Strade di fuoco. La città nel cinema criminale americano anni '80
Matteo Berardini
Non ci libereremo mai del tutto di Ronald Reagan. Per dovere di precisione, Ronald Wilson Reagan, chissà perché si scordano tutti del nome di mezzo, 40º presidente degli Stati Uniti d’America in carica per due mandati dal gennaio del 1981 al gennaio del 1989. Un’eredità in due parti. Primo tempo hollywoodiano di un certo successo, va bene, ma senza esagerare. Poi, l’imprevista gloria presidenziale nel segno di un intreccio molto problematico di spettacolo e politica. L’ombra del vecchio Ronnie insegue il presente e ritorna in molti discorsi. Matteo Berardini, per esempio, non può evitare di metterlo al centro del suo affresco di città (cinematograficamente) dolenti dal titolo Strade di fuoco. La città nel cinema criminale americano anni ’80, edito da Bietti.
Memoria cinefila, scavo storico, intreccio di generi. Insomma, un mucchio di cose da raccontarci a proposito di un continentale luogo dell’anima, l’America, che confusamente rincorre un’identità che non sa più come cucirsi addosso, mentre sul fondo la società è in tumulto e la città copre i suoi tracciati di cicatrici più o meno simboliche. La città di Berardini è una e tante insieme.
Luogo fisico e stato mentale, immaginari che si accumulano e al cinema l’onore e l’onere di sbrogliare la matassa. Gioco di ombre e luci, che in fondo è quello che serve a una buona storia. Shock traumatico post-vietnamita, degrado, esasperazione delle disparità sociali; la città americana partecipa del clima di confusione generale smantellando l’architettura dei suoi riferimenti. Solo che tralascia di rimpiazzare il vecchio ordine con uno nuovo, e il senso di questa transizione fa tutta la differenza del mondo. Il cinema americano, poi, si sveglia all’inizio degli anni ’80 con l’emicrania e la sensazione di una grossa occasione perduta. Vista da qui, la New Hollywood assomiglia a una colossale e irrisolta sbornia d’autore, ma per fortuna non tutto è perduto. In effetti, il sistema risponde in modo ambivalente al pensiero dominante. Lo accetta contraddicendolo non appena ne ha la possibilità.
Roy Menarini, curando la prefazione al testo, quando ci ricorda che la poetica di un regista ha il suo peso. Scorsese e Carpenter non abitano, cinematograficamente parlando, la stessa città. Ma se è vero che ogni chicco di neve (cinefila) non somiglia a quello che gli sta vicino, è altrettanto vero che appartengono tutti alla stessa abbondante nevicata. A farli suonare insieme, questi spartiti urbani anni ’80, sempre Menarini, una coerenza di fondo si riesce a trovarla. Ma Strade di Fuoco – La città nel cinema criminale americano anni ’80 non è coerenza per amor di coerenza.
Matteo Berardini organizza il suo discorso in sette capitoli più introduzione (e conclusione) ma lascia spazio alle contraddizioni e alle smagliature. Ci sono precursori, protagonisti in tempo reale, qualche timido accenno al cinema che verrà. Il gancio che ci porta dentro la storia è un anacronismo. È del 2015 e si chiama It Follows, la regia è di David Robert Mitchell; partecipa alla festa da lontano, ma a buon diritto. Horror d’atmosfera e inflessioni esistenziali sul fondo del tessuto urbano ultra degradato e post-industriale di Detroit. E qui si torna a Ronald Reagan.
L’ironia della situazione, cioè che Ronald Reagan l’attore finisca per incidere maggiormente sul cinema americano nel momento in cui presta la sua showmanship ad altri palcoscenici e ad altre platee, non passa inosservata. La sua ricetta è aggressiva in politica estera e polarizzante dentro casa. Deregolamentazione selvaggia del mercato finanziario. Riduzione dei margini d’intervento del governo federale nel quadro di un’attenzione via via più esigua nei confronti di temi e istanze sociali. Retorica aggressiva e manichea associata a una recrudescenza di aggressività in politica estera, in chiara funzione antisovietica. Rimozione pubblica e manipolazione del trauma vietnamita. L’estremizzazione del dibattito e delle linee di intervento lascia un segno sulla città americana.
Il cinema americano, che con la città ha sempre intrattenuto un rapporto flessibile e aperto alle contaminazioni, raccoglie la sfida. Con una complicazione in più, ci ricorda Berardini in Strade di Fuoco. Il racconto hollywoodiano della città non si è mai limitato alla cronaca dei rischi e delle promesse connaturate all’ascesa apparentemente inarrestabile del capitalismo industriale e dei suoi miti. C’era abbastanza spazio perché emergesse, in controluce, la contraddizione spirituale di un paese che nasce con una fortissima vocazione antimoderna ma si realizza “tradendosi” nello slancio verticale e ultraveloce dei suoi giganteschi agglomerati urbani.
