Una stazione di benzina, completamente deserta. Il suo silenzio, imperioso e alienante, si ripete nella stanza di un palazzo, entro cui una donna solitaria si affaccia verso il sole. Morning Sun. La donna scompare, forse non è più mattina. Il vuoto avvolge la stanza, quella di Sun in an Empty Room. Immagini, scorci, sguardi che rimandano tutti a una mano sapiente, decisa ed evocativa: quella di Edward Hopper.
Nato il 22 luglio 1882 a Nyack, lungo la East Coast, Hopper conduce una vita morigerata, poco avvincente, fatta di impegno artistico, difficoltà ad affermarsi sulla scena americana, un matrimonio complicato ma privo di aura epica, infine la tranquillità borghese ispirata a costanza, routine, letture, cinema e chopsuey, il piatto cinese spesso consumato nei ristoranti newyorkesi. Eppure basta poco per lasciar emergere la grandezza di una personalità che ha voluto guardare negli abissi dell’animo umano, senza pretese di scandalo o di shock, bensì in nome di una lucida volontà di calarsi in mondi inesplorati. Perché le tele di Hopper, benché inscindibilmente legate alla cultura americana novecentesca e al suo dinamico Zeitgeist, provocano un interrogare radicale, filosofico in questo senso, sull’uomo e sul suo “esserci” nel mondo.
La lettura di Ralph Waldo Emerson ha lasciato il segno: il pittore di Nyack osserva la realtà, la sussume tramite meditazione e ne restituisce la natura entro la cristallizzazione della forma artistica. Questa si dispiega mediante diversi livelli di comprensione. Così il sole, prima citato, è indubbiamente la stella madre del sistema solare osservata da Hopper in una via degli U.S.A., ma è anche il disco d’oro con tutto il portato simbolico che la sua iconografia ha rivestito nella storia dell’arte occidentale, nonché lo spazio dell’utopia entro cui si aggrovigliano promesse e delusioni di un mondo “altro” ma non trascendente, sempre sulla soglia liminale del qui ed ora.
L’opera di Hopper ha un carattere evidentemente profano, come ben rilevato dalla critica, eppure, senza ambire a iperurani fantasmatici, eccede sempre sé stessa, andando oltre la semplice descrizione di quanto raffigura. Il realismo figurativo che la contraddistingue svanisce così, gradualmente, in una dimensione atemporale sempre pronta a insorgere. E a vigere perentoriamente nelle immagini hopperiane, che si dispongono in un luogo mediano di confine. Esse non evocano più uno stato d’innocenza naturalista d’impronta rousseauiana, ma nemmeno raffigurano un’apocalittica autodistruzione dell’umano.
Dicono e non dicono. Svelano e si ritraggono
Si diceva, dunque, dello scetticismo e dell’esperienza spirituale istintiva appresi da Emerson. Ma le letture di Hopper, nelle quali già si scorge la specificità dell’uomo e il suo anticonformismo, mite e silente eppure autentico, sono ben più vaste: Fitzgerald, Hemingway, Hammet e Whitman sono gli americani a lui più cari. Montaigne, Hugo, Rimbaud, Verlaine, Baudelaire e Proust i punti fermi del suo “canone europeo”.
Un pantheon, ben ricostruito da Ilaria Floreano nel suo Volevo dipingere la luce del sole. Vita di Edward Hopper tra pittura e cinema (Edizioni Bietti, Milano 2016), che la dice lunga sulla prospettiva esistenziale hopperiana: buona letteratura, fine poesia, introspezione, scetticismo metodologico; poco spazio, invece, a questioni socio-economiche, osservazioni giuridiche, riduzionismi storici o scientisti. Nemmeno la storia, nella sua contingenza, lo appassiona. Il 7 dicembre 1941 viene bombardata Pearl Harbour. Il pittore reagisce con un distacco ben documentato dalla moglie nel suo diario, in quanto
«Sta lavorando a una nuova tela e non può essere assolutamente interrotto!»
L’arte, dunque, prima di ogni altra cosa.
