Halloween The Beginning. Manuale per uccidere i propri padri
Riccardo FassoneI titolisti italiani godono in genere di una fama deteriore. Sono spesso oggetto di derisione per le proprie goffaggini (Prima ti sposo poi ti rovino [2003], Se mi lasci ti cancello [2004]) e finiscono per essere il parafulmine per le molte storture della distribuzione cinematografica nazionale. Con gli horror stranieri, poi, non si contano i casi di totale arbitrio. Se i progenitori sono A Venezia… Un dicembre rosso shocking (1973) e Non aprite quella porta (1974; tra l’altro: quale porta?), sono gli slasher degli anni Ottanta a subire le più bizzarre mutazioni: Friday the 13th Part 2 diventa L’assassino ti siede accanto (1981), mentre The House on Sorority Row si trasforma nel più pruriginoso Non entrate in quel collegio (1983). Per lo più, di fronte alla tendenza denotativa dei titoli americani (The Texas Chainsaw Massacre, A Nightmare on Elm Street), i titolisti italiani scelgono gli svolazzi poetici (Nightmare. Dal profondo della notte [1984]) o, con frequenza sorprendente, l’imperativo (Non entrate in quella casa [1980], Non aprite quel cancello [1987]). Tra i casi in cui l’eclettismo dei titolisti ha qualche valore ermeneutico, Halloween. The Beginning è certamente uno dei più interessanti. Il terzo lungometraggio diretto da Rob Zombie guadagna, nella versione italiana, il suffisso The Beginning, mentre nella versione originale, camuffato da remake rispettoso di una delle pietre miliari del New Horror, è solo Halloween. Proprio a partire da quella particella apparentemente insignificante, ghiribizzo di un anonimo titolista o capriccio di marketing di un distributore, si intravede l’anomalia del remake di Zombie, il suo essere un oggetto eccedente e irrispettoso al cospetto di un antenato tanto nobile. Pier Maria Bocchi non sbaglia quando scrive in una recensione apparsa su Cineforum che «l’Halloween dei nostri tempi deve giustamente essere più robusto di quello di Carpenter, meno sottile e morboso e strisciante. Ha una minore eleganza compositiva ma una maggior furia». Ma non è tutto qui. L’aggiornamento è solo una delle operazioni messe in atto da Rob Zombie rispetto al proprio riferimento, e forse la meno interessante. Certo, il film è più solido, più contemporaneo, più violento. E ancora, è in tutto e per tutto un film di Zombie, con i suoi feticismi ricorrenti (la maglietta dei Kiss, Don’t Fear The Reaper dei Blue Oyster Cult) e il suo ostinato manierismo (la cella piena di maschere, la famiglia white trash al limite della parodia). Tuttavia, non è solo un remake d’autore o un aggiornamento meno mal riuscito di molti altri, ma un’operazione complessa e affascinante di smontaggio e rimontaggio della materia narrativa carpenteriana, all’interno della quale convivono la citazione e lo sberleffo, l’espunzione e l’espansione. Halloween. The Beginning è una macchina perfetta – l’Urtext di Carpenter – fatta a pezzi senza riverenze e riassemblata senza libretto di istruzioni. Si è detto di quel The Beginning e del suo valore; iniziamo dunque da qui. Il lavoro di Zombie sul tessuto narrativo del film di Carpenter è apparentemente piuttosto semplice. Un’espansione che, a volerla definire in modo meno lusinghiero, sembra essere un gonfiaggio artificiale di una materia di per sé molto sottile. Halloween (1978) è, infatti, il film-formula per eccellenza, un racconto minimo a cui sono appesi personaggi che sono poco più che funzioni narrative. Non un bozzetto, ma uno schema, una mappa fatta di linee tirate con il righello e destinata, proprio per questa natura progettuale, a diventare il punto di partenza dell’horror americano degli anni Ottanta. Zombie insuffla l’intera vicenda con un bizzarro prologo in cui convergono grossolanità sociologiche (la famiglia sfasciata, il patrigno violento, il bullismo) e una sorta di parodia della psicanalisi di cui Malcolm McDowell è un interprete perfetto (o disastroso, a seconda del punto di osservazione). Eppure, è proprio questo prologo, questo beginning così squinternato a fare del film un oggetto cinematografico eccezionale. Zombie non solo gonfia la materia carpenteriana – un’espansione già vista in altri remake horror, si pensi a Le colline hanno gli occhi (2006) – ma la fa esplodere letteralmente. Ogni tratto del canovaccio d’origine è amplificato fino a diventare irriconoscibilmente distorto: le maschere di Michael non sono una, ma mille, l’accenno psicanalitico presente in Halloween diventa un carnevale di rimandi via via più assurdi, la figura quasi disincarnata del boogeyman di Carpenter è qui un wrestler che finisce per fare a pugni con Big Joe Grizzly (Ken Foree), la famiglia di Michael – a partire da Sheri Moon Zombie – è una costellazione di luoghi comuni su quell’America profonda che, nel cinema di Zombie, è essa stessa uno sconfinato tropo narrativo. In quel The Beginning, circa tre quarti d’ora di preparazione al remake, Zombie mette le cose in chiaro: