Feticci sporchi di sangue. Strumenti per un viaggio nell’immaginario americano
Giacomo CalzoniSe si considera l’horror del nuovo millennio come un capitolo a sé stante all’interno della storia del genere, allora non si può fare a meno di pensare a Rob Zombie come al suo esponente più profondamente americano: tanto nella forma quanto nello spirito, il regista incarna un sentire e un pensare la materia trattata come un campo di battaglia disseminato di indizi, simboli, maschere e, appunto, feticci. Infatti, esattamente come accade nella sua produzione discografica (quella attuale da solista e quella precedente con i White Zombie), il suo cinema si configura come un vero e proprio percorso all’interno di un immaginario ben radicato nella tradizione statunitense, soprattutto in termini di cultura popolare. L’intero universo creativo di Zombie gravita intorno a una memoria collettiva composta prevalentemente da pellicole (horror, ma non solo), fumetti, musica, televisione e da tutti quegli elementi che possono avere influenzato la mente di un ragazzino cresciuto nel Massachusetts degli anni Settanta, poi destinato a diventare un’icona hard rock anche in virtù della componente estetica dei propri lavori. Il contesto della sua formazione è ovviamente quello dell’America negli anni della New Hollywood, ma anche di Guerre stellari del 1977 (per fare un esempio) e, quindi, della nascita del merchandising come strumento di diffusione di prodotti relativi ai film, alle serie tv e ad altri contenuti audiovisivi. L’appartenenza rigorosamente a stelle e strisce del cinema di Rob Zombie è data quindi anche dalla presenza massiccia e preponderante di un’oggettistica dettagliata e ben specifica, in grado non soltanto di fornire un contesto scenografico, ma di trasformarsi addirittura in motore narrativo e supporto (tutt’altro che secondario) per la caratterizzazione dei suoi personaggi. In quest’ottica, l’incipit di La casa dei 1000 corpi figura già come una cristallina dichiarazione di intenti: come in un luna park grottesco e virato al nero, il museo degli orrori del clown Capitan Spaulding (Capt. Spaulding’s Museum of Monsters and Madmen) è il viatico necessario non solamente per tutte le vittime della famiglia Firefly, ma anche per lo spettatore stesso, invitato a partecipare in prima persona a un vero e proprio tour de force che proseguirà lungo tutto il film. L’opera di esordio di Zombie è infatti una continua aggressione ai sensi – un caleidoscopio di suoni e immagini sempre pronto a tratteggiare i contorni di una provincia americana al cui interno si nascondono orrori ancestrali e innominabili – che recupera pienamente quella genuina componente sociale e politica che faceva grande l’horror degli anni Settanta. Non è un caso che il film, a conti fatti, sia una sorta di rifacimento del seminale Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper, in anticipo sul remake ufficiale e omonimo di Marcus Nispel (2003). Ma l’immaginario messo in scena da Zombie, pur legato a doppio filo all’estetica e alle suggestioni di quel decennio, suona già come personale, nonostante la sua natura dichiaratamente derivativa. Se i riferimenti al cinema dei fratelli Marx saranno esplicitamente trattati nel successivo La casa del diavolo, già in questo primo capitolo il regista si dimostra abilissimo nel mettere insieme i tasselli che andranno a costituire il suo indistinguibile marchio di fabbrica. Gli scaffali dell’emporio di Spaulding (che ha tatuato sul braccio il volto di John Wayne, “The Duke”) e, soprattutto, l’attrazione turistica che porta il suo nome, da soli raccontano – a loro modo – decenni di storia americana riletta attraverso i filtri dell’orrore e della cronaca nera: dai maniaci Ed Gein e Albert Fish, realmente esistiti, fino alla mostra di teschi, lapidi, lupi mannari e uomini-coccodrillo. L’iconografia stessa del pagliaccio, poi, richiama direttamente la connotazione malvagia che questa figura è andata formandosi negli Stati Uniti durante tutto il Novecento e che ha trovato il suo culmine nelle gesta criminali del serial killer John Wayne Gacy e del suo alter ego Pogo the Clown1. Tale maschera (e più in generale il concetto di maschera tout court, come vedremo più avanti) sembra una vera e propria ossessione per Zombie: oltre a tornare più volte in La casa dei 1000 corpi, la ritroveremo sul volto di un Michael Myers ancora bambino in Halloween. The Beginning e in 31, dove troneggia a partire