Il mondo parla a Hopper nella manifestazione intuitiva, poetica, a tratti magica, del suo darsi originario: il pittore ricerca forme, strutture, archetipi, non petizioni moralistiche né tanto meno sperimentalismi fini a se stessi. Ricorda Cézanne, per questo piglio, a tratti fenomenologico. Più di quest’ultimo, tuttavia, Hopper è stato capace di individuare su un piano artistico delle immagini iconiche attive nell’immaginario collettivo e nella creatività inconscia: si tratta di quegli indimenticabili scorci dell’America moderna – stazioni di benzina deserte, strade vuote, negozi illuminati dal neon, case vittoriane – cui l’autore, moderno per appartenenza ma antimoderno per sentire, vota la propria arte.
La lucidità di Edward si rivela fin dalla giovane età. A soli dieci anni firma già i propri disegni. Il suo destino di artista è segnato. Senza trovare ostacoli nella famiglia, aperta alle sue inclinazioni, frequenta a New York City la Correspondence School of Illustrating, quindi la New York School of Art, con i maestri William Merrit Chase e Robert Henri. Viaggia in Europa, visita nel 1906 l’amata Parigi, nel 1907 Londra, Amsterdam, Berlino e Bruxelles. Tornato in patria, iniziano per lui anni difficili, fatti di tentativi artistici di scarso successo, contrassegnati dal lavoro di illustratore, poco gratificante e funzionale alla sola sussistenza, e dall’incomprensione dei più. Sono anche anni di ricerca stilistica e di formazione. Il suo terzo e ultimo viaggio in Europa, nel 1910, rientra in questo percorso. Hopper inizia a esporre con altri artisti sulla Scena Americana, mentre nel 1920 realizza la sua prima personale. Frattanto la sua vita privata si trasforma per sempre, grazie al rapporto instaurato con la pittrice Josephine Verstille Nivison: l’amore per la sua “Jo”, carico di contraddizioni e dinamiche psicologiche destinate a rimanere irrisolte, viene coronato dal matrimonio, nel 1924.
L’arte di Hopper acquisisce sempre più uno stile autonomo, inconfondibile. Il confronto coi maestri Chase ed Henri, nonché lo studio della Hudson River School, si compenetrano con il riferimento alla grande tradizione europea di Jan Vermeer e Edgar Degas. Queste influenze vengono poi rilette alla luce dei nuovi media: il taglio fotografico, ma, soprattutto, cinematografico, della produzione hopperiana è evidente. Il cinema è una grande passione dei coniugi Hopper, che assistono con grande emozione alla nascita e diffusione delle prime pellicole. Il cinema è il loro principale hobby, dà ritmo alle loro giornate insieme alle letture degli autori amati, alla frequentazione del teatro e ai pasti consumati in ristoranti di livello più o meno accettabile. La biografia di Hopper non rivela ulteriori colpi di scena. Troviamo anni di crescente affermazione dell’artista all’interno del panorama culturale americano prima, internazionale poi. Anni di lotte di Edward con la materia pittorica, estenuanti tentativi di trasferire sulla tela la sintesi di un’esperienza interiore che non è mai interamente esauribile, in quanto
«Ogni pennellata sulla carta – rivela il pittore – distrugge l’arte sempre di più, rendendola qualcosa di diverso da ciò che avevo in mente»
Fra lo studio al Greenwich Village e la casa a South Truro si svolge l’esistenza di Edward e Jo. Una narrazione teatrale, con spunti da commedia e risvolti da tragedia, che incarna perfettamente l’immagine del theatrummundi che da Shakespeare alle tele di Hopper non smette di esercitare la propria efficacia iconica e analogica. Se «rappresentare non significa riprodurre, ma porre dei segni per qualche cosa» – come afferma lo studioso d’arte austriaco Dagobert Frey – l’opera e la vita di Hopper testimoniano una segnaletica dalla duplice direzione: centripeta, verso l’interiorità umana, centrifuga, verso la figurazione plastica della medesima. È una sorta di Nuova Oggettività, entro cui lo sguardo dello spettatore è tematizzato dalle tele senza mai apparirvi. Un gioco di specchi e di maschere, una sensazione di disagio e spaesatezza, ma anche una speranza di verità. È lo “shock della realtà”, la durezza di una figura primigenia che, nel contempo, sfuma nei contorni di una modernità pericolosa, ad accompagnare la poetica di Hopper. E la sua vita, che, dopo i riconoscimenti del MOMA e del Whitney Museum, si spegne il 15 maggio 1967, due mesi prima di compiere ottantacinque anni.