Here comes the sun: il talento di Eduardo Macia

Leonardo Corsi
4-4-2 – Calciatori, tifosi, uomini n. 14/2019
Here comes the sun: il talento di Eduardo Macia

Le ginocchia tremanti di Grobbelaar ipnotizzarono Bruno Conti e Ciccio Graziani. Così conobbi il Liverpool, una notte d’estate del 1984. Bruce il matto danzava sulla linea di porta, unendo i suoi a milioni di altri occhi puntati sull’ultimo rigorista, a undici metri dalla gloria o dalla disfatta. Il fenomeno calcio ebbe origine al termine del XIX secolo, con la nascita dei primi club nei nuovi agglomerati industriali, dove masse di lavoratori giunte dalle limitrofe campagne iniziavano a radicarsi. Verso la fine degli anni Cinquanta, dopo l’ondata migratoria, Liverpool stava vivendo una profonda evoluzione. Dalle avanguardie musicali a quelle calcistiche, la città era una culla fiorente di idee e i Reds erano motivo di orgoglio per intere comunità, che nei fine settimana affollavano Anfield, il tempio dove si professava la nuova fede.

Bill Shankly era stato il grande manager, artefice di un ciclo glorioso. Aveva un talento indiscutibile, capiva il calcio e sapeva scegliere gli uomini. Nell’epoca in cui il denaro non era ancora padrone assoluto della scena, intuito e abilità facevano la differenza. Il talento di un bravo manager consiste proprio nel comprendere come migliorare una rosa vincente grazie a innesti e cessioni mirate, senza alterarne l’identità. Cosa aveva intuito, viene da chiedersi, lo stesso Bob Prasley, quando nel ’77 decise di avallare la cessione del formidabile Kevin Keegan? Oltre alla generosa plusvalenza, portava a casa lo scozzese Kenny Dalglish, forse meno appariscente ma tatticamente più funzionale alla sua squadra. Se le vittorie e i fasti tendono a seguire il flusso del potere economico, qualcosa di romantico pur sopravvive. Lo scout pesca tra scarti e sprechi nell’isola virtuale dei “giocattoli difettosi”, traendo spesso vantaggio dall’impazienza altrui.

A bordo di un’auto a noleggio, dal finestrino semi-aperto, il soffio del vento accompagnava le note di una vecchia canzone. In lontananza il cartello d’uscita, col sole avvolto dal cielo grigio e autunnale di Liverpool.

Varcato il grande cancello, procedevo riluttante al pensiero di violare la sacralità di quei luoghi. Distese di prato all’inglese richiamavano alla mente la leggendaria “numero 7” di Keegan e Dalglish, il senso di appartenenza legato alla storia e alle gesta dei grandi campioni passati da Melwood.

Adiacente ai campetti, all’ingresso di un fabbricato anonimo, la segretaria diede avviso della nostra presenza e, dopo una breve attesa, ci accolse il giovane e garbato responsabile dell’area tecnica, lo spagnolo Eduardo Macia. Occhi profondi e scuri brillavano vitrei dietro la montatura sottile, il sorriso discreto illuminava un volto quasi anonimo. Parlava varie lingue, compresa la nostra. Lo seguimmo al piano superiore, in una sala dove veniva servita una discutibile colazione all’inglese. La stanza aveva una grandissima vetrata, con vista diretta sul campo dove era in corso l’allenamento giornaliero. Spiccava la figura elegante di Steven Gerrard, con quel suo inconfondibile passo cadenzato. Il suono armonico di un pallone che sibilava nell’aria sembrava penetrare dagli infissi. Macia aveva preso a parlare: «Tutto nel calcio dev’essere fatto in base a un’idea definita». Non sapevo molto sul conto di quell’uomo enigmatico, che pure godeva della piena fiducia di Benitez.

Era stato un promettente difensore, finché un gravissimo infortunio aveva posto fine ai suoi sogni. Dopo la laurea, non potendo resistere lontano dal calcio, aveva intrapreso la carriera di allenatore. La buona sorte non tardò a manifestarsi. Benitez, che lo seguiva e lo conosceva dai tempi in cui allenava la cantera del Real, decise di chiamarlo al Valencia come assistente.

La collaborazione fruttò subito tre titoli: due scudetti e il trionfo in Europa League. Nel 2004, però, le loro strade si divisero. Benitez, passato al Liverpool, dopo il successo ottenuto nella Champions, capì che per continuare a crescere doveva creare una rete capillare di osservatori, alla cui guida voleva ad ogni costo Eduardo Macia. Si adoperò ogni giorno per convincerlo e alla fine Macia, sebbene al Mestalla fosse di casa, cedette alle lusinghe.

«Durante una tipica giornata a Melwood s’inizia da un incontro a colazione, definendo il programma di lavoro. Su ogni giocatore s’incrociano pareri e dati, elaborando un resoconto dettagliato per l’allenatore. Al momento della firma tutto sembra semplificarsi, ma dietro un nuovo acquisto c’è sempre un lavoro accurato, per conoscerlo a fondo, seguirlo, comprenderne la mentalità. Le prestazioni sul campo rappresentano solo il dato più scontato ed evidente quando si investono milioni. Ogni giocatore è prima di tutto un uomo: è la persona che ti fa sbagliare l’acquisto, non il calciatore».

