Editoriale: il prezzo dell’arcobaleno
Andrea Scarabelli
In quello che Emil Cioran considerava il miglior libro su Baudelaire, Benjamin Fondane scrisse che le civiltà si aprono con filosofie della leggerezza e si chiudono con filosofie della crudeltà. Eppure, di tanto in tanto ci sono personaggi che si ribellano a questo meccanismo, cercando di ripristinare età dell’oro – non importa quali – e liberando l’uomo dal giogo infame di un mondo disumano e disumanizzante. Uno di questi – non sembri eccessivo o una boutade – fu Walt Disney, il cui messaggio è più vivo che mai, considerando il costante successo dei suoi film e fumetti, che superano le mode, continuando a stregare generazioni di bambini e adulti.
Come realizzò questo miracolo? Semplice. Reintroducendo il mito e la fiaba nel XX secolo e insegnandoci a sognare. Non è un caso che quello che è stato definito il suo miglior biografo, Neal Gabler, abbia scelto come sottotitolo del suo libro The Triumph of American Imagination. Schiacciata dal realismo a tutti i costi, la fantasia risorge attraverso le opere artistiche di un autentico genio del secolo breve, che fa prendere nuovamente corpo a le donne, i cavalieri, l’arme e gli amori, aiutando gli uomini ad affrontare le sfide del presente. Nei capolavori di Walt assistiamo alla resurrezione della fiaba, con tutta la sua carica formativa: strisce e cartoons, scrisse il filosofo francofortese Walter Benjamin (cfr. Mickey Mouse, Il Melangolo, Genova 2014, che raccoglie tutti i suoi interventi dedicati a questo argomento), ci accompagnano in un viaggio il cui scopo è superare la paura (Who’s afraid of the big bad wolf, ricordate?), in un processo di crescita e catarsi che richiede la partecipazione di lettori e spettatori.
Bambini come adulti: parola di Walt, che si rivolge a quei grandi che in cuor loro non hanno mai cessato di essere bambini. Una semplice sindrome di Peter Pan? Per nulla. Non è certo infantilismo o giovanilismo a tutti i costi, male del nostro tempo, controparte di una società sempre più vecchia in cui alla sempre più precoce maturazione in età adolescenziale segue un altrettanto precoce ritorno alla dimensione infantile, nella peggiore accezione del termine. Essere bambini, a giudizio del protagonista di questa nostra storia, non significa rifiutare le responsabilità o sognare ad occhi aperti, ma serbare uno sguardo che sappia meravigliarsi di fronte alle cose e alle persone. Platone (fra gli altri) diceva che è dallo stupore che nasce la filosofia. Potremmo estendere il suo giudizio a tutti i campi dello scibile umano, ricordandoci di quella lunghissima discendenza di pionieri i quali, non soddisfatti dalle tirannie del dato di fatto, scelsero di avventurarsi nell’ignoto, portandosi dietro gli immensi tesori di cui tuttora beneficiamo.
Nelle parole di Walt, insomma, infanzia e maturità smettono di essere semplici fasi cronologiche e biologiche per diventare due contrapposte condizioni dello spirito, due modi di guardare il mondo. Lo stesso mondo. Spetta all’uomo ricordarsi che esistono occhi diversi da spalancare sulle cose: Disney si assunse il gravoso compito di rammentarci, di tanto in tanto, che è possibile conoscere, crescere ed evolversi non solo con la razionalità, ma anche con altri mezzi.
D’altra parte, il “toparo” (mouser, come lo chiamò affettuosamente Ray Bradbury, che gli fu amico e consulente) non fu certo un isolato in queste ricerche: le sue creazioni testimoniano un ritorno di fiamma, un’attenzione crescente rivolta a tematiche mitopoietiche, peculiare della seconda metà dell’Ottocento e della prima del Novecento. È in questo quadro che s’inseriscono anche le letture simboliche delle produzioni disneyane, «nel loro contenuto magico-esoterico» (Alessandro Barbera, Camerata Topolino, Stampa Alternativa, Viterbo 2011, p. 9). Con il padre di Topolino, il “mattino dei maghi” di Pauwels e Bergier splende su Hollywood. È forse così che va inquadrata la presenza di simbologie tradizionali nelle sue opere, non certo seguendo quelle ipotesi complottiste che vanno tanto di moda in Rete. Secondo un’ottica piuttosto laica, che caratterizza le pagine di questa rivista, giunta al suo decimo fascicolo, abbiamo sviluppato tali linee esegetiche, accanto ad altre, nella persuasione che la pluralità di punti di vista sia una ricchezza e non un male, secondo un punto di vista che molti definiscono liberale ma che noi preferiamo chiamare libertario, avverso a ogni tipo di Inquisizione, purtroppo ancora oggi molto di moda.
