Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano

Fabrizio Fogliato
2023-10-03 07:44:30
Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano

Il saggio Con la rabbia agli occhi di Fabrizio Fogliato indaga la cinematografia nostrana del secondo Novecento dedicata a crimini, delitti e misteri

L’etichetta di “cinema criminale italiano” accomuna pellicole molto diverse tra loro per argomento, qualità e linguaggi espressivi: dal noir degli anni Cinquanta ai “poliziotteschi” che dipingevano un’ “Italia a mano armata” e riempivano le sale negli anni Settanta, fino alle trattazioni filmiche di argomenti politici e sociali che nel medesimo periodo diedero risultati alterni – dai capolavori agli instant movies – arrivando fino alle produzioni più recenti.
Tre sono le fonti di ispirazione per le numerosissime produzioni ascrivibili a questa macrocategoria: la letteratura (Gadda, Scerbanenco, Pasolini, Sciascia), la cronaca nera e la storia, in particolare il periodo che va sotto la denominazione di “strategia della tensione” e che comprende il fenomeno dello stragismo dal 1969 al 1980, con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro come evento clou che si colloca nella medesima fase (1978).
Si tratta di un territorio indubbiamente molto vasto, che offre allo spettatore percorsi variegati ed articolati, e che è stato recentemente esplorato da Fabrizio Fogliato nel suo volume “Con la rabbia agli occhi” (Bietti, 2021): in particolare, quello che il critico offre al lettore è una serie di “itinerari psicologici” che prendono in considerazione un periodo che va dal dopoguerra agli anni Novanta, con qualche “puntata” in tempi più recenti. L’analisi si sofferma sui lavori di alcuni registi in particolare (GermiLizzaniPetri tra tutti) e su alcuni filoni, individuati tra i tanti che appartengono a questo immenso campo di studio: le oltre settecento pagine rappresentano infatti solo una parte delle indagini compiute dal critico negli ultimi quindici anni, selezionate da un corpus che ne comprendeva più di tremila.
Il titolo del libro cita un lungometraggio del 1976 diretto da Anthony Dawson, pseudonimo di Antonio Margheriti, con protagonisti due beniamini del grande schermo: un giovane Massimo Ranieri e uno dei volti “cattivi” per eccellenza, Yul Brynner, in una vicenda di malavita e vendetta. Un titolo emblematico, non solo di una singola pellicola ma di un vero e proprio Zeitgeist che pervade oltre quarant’anni e in particolare gli anni Settanta, decennio estremamente produttivo per l’industria cinematografica nostrana e soprattutto per il cinema popolare e di genere.
Se facciamo riferimento al medesimo anno, osserviamo che in Italia il 1976 fu un’annata molto prolifica in tutti i settori, dai film d’autore a quelli “di cassetta”. Nell’arco di dodici mesi escono infatti Novecento di BertolucciIo sono un autarchico di MorettiL’Agnese va a morire di Montaldo, il Casanova di FelliniLa casa dalle finestre che ridono di Avati. Ma anche Il secondo tragico Fantozzi diretto da Luciano Salce, la riduzione cinematografica di Sandokan, ben quattro film della saga di Emmanuelle e due “squadre” (“antiscippo” e “antifurto”) della fortunata accoppiata Bruno Corbucci/Tomas Milian. Quest’ultimo, all’apice della popolarità, nello stesso anno è protagonista anche de Il trucido e lo sbirro e di Roma a mano armata di Umberto Lenzi e di Liberi armati pericolosi di Romolo Guerrieri, dividendosi dunque tra il poliziesco “classico” e quello “comico”. A tutto ciò si aggiungono le amatissime dottoresse, poliziotte e professoresse interpretate da icone della commedia sexy come Edwige Fenech e Lilli Carati. Ma il ’76 è anche l’anno di Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, di San Babila ore 20: un delitto inutile, di Carlo Lizzani e del controverso Todo modo di Elio Petri. Possiamo osservare quindi, da questo breve elenco, che molte di queste pellicole raccontano, con diverse modalità, di violenza, abuso e sopraffazione, ed alcune di esse vengono analizzate da Fogliato nel suo saggio.
Lo studio dello scrittore e docente torinese parte da un assunto di Schopenhauer, vale a dire che l’istinto alla prevaricazione è insito nella natura umana, e dal concetto freudiano di unheimlich, cioè di ciò che è inquietante e disturbante ma al tempo stesso suscita attrazione e fascinazione, entrambi ricorrenti nelle opere prese in esame.
Per spiegare la presenza così diffusa del misfatto e del sopruso nella cinematografia nostrana, Fogliato osserva che i film sono sintomatici di “stati mentali occulti” diffusi nella società: la settima arte, quindi, trasfigura paure ataviche e desideri inconfessabili, riproponendoli nella sua rappresentazione del reale e della Storia. Protagonista del “cinema criminale” è il ceto medio, sia nel ruolo di chi subisce violenza, e quindi chiede giustizia, sia di chi la perpetra. Esso prende inoltre parte, dal secondo dopoguerra a oggi, come fruitore, a ciò che l’autore definisce “spettacolarizzazione del crimine” in tutte le sue forme: non solo nel cinema, ma anche nella fotografia, nella stampa e nei telegiornali.

