Kind of Blue. Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano

Marzia Gandolfi
2021-05-26 10:13:32
Kind of Blue. Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano

ROMA – 2016, Dolby Theatre. Warren Beatty e Faye Dunaway per qualche minuto consegnano a La La Land l’Oscar come Miglior Film. Ci penserà Jordan Horowitz a fare chiarezza (e giustizia) e consegnare tra le mani di un incredulo Barry Jenkins la statuetta dorata per Moonlight. Un momento entrato nella Storia degli Academy per un film che ha fatto la Storia del cinema. In particolare quella del cinema nero americano come racconta Marzia Galdolfi, raffinata critica cinematografica, nel suo Kind of Blue – Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano (edito da Bietti). Un libro in cui l’autrice rintraccia la rivoluzione apportata dal regista di Miami nella ridefinizione dell’immagine dei neri sullo schermo, da Moonlight a Se la strada potesse parlare fino alla recente serie TV, La ferrovia sotterranea. Ma Kind of Blue è per la Gandolfi anche l’occasione per ripercorrere le tappe di un cinema che, dagli inizi del Novecento arriva alle presidenze, agli antipodi, di Obama e Trump ipotizzandone il futuro con l’inizio dell’era di Biden.
La copertina di Kind of Blue. Barry Jenkins, variazioni sul corpo afroamericano di Marzia Gandolfi (Bietti edizioni – Fotogrammi).

Come nasce l’idea di questo libro?

Nasce da una passione che ho per il cinema afroamericano dal quando, nel 1977, uscì Radici, una serie TV epica sulla schiavitù negli Stati Uniti. Da questa passione nasce poi il desiderio di fare un bilancio sul nuovo cinema afroamericano in cui considero un arco temporale di dodici anni, tra i quattro anni di Trump e due mandati precedenti di Obama. Queste due presidenze hanno generato una vera e propria onda di film emblematici che esprimevano quelle che erano le politiche dei due presidenti. Per fare questo bilancio avevo bisogno di una sorta di Virgilio che mi aiutassi nel percorso e secondo me Barry Jenkins, insieme a Jordan Peele, è uno degli autori maggiori di questa nuova ondata che ha apportato un contributo originale in questo cinema in cui è possibile disegnare delle nuove tendenze rispetto a quelle della Blaxploitation degli anni ’70 o del New Jack degli anni ’90.

Quale credi sia la forza del cinema di Barry Jenkins?

Il suo è un cinema giovanissimo eppure così maturo. Ha riconfigurato la rappresentazione degli afroamericani al cinema. Una delle cose meravigliose che fa Jenkins è non ridurre mai i suoi protagonisti alla sola condizione di neri. I suoi personaggi sono sempre definiti da un’identità propria, singolare e non solo dalla loro appartenenza alla comunità nera. Con Moonlight è riuscito a eludere tutti i cliché che il cinema veicola sulla comunità afroamericana. E l’altra cosa meravigliosa che ha fatto è stata quella di riuscire a trovare una luce, insieme al direttore della fotografia James Laxton, con cui illuminare gli afroamericani. Sotto questa luce vediamo i suoi protagonisti per quello che sono realmente.
Una scena di Moonlight illuminata dalla fotografia di James Laxton.

In Kind of Blue racconti il cinema nero americano anche in relazione alle presidenze di Obama e Trump. Quale immagini sarà la direzione che prenderà con quella di Biden?

Queste tre presidenze hanno espresso un cinema estremamente diverso – anche se quella di Biden è solo all’inizio – che io divido in tre verbi: riconciliare, distruggere e riparare. Per Obama il compito era riconciliare due Americhe, quella bianca e quella nera, e il discorso che faceva era di inclusione. La sua presidenza ha creato un clima favorevole sia alla realizzazione sia alla ricezione di questi film. Tutto il lavoro di riconciliazione fatto da Obama, Trump lo ha distrutto. Non a caso Scappa – Get Out è del 2017 e si porta dentro tutta la brutalità che vivranno gli Stati Uniti e che, di riflesso, vivremo anche noi in Europa. Ma Trump ha permesso anche di mettere in luce quali fossero i problemi del Paese con cui, forse, adesso si inizia a fare i conti. Quello che può fare Biden è riparare un’America spezzata in due. E un titolo che rappresenta bene questo momento è un corto, Due estranei, con protagonisti un poliziotto bianco e un ragazzo afroamericano.

Molto spesso Jenkins è stato accusato di essere un regista troppo estetizzante…

Purtroppo solo in Italia Jenkins non è stato capito e si è scambiato per manierismo quello che in realtà non lo era. Lui ha trovato un linguaggio alternativo, che non significa migliore o peggiore. È semplicemente un altro linguaggio per raccontare la cultura afroamericana che fino ad oggi è stata considerata anche da noi eccessiva, drammatica, provocatoria e sempre in lotta. Jenkins manipola la dimensione temporale utilizzando queste pause quasi come fossero delle fotografie dove lui ferma i suoi personaggi e crea delle sacche temporali dove loro riparano, guardano sempre in camera. Cercano loro stessi ma anche lo sguardo dello spettatore con cui creare un’empatia. E questo aspetto ne La ferrovia sotterranea è ancora più forte rispetto a Moonlight e a Se la strada potesse parlare.

