà campione del mondo nel 1978). Poi c’era Rubén el Hueso Glaria, difensore del San Lorenzo e irriducibile militante peronista, che pensava più alle elezioni che alla partita in Bolivia. Anni dopo sarebbe diventato sindaco per il Partito Giustizialista in un comune della periferia di Buenos Aires, s’immagini. E poi Troncoso del Velez, Galván e Bochini dell’Independiente, Trobbiani del Boca, Poy del Rosario Central. Tutta gente intorno ai vent’anni che avrebbe fatto una bella carriera, anche se molti di loro vennero sfruttati dalla Nazionale per quella partita e poi messi in disparte.

Lassù ci arrivavano poche notizie di quel che accadeva nel Paese, e non parlo solo di calcio. I ragazzi erano preoccupati e anche noi dello staff tecnico non ci sentivamo per nulla tranquilli, così lontani dalle nostre famiglie. Un paio di mesi prima c’era stato il massacro di Ezeiza e già si respirava quell’atmosfera da guerra civile che per un paio d’anni, dopo la morte di Perón, avrebbe insanguinato la nostra Argentina, spianando la strada ai golpisti della giunta militare. Non sa cos’è il massacro di Ezeiza? Ma lei è un giornalista, mica un imbianchino! Dovrebbe conoscere un po’ di storia, no? Come dice? Nell’Italia del nuovo millennio di ciò che successe in Argentina quarant’anni fa non si sa nulla? Be’, capisco che non sia un argomento granché interessante, ma… Ah, sì? Non si sa quasi nulla neppure di ciò che avvenne nella stessa Italia, in quel periodo degli anni Settanta? Vabbè, allora non aggiungo altro, prendo nota che il mondo è cambiato, e non soltanto qui da noi. Penso in peggio, ma io non faccio testo: sono soltanto un vecchio massaggiatore di calcio che ormai ha più ricordi che anni da vivere.

Comunque, se vuole saperlo, a Ezeiza successe un finimondo perché doveva atterrare l’aereo che riportava in patria il Generale, dopo diciott’anni di esilio in Spagna. Nei pressi dell’aeroporto si diede appuntamento una moltitudine di due milioni di persone per festeggiare il ritorno di Perón, ma qualcosa andò storto. Tutto andò storto. Le fazioni di sinistra e destra del movimento peronista rivendicarono il controllo della manifestazione di accoglienza: Montoneros e Fuerzas Armadas Revolucionarias da un lato, sindacati e gruppi di destra dall’altro. Un assaggio di quanto sarebbe successo dopo le elezioni, nella lotta per il controllo del potere. Dalle parole si passò ai fatti. Anzi, alle pistolettate. Risultato: tredici morti e più di trecento feriti. Un inferno. E l’aereo che riportava in patria il Generale dovette atterrare da un’altra parte. Si sarebbe dovuto intuire sin da quel giorno che sarebbe andata a finire male, ma pochi lo capirono.

A Tilcara si parlava anche di queste cose, non lo nascondo, ma l’argomento principale rimaneva la partita decisiva contro la Bolivia. La “squadra fantasma” si preparava quasi in segreto, senza le pressioni della stampa e dei tifosi, che ovviamente seguivano le gesta della Nazionale guidata da Sivori, prima impegnata in una tournée in Spagna e poi nell’altra gara delle eliminatorie con il Paraguay. Ignomiriello organizzò alcune partite amichevoli con l’obiettivo di racimolare un po’ di soldi, visto che da Buenos Aires la grana arrivava con il contagocce. Giocammo a Jujuy, in Cile, persino a Potosí, in Bolivia, dove il pubblico locale prese a sassate il nostro pullman, tanto per accendere il clima già incandescente in vista della sfida all’ultimo sangue di La Paz.

Alla fine arrivò il 23 settembre, il grande giorno. Non solo per la partita, ma soprattutto per le elezioni presidenziali fissate proprio per quella domenica, anche se in giro s’intuiva che sarebbe stato un plebiscito per il Generale. Allo stadio Hernando Siles di La Paz c’erano trentamila spettatori scatenati, undici giocatori in maglia verde ansiosi di farla pagare a quei presuntuosi argentini e soprattutto quasi 3600 metri che ci separavano dall’altezza del mare. In panchina si sedette Ignomiriello, ma gli ordini li dava Sivori dalla tribuna. E il Cabezón, com’era chiamato, impose alcuni dei giocatori della prima squadra, che pure non avevano fatto la preparazione in quota: il portiere Carnevali, il centrocampista e capitano Telch, la punta Ayala e l’esperto difensore Bargas. I “fantasmi” esclusi non la presero bene, soprattutto il portiere Fillol.

Però chi vince ha sempre ragione, caro signor giornalista, e quel giorno la Selección si impose ai boliviani per uno a zero, gol di testa del Pájaro Fornari su cross ficcante del Ratón Ayala. Un uomo delle Ande e un altro della pianura, la sintesi perfetta di quella strana operazione ideata da Sivori per aggirare l’ostacolo del mal di montagna. Per festeggiare, una volta giunti negli spogliatoi, i ragazzi di Tilcara si fecero fotografare con un cappuccio bianco in testa, a simboleggiare la “squadra fantasma” che ci aveva messo sudore, dedizione e huevos per quasi due mesi in quell’angolo quasi dimenticato da Dio e dagli uomini.

Cosa dice? Tutto è bene quel che finisce bene? Mica sempre. Non furono tanti i ragazzi di Tilcara che andarono ai Mondiali in Germania Ovest, anche se alcuni di loro si presero la rivincita quattro anni più tardi, trionfando in casa davanti all’Olanda. E per ironia del destino non ci andò neppure il Cabezón Omar Sivori, sostituito pochi mesi prima della competizione dal Polaco Vladislao Cap. Quanto al Generale, vinse a mani basse e tornò alla Casa Rosada, ma fu il canto del cigno. Era vecchio e malato e morì l’anno successivo, lasciando il nostro disgraziato Paese nel caos, pronto a scivolare nelle grinfie di Videla e dei militari. Sappiamo bene com’è andata a finire.

Ma lei, signor giornalista, scriverà davvero un articolo su questa vecchia e stramba storia argentina? L’ha confessato prima che a nessuno interessano queste vicende dell’altro secolo… Poi adesso c’avete Cristiano Ronaldo, cosa vuole che importi alla gente, là in Italia, dei fantasmi di Tilcara?

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