Le sue conoscenze spaziavano all’infinito, da numeri e nomi ad attitudini di gioco. In testa sembrava avere un database. Con un manipolo di uomini fidati rivoltava il mercato, fiutando i talenti emergenti, armato di fantasia contro i magnati e gli emiri, nuovi padroni del calcio. Dalla sua Spagna all’Italia, coprendo i paesi dell’Est per le buone occasioni low-cost, soprattutto i Balcani, area in cui abbonda l’estro ma difetta la cultura del lavoro, vivida invece nel Nord Europa. E poi l’America Latina, ideale per chi vada in cerca di personalità calcistica.

«Giocare nel Liverpool non è per tutti, perché non è da tutti avere la giusta mentalità. Possedere doti straordinarie non basta, troppe promesse finiscono disperse». E qui puntualizzava deciso: «Nel cuore dei calciatori si trovano le informazioni più preziose».

Nonostante un problema all’udito lo condizionasse fin dalla nascita, costretto a seguire il labiale, non si era dato per vinto e aveva imparato a curare ogni aspetto del proprio mestiere.

«Per aspirare a grandi traguardi una squadra dev’essere completa di tante attitudini, fatta di uomini che portano in campo la grinta, di altri che aiutano nello spogliatoio, di quelli con il calcio nel dna. A prescindere dalla provenienza, è decisivo che i giocatori sappiano parlare la stessa lingua, quella universale del buon gioco».

Traspariva, coinvolgente, tutta la sua passione. Ascoltavo rapito. Svelò un retroscena: in quei giorni la Juventus si era interessata a Xabi Alonso e, per abbassare il prezzo elevato, i dirigenti bianconeri proponevano un’eventuale contropartita da scegliere in una lista di cinque giocatori. Erano nomi altisonanti, Eduardo però storceva il naso e replicava ai suoi interlocutori: «Nessuno di questi. Piuttosto, il giovane centrocampista rientrato da Empoli». Si trattava di un nazionale under 21 le cui potenzialità erano ben note, ma durante quella stagione in prestito il suo impiego era stato discontinuo e la squadra appena retrocessa. Annotai sul taccuino il nome di Claudio Marchisio.

Macia aveva catturato la mia attenzione, capivo le ragioni di Benitez nel volerlo con sé. Nel frattempo, concluso l’allenamento, il tecnico spagnolo attendeva nello studio, una stanza con la moquette di un rosso acceso, seduto ancora in tuta dietro una modesta scrivania e intento a sistemare alcune carte di lavoro. Ci accomodammo nel salottino tra poltrone e divani, dove ci raggiunse. La conversazione si fece subito informale, inglese e italiano, con cadenze spagnole. Benitez mostrava ottima cultura e buone maniere, ma più lo ascoltavo più avevo l’impressione che il vero talento fosse proprio quel Macia, un’ombra quasi impercettibile al suo fianco.

Finita la riunione e diretto all’uscita, gettai un ultimo sguardo a quei campetti verdi, zelanti custodi di trucchi e segreti. Ripartii adagio, mentre il grande cancello di Melwood si richiudeva alle nostre spalle. Al riflesso di un raggio di sole inatteso, un plettro pizzicò le corde… Here comes the sun, avrebbe detto il vecchio George. Desideravo rivedere quel Macia.

Non immaginavo potesse accadere proprio a Firenze quando, anni dopo, il nome dello spagnolo iniziò a trapelare come possibile responsabile dell’area tecnica. Un giorno di novembre, Macia entrava a far parte della Fiorentina e, progressivamente, conclusa la gestione Corvino, otteneva pieni poteri. La sua filosofia restava invariata, con il lavoro di scouting condotto dietro le quinte, lontano dai rumors e dai riflettori. Accadeva di incontrarlo la domenica mattina accanto alla rete di un terreno di gioco, spettatore interessato di una partita giovanile, cordiale e gentile, carico di passione mentre illustrava le sue idee.

«Mio caro Leonardo, da quanto tempo!»

Dalla ricerca di un’identità nasceva la sua Fiorentina, con giocatori selezionati a livello regionale, nazionale e solo in ultimo internazionale. Tenacia e puntigliosità nelle marcature, fosforo e personalità a centrocampo, imprevedibilità sulle fasce, intuito e pragmatismo davanti. La tecnica come valore assoluto e imprescindibile. Fu una ventata di speranza nel calcio che avevo conosciuto, perennemente condizionato dalla paura dell’errore. Coraggio e fantasia erano le qualità che amava predicare. Ahimè, quella stagione durò troppo poco.

Senza destar clamore riprendeva il suo cammino, passando al Betis, poi al Leicester, in quella strana giostra che è il calcio, dove si incrociano uomini e destini.

Credo di aver visto in Macia l’audacia e la follia del sognatore. In un mondo dove la visibilità sembra contare più del merito e la febbre da risultato è la misura di ogni cosa, idee e metodo non sempre riescono ad attecchire. Lasciò Firenze da incompreso, quasi un ossimoro per un grande talent scout. Neppure una voce né un coro di tifosi per coltivare l’illusione che così non fosse.

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