L’autore parte dalla filmografia successiva al periodo del Neorealismo, soffermandosi sulle conseguenze del boom economico e sul bisogno indotto negli strati medio-bassi della popolazione di oggetti simbolici del benessere, da acquisire ad ogni costo, anche tramite mezzi illegali come il furto e il delitto. In questo periodo, secondo Fogliato, “si può sostenere come la scelta di comportamenti devianti, per i giovani degli anni Cinquanta, rappresenti il grido d’aiuto di una generazione che, ubriaca di libertà, non ha maturato gli strumenti necessari per gestire i cambiamenti in atto e si ritrova disorientata, spaesata, attonita di fronte alle disponibilità economiche di cui le famiglie italiane possono usufruire”. E il nero diventa, a parere dell’autore, il colore che riesce ad esprimere “le diverse sfumature che la società in movimento sta assumendo”.
In questo ambito si muovono le prime pellicole di Elio PetriLuigi Comencini e Pietro Germi e si manifestano intrecci tra cinema e romanzo: Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana di Gadda offre lo spunto per una sceneggiatura, Il palazzo degli ori, che non porterà però alla realizzazione di un film, e ispira Un maledetto imbroglio (1959) dello stesso Germi, che recita anche il ruolo del protagonista, il commissario Ingravallo, in una squallida vicenda che comprende furto, omicidio, prostituzione, adulterio e corruzione di minorenne, e che rievoca anche un fatto di cronaca nera dell’anno precedente, il delitto Fenaroli.