Disney, insomma, reintrodusse mito e fiaba attraverso mezzi di comunicazione all’avanguardia, incidendo in modo indelebile sulla Settima Arte. In un’epoca nella quale i mass media spingevano in tutt’altra direzione, egli ne fece gli strumenti di una nuova pedagogia. Scelse di usarli perorando la propria causa. Ma non solo questa: vi è, ad esempio, chi continua a dipingerlo come un bieco capitalista. Ma come si può considerare così qualcuno che reinvestì tutto – leggasi tutto – per realizzare il proprio ambizioso progetto? Per permetterci di sognare Walt giunse a ipotecare proprietà, automobili, assicurazioni e case (tant’è che i suoi primi film furono realizzati con pesanti esborsi da parte sua e di suo fratello Roy). Valga come esempio questo aneddoto, raccontato da sua figlia Diane a Mariuccia Ciotta (Walt Disney. Prima stella a sinistra, Bompiani, Milano 2005, p. 242): quando ci fu l’asta per comprare il terreno che avrebbe poi ospitato Disneyland, per aggiudicarselo Walt prese in prestito il denaro di una delle sue assicurazioni sulla vita e vendette la casa per le vacanze a Palm Spring, appena acquistata. Un capitalista? Forse, il cui intento, però, era ben diverso dall’accumulare denaro e proprietà, e i cui antecedenti non furono Henry Ford o Frederick Winslow Taylor ma Perrault, Andersen e i Grimm. Ne riprese la carica formativa, aggiornandola e adattandola al pubblico del suo tempo. Edulcorandola? Fino a un certo punto, considerando, ad esempio, che la sua versione di Biancaneve e i sette nani del 1937 era ben più fedele all’originale di quella precedente, melensa e “rivista” dal Children Educational Theater. Walt la corresse, tornando alle fonti e non mancando di attirare su di sé polemiche e accuse da parte dei maitre-à-penser del politicamente corretto, come raccontò ad Oriana Fallaci: «I sofisticati, i superintellettuali mi rimproverano il lieto fine. Non è realista, sghignazzano. No, non lo è. La realtà è sudicia, il più delle volte, e il sudicio è ovunque […]. Ma credo che dopo una tempesta venga l’arcobaleno: che la tempesta sia il prezzo dell’arcobaleno. La gente ha bisogno dell’arcobaleno e ne ho bisogno anch’io, e perciò glielo do» (Oriana Fallaci, Ho speso miliardi per costruire il Lincoln che parla e si muove, in «L’Europeo», giugno 1966). Con buona pace della critica e della cultura “ufficiali”…
La compresenza di un’attenzione rivolta verso tematiche tradizionali e verso l’immaginario europeo (come sostiene, tra gli altri, il filosofo della scienza Giulio Giorello nella sua intervista contenuta in questo fascicolo) e la ricerca di nuove sintassi cinematografiche non è che una conseguenza della visione del mondo disneyana. Secondo Martin Sklaw (cit. in Mariuccia Ciotta, op. cit., p. 292), Disney «aveva un piede nel passato e un piede nel futuro […]. Amava il passato del mondo in cui era vissuto, ma allo stesso tempo era assolutamente affascinato dalle nuove tecnologie». Non ignorò il passato ma nemmeno lo idealizzò: fu una sorta di conservatore rivoluzionario, che vide una linea di continuità tra passato e futuro, protesa verso un avvenire diverso, e comprese come il dramma della modernità risiedesse nell’averla sprezzantemente recisa.
Un Disney “antimoderno”, per così dire, nel cuore pulsante della modernità, gli USA, costanti interlocutori dei suoi Studios. Disney credeva nel suo Paese e non mancò di criticarlo, ma in un’ottica propositiva. Al pari del suo connazionale Ezra Pound, che sempre ne ammirò la figura e la produzione. C’è un aneddoto molto significativo, raccontato da Roberto Calasso: ad una cena organizzata a casa di Elémire Zolla in onore di Pound, una giovane chiese al poeta americano chi fosse la figura letteraria più influente del tempo. Risposta lapidaria: «Mickey Mouse» (Alessandro Barbera, op. cit., p. 69). Lo stesso giudizio, anche se di segno opposto, fu formulato da Charles Bukowski, intervistato da Arnold Kaye nel 1963 (ora in Charles Bukowski, Il sole bacia i belli, Feltrinelli, Milano 2014), a riprova dell’importanza rivestita dalla creatura disneyana. Tornando ad Ezra Pound, di Disney l’autore dei Cantos apprezzò il confucianesimo latente, come rivelò in un’intervista rilasciata a Donald Hall per il «Paris Review» (estate/autunno 1962), «l’avere assunto un punto di vista etico, essere riuscito ad asserire i valori del coraggio e della tenerezza in modo che chiunque potesse comprenderli». Come l’autore dei Cantos, Walt odiava i banchieri, dei quali offrì un sinistro ritratto in Mary Poppins, poi ridimensionato (secondo quel rovesciamento di prospettiva che lega capolavori come La bella addormentata nel bosco e il più recente Maleficent) con l’immagine di un Signor Banks altrettanto vittima, succube di un capitalismo sfrenato, nello splendido Saving Mr. Banks. Anche i vinti hanno le loro ragioni, d’altra parte… Disney seppe ascoltarle, a differenza di molti altri. E pensare che c’è ancora chi continua a considerarlo un bigotto…
Mai Disney ragionò nei termini di un male o di un bene assoluti. Né si curò delle scomuniche emesse da certi suoi compatrioti, professionisti della carta stampata attaccati alla gonnella del potente di turno, secondo un meccanismo arcinoto e piuttosto diffuso anche da noi, ma giunse a frequentare Sergej Ejzenstejn e Leni Riefenstahl. Neppure risparmiò il politically correct (anche se allora non si chiamava ancora così), al pari di colui che sempre ritenne un modello ispiratore, Charlie Chaplin, per cui lavorò, quando questi dirigeva la United Artists con Douglas Fairbanks e Mary Pickford. Fu Charlot a consigliargli di rimanere indipendente. E Walt lo prese alla lettera, a prezzo di enormi sacrifici, attirandosi l’avversione delle grandi lobbies da un lato e di sindacati e crimine organizzato dall’altro – organi non di rado in combutta tra loro, come documentato da Marc Eliot nel suo Il principe nero di Hollywood (Bompiani, Milano 1994), biografia disneyana che non ha mancato di generare scandali e polemiche.
