
«19-12-1933. Oggi è nata mia figlia, una bambina di sei libbre e mezzo. I medici dicono che il peso è nella norma: non posso che essere felice, sollevato. Lillian ha avuto qualche complicazione durante il parto, ma ora sta bene: è soltanto molto stanca. Posso solo immaginare cosa significhi! La bimba si chiamerà Diane Marie: è un nome che piace ad entrambi e che, in realtà, avevamo già scelto nel caso fosse nata una femmina. Altrimenti, il nome sarebbe stato Michael: dovremo attendere, per darlo ad un altro piccolo Disney. Tuttavia, me lo sento: Diane Marie avrà presto un fratellino. Anzi, due!» [dal diario di Walter Elias Disney]
Verso la fine del 1966.
«Gesù Cristo, Michael! Che astronave guidi?»
L’auto è ferma, il finestrino abbassato, l’espressione dell’uomo alla guida sorniona. Sfodera uno dei sorrisi più strafottenti di cui sia capace e, inclinando leggermente il capo in direzione dell’interlocutore, gli si rivolge prendendosi tutto il tempo per rispondere, con una voce baritonale ostentata e volutamente ridicola: «Pontiac GTO del ‘64, Dee». Poi, con un accento di rimprovero nella voce, aggiunge: «Rischio di tirare le cuoia ogni giorno. Permetti che mi tolga qualche soddisfazione, ogni tanto?».
«Scendi, prima che mi venga voglia di farci un giro, alla faccia tua.»
Sotto il cielo carico di pioggia di Burbank i due si scambiano un lungo abbraccio, ridendo: il più vecchio indossa un cappotto di pelle lungo fino alle ginocchia, blue jeans e stivaletti di pelle nera. È un uomo massiccio, quasi muscoloso, ma più basso dell’altro. Il tratto principale della sua persona è costituito da grandi orecchie a sventola. Il più giovane è allampanato e un po’ trasandato, la sua voce ha un suono nasale ed acuto. Porta abiti lisi e troppo larghi per la sua persona, in testa ha un basco blu di foggia militare.
«Cazzo, Dee: non molli mai il berretto della marina?»
«Lascia perdere, Mickey: questo cappello è tutto ciò che mi sta a cuore. Odio gli abiti civili, dovresti saperlo…»
«Lo so, lo so. Ma con i vestiti di tutti i giorni e quel cappello in testa sembri un idiota!»
«Definirti il più clamoroso stronzo di questa terra è un tiepido eufemismo, Mickey.»
Rubando il berretto all’altro con un agile balzo, Michael risponde con un esagerato inchino di benevola presa in giro: «Molto obbligato, signore».
«Vaffanculo, Michael. Da’ qua.» Strappandolo di mano all’altro, il giovane si calca alla meglio il berretto in testa. I suoi occhi indicano uno stato di agitazione e grande stanchezza, ma il sorriso sereno e spontaneo di chi incontra nuovamente un suo caro dopo molto tempo fa da contraltare all’aspetto nel complesso pensoso e serio.
«Mi sono sistemato in un hotel non lontano da qui, almeno sono vicino al St. Joseph’s» dice Dee, facendo scorrere lo sguardo dalla punta delle sue scarpe alla cima d’un lampione non lontano, quasi evitando lo sguardo dell’altro.
«Vuoi andare a trovarlo subito?» L’espressione di Michael è cambiata, si è volta ad una serietà quasi impenetrabile: sembra che in un attimo si sia concretizzata sul volto di quell’uomo la stanchezza di giorni.
«Non lo so, Mickey. Devi aiutarmi: sai che non sono mai pronto per questo genere di cose.»
«Facciamo due passi allora, Dee.»
«Com’è laggiù? Me lo chiedo spesso. Dai giornali si comprende poco quel che succede.»
«Lascia stare i giornali, Michael. Mi sto convincendo che i media, in fondo, facciano finta: poco o nulla di quel che dicono sul Vietnam è vero. Spesso e volentieri sono stronzate, scritte con l’unico scopo di spostare l’attenzione della gente dalle, come dire…» Donald tituba, cercando le parole adatte. «Insomma, dalle vere cause di questa stupida guerra.» Un momento di silenzio imbarazzato, durante il quale Donald prende una lunga sorsata della sua birra scura. Mickey mette sul tavolo la domanda che da tempo vuole fare al fratello: «Ne sono morti molti, del tuo battaglione?».
Donald fa un lungo sospiro, come se da tutta la serata si aspettasse quella domanda.
«Dei miei, no. Non saprei quantificare un numero, ma non sono molti. Alcuni li conoscevo appena, di altri sapevo solo il nome.» Gli occhi di Donald osservano un punto oltre le spalle di Michael, dove due uomini stanno giocando a freccette. Il pub, anch’esso non lontano dall’ospedale St. Joseph’s, non è particolarmente affollato e permette ai due di parlare con sufficiente tranquillità. Lo sguardo del soldato è fisso, quasi inespressivo. «Ma durante le prime azioni nella foresta i nemici hanno fatto un massacro. Io mi sono salvato il culo perché sono stato assegnato a operazioni di controllo dei porti, con ogni probabilità anche grazie al nome che ho sulle spalle: essere un Disney rende le cose più facili. Ma chi deve operare nelle foreste… Santo Dio, spero non mi tocchi mai questa sorte.» L’attimo di silenzio diviene un mutismo catatonico, interrotto solo dopo un tempo indefinibile da un’altra domanda di Michael, che mantiene la stessa innocenza della precedente: «Perché ti sei arruolato, Dee? Perché sei entrato in marina?».