In Kind of Blue sottolinei come quello di Jenkins sia un cinema politico che ha trovato una terza via tra resistenza e protesta. Una terza via rappresentata dall’amore…

Il discorso politico nel cinema di Barry Jenkins va sempre di pari passo con quello l’intimo. Alla base delle sue storie, compresa anche La ferrovia sotterranea, c’è sempre una coppia che prima di affrontare discorsi sentimentali discute e conversa di questioni politiche. Nel suo primo film, Medicine for Melancholy – che sembra uscito dalla Nouvelle Vague francese -, i due protagonisti conversano per strada ma i temi sono politici. Anche in Se la strada potesse parlare c’è una conversazione tra Fonny e un suo amico appena uscito di prigione. Parlano della difficoltà che hanno gli afroamericani a trovare una casa in affitto e della ghettizzazione dei neri. Ma alla fine, come anche ne La ferrovia sotterranea, la poesia trionfa sempre sull’Inferno.

Nel libro parli dell’invenzione della pausa da parte di Jenkins per interrompere la maniera convenzionale di rappresentare gli afroamericani. La ferrovia sotterranea sembra rappresentarne l’apice…

Tutti i processi narrativi che utilizza, l’ellissi, il flashback, la pausa, non sono dei processi unicamente cinematografici. Ripetono la percezione dei suoi personaggi di sognare, di ricordare. Ed è fortissima questa cosa ne La ferrovia sotterranea dove, oltre essere dei ripari, servono anche a far respirare lo spettatore. E come se permettesse anche a chi guarda di fare quella pausa, per respirare oltre che per riflettere su quello che stanno vedendo. Tanto che lui del romanzo di Colson Whitehead ha pensato subito di farne una serie e non un film, perché la fruizione cinematografica ti costringe a restare inchiodato alla sedia. Basti pensare a una scena fortissima che si svolge nel primo episodio e che richiede uno stop. Non a caso sul set c’erano psicologi per gli attori in modo da aiutarli a sostenere i personaggi, sia quelli interpretati dai bianchi che dagli afroamericani.

Una particolarità di La ferrovia sotterranea è anche quella di mettere in scena figure bianche complesse. Ne è un esempio il personaggio di Joel Edgerton…

L’ultimo bianco, per me insopportabile, era stato quello interpretato da Michael Fassbender in 12 anni schiavo di Steve McQueen. Se in Moonlight Jenkins fa una scelta radicale escludendo i bianchi dalla narrazione, ne La ferrovia sotterranea li inserisce ma è bravissimo a non ridicolizzarli. Non sono dei sadici compulsivi come lo era il personaggio di Fassbender. Joel Edgerton è incredibile nell’interpretare questo cacciatore di taglie. È approfondito da Jenkins intimamente che su di lui fa un lavoro elegante trovandogli addirittura delle figure letterarie di riferimento – come quella del capitano di Moby Dick – per la sua ossessione per Cora. La prima volta in cui ha raccontato dei bianchi, tra l’altro in una situazione in cui è difficile mantenere un equilibrio, è stato eccezionale perché non si accontenta di raccontarli come dei beceri pazzi ma gli dà un connotato psicologico profondo, a differenza di McQueen che con Fassbender sembra condannare un’anomalia. Mentre Jenkins sposta lo sguardo su quella che è l’istituzione americana del razzismo.

Di tutti i film usciti in questi anni qual è quello, escludendo il cinema di Jenkins, che più di tutti ti ha colpito?

Uno dei miei preferiti è stato, in realtà, uno dei più attaccati: The Birth of a Nation di Nate Parker. Credo che questo film sia enormemente più importante di 12 anni schiavo. Steve McQueen racconta la storia di un singolo, di un uomo libero preso e tenuto prigioniero per molti anni, in cui un bianco, interpretato da Brad Pitt, interviene e in qualche modo lo salva. Il film di Parker credo sia un passo avanti perché racconta di un leader afroamericano che combatte per lui ma, al tempo stesso, per un’intera comunità. Penso sia importantissimo per un afroamericano vedersi rappresento in questa maniera da un leader così forte che decide di portare avanti una battaglia pur sapendo che è un’utopia. Una storia tenuta nascosta per molto tempo, perché dopo che l’FBI & Co avevano tagliato la testa a tutti i leader afroamericani diventava un problema rappresentarne uno al cinema. Mi sembra che questo film provi a fare un passo avanti in quella lunghissima marcia che è il cinema afroamericano che va di pari passo a quella per i diritti civili.

Manuela Santacatterina ©hotcorn.com maggio 2021

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