dal teaser-poster promozionale. E se il sequel La casa del diavolo, epurato di qualsiasi connotazione fantastica, rimane a oggi il film meno esplicitamente horror (almeno in senso stretto) del regista, lo si deve anche all’assenza quasi totale di feticci e icone che possano richiamare alla mente quella dimensione di orrore del film precedente: questo perché Zombie allarga a dismisura i propri orizzonti e le proprie ambizioni lavorando sui generi – il western innanzitutto, ma anche il noir e il road movie – e lasciando che siano essi stessi a trasformarsi in luoghi della memoria, in cinema. In questo punto di non ritorno dell’immaginario non mancano ovviamente elementi degni di nota per l’analisi affrontata in questa sede: basti pensare solamente al villaggio di frontiera in cui è situato il bordello di Charlie Altamont, con le sue insegne porno al neon e le gigantografie pop di Gesù Cristo; o alle maschere (di nuovo) di pelle umana che Otis B. Driftwood costringe a indossare alle sue vittime. Ma qui è come se i riferimenti alla cultura popolare di cui si nutre questo cinema si dovessero cercare altrove: nelle sterminate highways di provincia, per esempio, o nei ruoli impersonati dai protagonisti, nel loro andare incontro a un destino a senso unico. Il progetto del remake di Halloween, invece, sembra fatto apposta per assecondare questa magnifica ossessione nei confronti dell’oggetto: in Halloween. The Beginning è il film in sé a diventare maschera, riflettendo sul concetto stesso di rifacimento e dimostrando uno spessore teorico che è vano cercare in prodotti analoghi. La differenza sostanziale con l’originale di John Carpenter, almeno in termini puramente narrativi, risiede infatti in tutta la prima parte, in cui Zombie riscrive da zero l’infanzia del giovane Michael Myers. Dal momento della sua fuga dall’ospedale psichiatrico in poi, invece, è come se il suo film indossasse la maschera del capostipite del 1978, ripercorrendone la stessa follia sanguinaria per le strade di Haddonfield. Al contrario, in Halloween II è la lunga sequenza d’apertura nell’ospedale a rifarsi direttamente al primo sequel, Il signore della morte (1981) di Rick Rosenthal, inserendolo all’interno di una dimensione onirica per poi lanciarsi verso territori inediti e più sperimentali, facendone di fatto un banco di prova per il successivo Le streghe di Salem. In definitiva, in questo dittico l’utilizzo del feticcio-maschera va ben oltre una semplice messa in scena dell’oggetto fisico in questione, che tuttavia non manca mai di fare capolino in diverse sequenze a esso dedicate: dopotutto, la festa di Ognissanti è anche il trionfo dell’oggettistica horror, degli scheletri appesi in giardino e dei costumi. Tutte cose che Rob Zombie filma con un occhio palesemente innamorato, senza per questo dimenticare la componente teorica del suo progetto: non è allora un caso che, tra tutte le icone horror degli anni Ottanta, il personaggio di Michael Myers (insieme a Jason Voorhees della saga inaugurata da Venerdì 13 [1980]) sia indubbiamente quello più legato al concetto di maschera e non all’attore che vi si nasconde dietro (a differenza di un Freddy Krueger, da sempre connesso alla fisicità di Robert Englund). Le streghe di Salem segna, in qualche modo, una chiusura del cerchio, un ritorno alle origini. Si (ri)comincia dalla musica, infatti; o meglio, dal disco vero e proprio. Il deus ex machina di tutta la vicenda è un vinile la cui melodia sinistra, ripetitiva e agghiacciante indirizzerà la protagonista (e con lei tutte le discendenti degli abitanti dell’antica Salem) in un tunnel di maledizione e dannazione, fino al visionario finale. Il disco diventa quindi un personaggio a sé stante di una pellicola incredibilmente astratta e inafferrabile, in cui la dimensione sonora sembra sostituire la scrittura stessa facendosi promotrice di eventi e sviluppi narrativi. Ma non c’è soltanto questo: rifacendosi parzialmente all’iconografia black metal di matrice scandinava, Zombie dà libero sfogo al proprio talento visionario per ribaltare il significato delle simbologie religiose – spesso al limite della blasfemia (si pensi all’ultima inquadratura, con Sheri Moon trasformata in una statua oltraggiosa della Madonna) – e per omaggiare dichiaratamente certo cinema horror espressionista degli anni Settanta, soprattutto per quanto riguarda la scenografia degli ambienti e le mostruose creature incappucciate nella sequenza a teatro.