Negli anni successivi il cinema si accosta sempre più alla realtà, sia riproducendo fedelmente eventi delittuosi, sia traendone linfa vitale per l’ispirazione di vicende finzionali che però sono strettamente legate alle dinamiche politiche e sociali di quegli anni. Esempi emblematici sono Svegliati e uccidi (1966) di Carlo Lizzani, che narra la parabola del “mitico” bandito Luciano Lutring e, del medesimo regista, Banditi a Milano, (1968), che racconta la storia della Banda Cavallero, un quartetto di rapinatori che imperversò tra Torino e Milano alla metà degli anni Sessanta. La pellicola, fedele agli accadimenti, vede come protagonisti due attori che ritroviamo, sia pure in ruoli molto differenti tra loro, in molte altre pellicole analizzate nel saggio: il già citato Tomas Milian e Gian Maria Volonté, uno dei massimi interpreti del nostro cinema a sfondo politico e civile. Questi due film sono considerati dalla critica come gli antesignani del genere “poliziottesco”, che diverrà estremamente popolare di lì a poco e nel quale le metropoli in balia della criminalità sono il corrispettivo del selvaggio Ovest rappresentato negli spaghetti western di qualche anno prima. Ma il cineasta romano realizza anche instant movies di inchiesta e di denuncia, come Storie di vita e di malavita (1975), dedicato al sordido fenomeno della prostituzione minorile nel capoluogo lombardo, e San Babila ore 20: un delitto inutile, basato sulla brutale uccisione di una coppia da parte di un gruppo di giovani neofascisti milanesi.
Da Milano a Roma il passo è breve: la capitale è teatro di varie azioni criminose, stupri ed efferati delitti, portati sul grande schermo con linguaggi e modalità differenti. È ancora Lizzani che, all’inizio degli anni Sessanta, racconta la malavita capitolina ne Il gobbo. È poi la volta di Una vita violenta, di Heutsch e Rondi, adattamento dell’omonimo romanzo di Pasolini. Ma i crimini non si consumano solo nelle borgate: molte pellicole, infatti, raccontano delitti di estrazione borghese, in un ideale rimando al già citato Quel maledetto imbroglio.
Di estremo interesse sono poi i capitoli “L’orgia del potere”, “Ombre polisemiche” e “La strategia del ragno”, che analizzano la cinematografia ispirata agli eventi degli anni Settanta: i tentativi di golpe, la già citata strategia della tensione, la strage di Piazza Fontana, la “morte accidentale” di Pinelli, il terrorismo rosso e nero, il movimento del ’77, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro sono oggetto di indagini filmiche o fungono da scenario a pellicole che fanno inevitabilmente riferimento a questo clima sociale e politico. L’assunto è l’esistenza, effettivamente documentata, di trame occulte che rendono indissolubile il legame tra crimine ed istituzioni ed impossibile, a causa di insabbiamenti e tortuosi iter processuali, il conseguimento della verità e della giustizia. I registi e le opere di questa fase non hanno bisogno di presentazioni: Volonté interpreta lo statista democristiano in due pellicole girate, rispettivamente, prima e dopo la sua morte, vale a dire il già citato Todo Modo di Petri, dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, e Il caso Moro di Giuseppe Ferrara; a seguire il più recente Buongiornonotte di Bellocchio e, su altri argomenti, i lungometraggi di Costa-GavrasGiordana e altri. Merita sicuramente una citazione Faccia di spia (1975) dello stesso Ferrara, che mette insieme, in una serie di episodi, la guerriglia guevarista, il golpe in Argentina, le trame della CIA e l’assassinio di Giuseppe Pinelli, in una sequenza memorabile interpretata da Riccardo Cucciolla. Un dettaglio da ricordare: il dolcevita chiaro indossato dal commissario Calabresi diventerà d’ordinanza per molti suoi “colleghi” di finzione nei polizieschi all’italiana.
Tornando a quest’ultimo genere, tanto prolifico quanto disomogeneo per qualità ed intenti, la sua fortuna si può ravvisare nella commistione di elementi di noir, gangster movie, western, thriller, film d’inchiesta e fantapolitica, con qualche “spruzzata” di splatter qua e là. Una pellicola che può essere considerata un trait d’union tra il poliziesco ed il film politico è il celebrato Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Petri, in cui l’assassino è lo stesso ispettore di polizia, incarnato magistralmente da Gian Maria Volonté – che campeggia anche sulla copertina del volume di Fogliato – mentre la vicenda delittuosa è il pretesto per denunciare il Potere in senso lato. Nella maggior parte delle narrazioni, invece, la figura