La città al cinema è deformazione espressionista. Pulsione esistenziale noir. Crudezza (neo)realistica, freschezza dal sapor di Nouvelle Vague, iperrealismo allucinato. Il cinema di genere americano dei primi anni ’80 rielabora gran parte di queste influenze e le proietta su un fondo sporco, degradato, violento e caotico. I ceti abbienti (bianchi) fuggono dal centro portandosi dietro capitali e servizi; il vuoto plastico e simbolico che ne risulta, in qualche modo bisogna riempirlo. Quando non preferiscono l’eleganza periferica-residenziale dei suburbs, favoriscono una rigida segmentazione del tessuto urbano cercando riparo nella militarizzazione mimetizzata di quartieri fortezza. Proprio mentre la propaganda reaganiana rispolvera modelli di virilità ed eroismo che sembravano sepolti dalla furia iconoclasta degli anni’70, e trionfa il culto dell’immagine fuori dal tempo e autoreferenziale.
Strade di Fuoco sintetizza, su queste basi e isolandone gli esempi più luminosi, le risposte offerte dal cinema americano ai tempi (e alle città) che cambiano. C’è Robert Zemeckis che con Ritorno al futuro (1985) rievoca l’innocenza e il placido conformismo degli anni ’50 e dell’America di Eisenhower, complicando le cose. Da un lato, inscenando con il passato e il suo sentimento un rapporto molto più articolato di quanto non suggerirebbe una lettura stereotipata del film e del suo discorso sentimentale. Dall’altro celebrando l’innocenza bucolica e tranquillizzante della small town, il sonnolento paradiso provinciale agli antipodi rispetto al pulsare metallico della dark city. John Carpenter, subito dopo, è un nome che ritornerà più volte.
Distretto 13 – Le brigate della morte (1976) è l’antipasto profetico; il distretto di polizia assediato dalla barbarie incipiente come ultimo baluardo di una civiltà in retroguardia. Proprio mentre Martin Scorsese, con Taxi Driver, ci ricorda che l’inferno è già dentro la città. Essi vivono (1988) è l’allegoria smagliante dell’America reaganiana modellata sul profilo di una città spaccata in due, Los Angeles, dove gli emarginati eroi delle baracche combattono il nemico alieno e yuppie, assetato di potere e determinato a svuotare di contenuto l’umanità. La segmentazione del tessuto urbano, tra l’altro, Carpenter l’aveva già raffigurata plasticamente nell’incubo distopico di 1997: Fuga da New York (1982). Su altre frequenze, L’anno del dragone (1985) di Michael Cimino rielabora lo shock della disfatta vietnamita raccontando di una giungla nuova per un conflitto vecchio. Il detective/soldato ha un conto da regolare con il passato. La città è la nuova trincea di una guerra infinita.
Hammett. Indagine a Chinatown (1982) di Wim Wenders fotografa un triplice tramonto. Di un genere (il noir), del suo eroe canonico, il detective privato, della città, con le sue astrazioni e i fondali di cartapesta. Già, il noir. Il cinema americano degli anni ’80 ridiscute i termini del suo rapporto con il genere urbano per eccellenza. Accantona la filosofia post-noir del decennio precedente, forme classiche calate su narrazioni moderne, per ingaggiare un dialogo colto e cinefilo con un passato glorioso. Gli anni ’80 segnano l’ascesa del neo-noir. Genere trasversale e citazionista, che cattura e scompone frammenti, punti di vista, prospettive di genere (noir, crime, poliziesco) e li rielabora in un eterno presente cinematografico senza padri e senza eredi. Con una forte propensione action e la tendenza a marginalizzare figure iconiche del cinema di ieri.
La tendenza a mescolare ingredienti e suggestioni contamina la città post-moderna, post-industriale e citazionista di Blade Runner (1982), regia di Ridley Scott, lì dove l’amalgama incoerente di stili, forme e sfondi vale come riflessione lucida e ficcante sulla natura labile e fluttuante dell’identità. L’intreccio di influenze vale anche per l’odissea criminale di Walter Hill che, con I guerrieri della notte (1979) esplora una città che smarrisce il senso dei suoi riferimenti mescolando suggestioni omeriche e pulsioni crime/action. Oppure, con Strade di fuoco (1984), gioca al puzzle di western, noir e musical su un fondo urbano notturno e umido. Ma nel quadro, più giocoso e innocente, di una riflessione cinefila e divertita.
Matteo Berardini passa in rassegna tanti nomi, tante facce, tanti sguardi (qualcuno ha detto William Friedkin?). È giusto però che a svelare questa collezione di tesori cinefili siano la sorpresa e il mistero di una lettura attenta e paziente.
Quello che è importante sottolineare, in conclusione, sono due pregi consistenti di Strade di Fuoco. Da un lato, la capacità del testo di inserirsi nel solco del perenne revival di un decennio, gli anni ’80, e della sua cultura pop, non fissandosi sull’omaggio sbrigativo e banalmente citazionista. In secondo luogo, l’atto d’amore nei confronti di una fetta di storia del cinema americano talvolta mortificata, dal punto di vista critico, e questo per via dell’ingombrante retaggio della New Hollywood. Gli anni ’80 americani ritrattano parte dell’ideologia e delle premesse incendiarie di ieri, riuscendo comunque a conservare, accanto a un’esplosione di muscolarità action ad alto tasso di spettacolarità, un’impronta autoriale e una carica politica da non sottovalutare.
Francesco Costantini ©Birdmen Magazine settembre 2022