Un viaggio lungo un secolo… Le creature disneyane hanno accompagnato il Novecento americano, sin dal debutto di Mickey Mouse, all’indomani della Grande Depressione. Topolino, ha scritto di recente il già citato Giulio Giorello, non è affatto un personaggio così statico come si vorrebbe far credere, ma si colora delle diverse fasi attraversate dagli USA, in un grandioso «romanzo di formazione ove cresce e cambia al mutare del suo Paese». Il topo più famoso del mondo si cimenta di volta in volta con tutte le sfide della modernità, «dalla difesa della libertà del “quarto potere” (la stampa) agli ambigui prodigi di una scienza che è sempre a un passo dall’essere asservita alla guerra; dall’impossibilità della giustizia di fronte ai meccanismi spietati della burocrazia alla difficoltà, quasi insuperabile, di trattare con le culture “altre”, per non dire delle incursioni nella zona del crepuscolo illuminata solo da miti e folklore» (La filosofia di Topolino, Bompiani, Milano 2013, p. 15). Topolino, come Walt – «il suo autoritratto», disse una volta il fratello Roy – che spesso si riferiva a lui come se fosse un’entità reale.
I due viaggiarono insieme tra le luci del sogno americano e tra le nebbie dei miti europei. A detta dello storico Franco Cardini, uno dei più evidenti meriti disneyani risiederebbe nell’aver instillato «idee, sensazioni e forme della cultura europea» altrimenti ignote al mondo americano, agganciandosi «a tradizioni archetipiche» («l’Avvenire», 25 novembre 1994). Critico degli Stati Uniti, era innamorato dell’Europa. Del Vecchio Mondo apprezzava soprattutto il Medioevo, tanto che scelse d’importarlo oltreoceano (come argomentato da Matteo Sanfilippo nel suo introvabile Il Medioevo secondo Walt Disney, uscito per Castelvecchi negli anni Novanta), per permettere al mondo a stelle e strisce «di crearsi un solido background folkloristico e di riaffermare le proprie origini europee, reinventando un periodo affascinante e oscuro» (Francesco Manetti, Iside a Topolinia, in «Il Giornale dei Misteri», agosto 1999, p. 6). Donando all’America un’immaginazione reinterpretata secondo i propri canoni, come recita appunto il sottotitolo della biografia di Gabler.
Questo fascicolo di «Antarès» non ha certo l’ambizione di affrontare tutti gli aspetti della vita e del genio di Disney, cui sono dedicate parecchie monografie. Né si occupa della Walt Disney Company, la quale, come tutte le creature dopo la morte dei loro creatori, ha percorso strade differenti, talvolta mantenendo il suo spirito originario, talvolta discostandovisi nettamente. Questo numero non è sulla Disney ma su Walt e intende offrire degli schizzi di una personalità curiosa, brillante e anticonformista. Ogni uomo ha bisogno di sognar più vero, scrisse Nietzsche: sembra di sentire il mago di Hollywood, in cerca non di una fuga dal mondo ma di una sua trasfigurazione fiabesca. Questo il suo segreto, attualissimo anche a decenni dalla scomparsa di quello che fu un genio: come chiamare in altro modo «chi si è servito delle macchine della scienza e della tecnologia per restituirci all’infanzia, all’illusione, al sogno? Come definire altrimenti colui che cantò divertendoci, istruendoci, commovendoci gli animali ed il vento, le montagne ed il fuoco, gli uomini ed il mare, la storia, la vita, e della fantasia fece una realtà?» (Oriana Fallaci, op. cit.). Un sogno che dura quasi un secolo, e che durerà ancora, finché vi sarà anche un solo adulto che si ricorderà di esser stato bambino. E di poterlo essere di nuovo.