del commissario – spiega il critico – è tanto reale, nella sua lotta contro il crimine, che allegorica, poiché incarna, con la sua intransigenza, uno dei desideri inconfessabili del pubblico: la pena di morte per chi delinque. Esempio emblematico in questo senso è Napoli violenta (siamo sempre nel 1976), il secondo episodio della saga con Maurizio Merli nei panni del commissario Belli, preceduto e seguito da tanti altri titoli simili, ambientati nella giungla d’asfalto a varie latitudini dello stivale: Genova a mano armata, Roma violenta, Roma a mano armata, Milano violenta, Milano odia: la polizia non può sparare e via discorrendo. Terzo protagonista, oltre al poliziotto e all’antagonista, in tutti questi esempi, è l’automobile, lanciata in folli inseguimenti lungo i percorsi urbani: essa è “rappresentativa di un mondo interiore, connaturato al gesto prevaricatore, attraverso la deformazione del rapporto tra individuo e norma sociale”. Nello stesso anno, con i già citati lungometraggi di Corbucci/Milian nasce il sottogenere “comico”, che decreta in qualche modo la progressiva involuzione e la scomparsa, in capo a un lustro, del genere. E tanto Indagine su un cittadino… che il coevo Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica, in cui Damiano Damiani racconta la collusione tra criminalità organizzata e la corruzione del sistema in modo esemplare – introducendo la tematica mafiosa, che verrà poi sviluppata in innumerevoli altri lavori – anticipano la “morte” del poliziesco all’italiana, mostrando funzionari corrotti. Il poliziotto è marcio di Fernando Di Leo (1975) è a questo proposito un titolo significativo di una fase in cui, nel verosimile filmico, la polizia non può fare altro che violare la legge, usando gli stessi sistemi della criminalità per ottenere giustizia, dichiarando in definitiva la propria sconfitta (uscendo di scena dal grande schermo nel giro di un lustro).
Altrove si analizzano opere in cui la violenza si allontana dal binomio delinquenza-polizia per tornare ad una dimensione più “privata”, legandosi a correlativi oggettivi quali “sesso, denaro, carne, malattia e contagio”. Queste pellicole mettono in scena la trasgressione, i crimini a sfondo sessuale, la condizione femminile (anche in situazioni estreme come quella carceraria), i rapporti di coppia malati, basati sulla prevaricazione, ma anche vicende in cui il “matrimonio borghese”, esempio per l’autore di quell’equilibrismo, tutto italiano, tra “tradizione e innovazione, valori e tabù, ipocrisia e qualunquismo”, viene messo in discussione da elementi di disturbo che ispirano, nel contempo, attrattiva e repulsione. A volte, poi, si sfocia nel sadismo e nell’orrore, come ne L’ultimo treno della notte (1975) di Aldo Lado, valutato da Morando Morandini come “un drammatico sovraccarico di efferatezze varie”: il rischio è che questo orrore sia, per dirla con Fogliato, “vissuto con divertimento e compiacimento” da una società criminale essa stessa, che ostenta indifferenza per paura di riconoscere, specchiata sul grande schermo, la propria mostruosità.
A conclusione del saggio, un capitolo dedicato alle colonne sonore, curato da Alessandro Arban, realizzate dal maestro Ennio Morricone e da altri autori, molto attivi nel cinema di genere: Franco Micalizzi, Stelvio Cipriani e Guido e Maurizio De Angelis più tre interviste, a Romolo Guerrieri (il registra romano è anche autore della prefazione), a Umberto Lenzi e allo stesso Morandini.
Il volume di Fabrizio Fogliatonella sua ricchezza e profondità di analisi, si rivela estremamente fruibile dal lettore, rivolgendosi sia a chi già conosce queste pellicole ed è interessato ad approfondirne i diversi aspetti, sia a chi si accosta ad esse da neofita e, grazie alle schede poste in fondo al libro, troverà una affidabile guida per esplorare il vastissimo territorio del “cinema criminale”; ciascuno potrà, anche selezionando i capitoli più congeniali ai propri interessi e alla propria sensibilità, trovare in autonomi, i propri percorsi di visione, ripercorrere i titoli più celebri e riscoprire lavori dimenticati. Se poi l’autore, come egli stesso ha dichiarato, ha in serbo altro materiale sull’argomento, è il caso di restare in attesa perché è probabile che egli torni a sorprenderci proponendo altri itinerari, psicologici e non, nella cinematografia nostrana, che ci aiutino a comprendere meglio il presente analizzando fenomeni ed eventi della storia italiana recente.

Maria Macchia © marynowhere.com

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