Un ulteriore silenzio invade la discussione.
«E tu perché sei diventato uno sbirro, Michael? Perché sei entrato nella polizia?»
Michael comprende la frustrazione del fratello e lascia correre. Sa di non avere una risposta precisa: ce ne sono molte, ma da sole non hanno alcun significato. Tuttavia, ne azzarda una: «Entrambi per far contento nostro padre?».
«Stronzate. Io non ho scelto la mia vita in base a quello che voleva papà. E il fatto che lui stia morendo non ti autorizza a tirare fuori questi discorsi assurdi.»
«Tranquillo, Dee, si sta solo parlando. Ad ogni modo, volevo aggiungere una cosa. Ricordi quando eravamo piccoli e ti facevo sempre incazzare perché ero più forte in tutto?» dice Michael, guardando con un triste sorriso il fratello. «Be’, adesso sei tu il duro. Sei tu il vero uomo, e papà lo sa. Non importa che tu sia il secondo arrivato, non conta proprio nulla: il vero uomo di famiglia ora sei tu. Un vero soldato impegnato in una guerra vera! Nostro padre è molto fiero di te, ne sono certo, anche se non te l’ha mai detto, né può farlo ora. Io sono solo uno sbirro che fa il gradasso con puttane e ladruncoli.»
Donald è colpito da quelle parole, tanto da non riuscire a sostenere lo sguardo del fratello. Non è mai stato bravo a gestire le emozioni, tanto che non è in grado di rispondere: anche se lusinghiere, le parole di Michael, dopo tanto tempo, gli creano enorme disagio. Gli esce solo una domanda secca, dura, inappropriata: «Papà sa delle tue denunce? Voglio dire…». Questa volta è Donald ad aver toccato un tema difficile.
«È tutto ok, Dee. Mamma dice che non è il caso di tirare fuori questo discorso. Con lui, del resto, non ho mai parlato direttamente di cosa comporti il mio lavoro. Pensa che il mondo si divida in buoni e cattivi, in bianco e nero. Non capirebbe.»
«Non capirebbe cosa, Mickey?»
«Non capirebbe perché uso la forza. Non capirebbe che un fottuto ispettore di Pasadena, per riuscire a sopravvivere al mestiere che fa, deve ogni tanto restituire la violenza che subisce. Dovresti averlo capito anche tu, Dee. Sei in guerra da quasi un anno, ormai. Te ne sei accorto?» Il tono di Michael è così tagliente che lui stesso, dopo un attimo, si rende conto della grave offesa, uscita dalle sue labbra come un proiettile.
«Scusa, Dee, non intendevo…»
«Forza, andiamo a trovare papà» taglia corto Donald.
«16-2-1938. Oggi abbiamo finalmente accolto a casa nostra Sharon Mae, dopo mesi di lunghe pratiche per l’adozione: è una bimba molto sveglia e sono sicuro che sarà un’ottima sorellina per Diane Marie. Io e Lillian siamo davvero al settimo cielo. Ci siamo ormai rassegnati all’impossibilità di avere figli maschi, ma la nostra felicità è così grande che questi vecchi e sciocchi desideri passano in secondo piano.» [dal diario di Walter Elias Disney]
14-12-1966
In una silenziosa e buia stanza d’ospedale, tre donne osservano un uomo steso su un letto, addormentato. La più anziana è seduta su una piccola poltrona, le due giovani sono in piedi, una per lato.
«Oggi papà non ha mai aperto gli occhi, mamma.» Dice una delle donne accanto al letto, cercando di utilizzare un tono di voce consono alla situazione.
«Ha più volte borbottato qualcosa, senza mai svegliarsi. Si agitava nel sonno, stava probabilmente sognando» aggiunge l’altra, non meno in difficoltà.
«Cos’è quel foglio che ha tra le mani?» La voce dell’anziana giunge cavernosa, sembra provenire da lontano. I suoi occhi sono persi nel vuoto.
«È il disegno che Walter Jr. ha dedicato a suo nonno. È stato qui oggi. Vero, Sharon?» risponde la giovane, tentando un breve dialogo con la sorella, senza però riuscire a trattenere un tremito nella voce. «Proprio così, Diane. È proprio un bel bambino… vero, mamma?»
Nelle mani del vecchio, mani ormai immobili, c’è in effetti un foglio bianco, a quadretti, con un disegno fatto chiaramente da un bambino. I tratti sono incerti e semplici, pochi i colori. Raffigura due personaggi dei cartoni animati: uno è quasi certamente un topo. Ha grandi orecchie, braghette rosse e grosse e buffe scarpe gialle. Tiene per mano una sorta di papero, vestito solo con un berretto blu ed una blusa simile a quella dei marinai di un tempo. Il topo e il papero sembrano felici: entrambi sorridono, tenendo una mano alzata in segno di saluto.