non ci sarà rispetto per il minimalismo carpenteriano, Halloween deve essere fatto deflagrare e ricostruito a partire da brandelli irriconoscibili. La maschera bianca di Myers trasformata in un grottesco patchwork. Dunque un’esplosione narrativa, non una ricomposizione a partire dallo schema Halloween, né un suo ricalco calligrafico, ma un edificio sbilenco che sovverte, parodizza, trasforma in paradosso il progetto di Carpenter. A puntellare questa operazione contribuisce la costruzione di Michael Myers, la cui somiglianza iconografica con l’uomo nero del 1978 – stessa tuta, stessa maschera, stesso coltellaccio – serve unicamente a rimarcare una distanza in ogni altro tratto. Il boogeyman carpenteriano, prototipo dei molti psicopatici degli slasher a venire, è espressione di una politica autoriale precisa. Uccide adolescenti innamorati, è l’agente di un ordine morale che persegue spietatamente, incapace di empatia, falcidiando personaggi al più abbozzati, benzina per il motore narrativo del film. Il maniaco di Halloween detta la linea della paradossale politica dello slasher: una società che voglia essere moralmente irreprensibile – niente sesso senza matrimonio, niente birre, niente droghe, niente feste, niente rock’n’roll – deve liberarsi dei propri giovani. Nel film di Carpenter la psicanalisi di grana grossa (il maniaco è il paterno di Laurie e delle altre ragazze che trovano la morte per sua mano) nasconde una politica sottile: Michael Myers è agente di un ordine repressivo, il sogno proibito di ogni conservatore. Il Myers del 2007 è, invece, un killer programmaticamente dis-ordinato. Uccide senza pietà chi gli aveva dimostrato amicizia (il custode Danny Trejo), sparge organi e budella (in questo senso il Myers originale era sia ordinante che peculiarmente ordinato) e ha una motivazione da mostro infelice della Universal: ricongiungersi con l’amata sorella. La politique dell’autore Zombie è il disordine, un bagno di sangue che non dimostra nessuna tesi, se non che il sangue non è mai abbastanza. Il Michael Myers del 2007 ha in programma di uccidere, oltre a uno stuolo di giovani, il proprio padre carpenteriano. In questo senso, Zombie compie un lavoro straordinario soprattutto rispetto all’ultima sequenza del modello. Se, nel 1978, Laurie trovava le amiche morte su un palcoscenico allestito dall’assassino con la pietra tombale della madre, la zucca illuminata e il giovane appeso per i piedi, nel 2007 Myers diventa parte di una rappresentazione che è immediatamente parodistica. Lo scantinato con la lapide e il cadavere dell’amica sembra uscito da un videoclip dei White Zombie – per l’appunto – mentre il mostro, che si toglie la maschera e si fa buggerare da Laurie, che finisce per accoltellarlo, è una specie di boogeyman mancato, addirittura goffo, non più l’angelo della morte carpenteriano, né un suo eventuale aggiornamento, ma un’irrispettosa caricatura. Tutti i personaggi – Myers, Loomis, lo sceriffo Brackett – nel film di Zombie sembrano muoversi come dilettanti a cui è stato affidato un copione troppo confuso, irrimediabilmente, di nuovo, disordinato. È possibile pensare a Rob Zombie come a un autore politico. Meglio, è possibile pensare a Rob Zombie come a un autore con una propria politica, ovvero un autore la cui retorica e il cui stile dicono qualcosa sul cinema e sullo stato del cinema contemporaneo. È evidente in La casa del diavolo, in cui un’intelligenza profonda dei luoghi narrativi e stilistici della New Hollywood è costantemente messa in discussione da un umorismo deviato, da un gusto infantile per il grottesco. Halloween. The Beginning è però il film più politico di Zombie. Meglio, è il film che rappresenta più pienamente la sua politica autoriale. E, curiosamente, l’autore cinematografico Rob Zombie è agli antipodi rispetto al musicista. Se i White Zombie e, più tardi, il Rob Zombie solista, hanno percorso quasi filologicamente le tracce di un certo shock-rock, ibridandolo con le icone di una tradizione culturale tutto sommato unitaria – da un lato Russ Meyer, dall’altro José Mojica Marins, in mezzo Il mostro della laguna nera (1954) – il regista Rob Zombie più che un provocatore è un sabotatore. Halloween. The Beginning è un film che non ha idoli né dei, nemmeno quello carpenteriano che dovrebbe avere per contratto, ma opera sulle icone dell’horror contemporaneo negandone di continuo la rilevanza politica. Così il Myers carnefice di coppiette, emanazione di una società repressiva, angelo sterminatore della buona borghesia bianca americana, si trasforma in maschera patetica, sberleffo di qualsiasi idolatria verso quel cinema, del quale sembra solo saper dire che è invecchiato peggio di quanto pensiamo. Con Halloween. The Beginning Rob Zombie opera un affascinante movimento autolesionista, trasformando Michael Myers, John Carpenter, lo slasher, l’horror nostalgico e passatista, i Kiss e i Blue Oyster Cult, Ken Foree e Sid Haig, insomma l’armamentario del suo cinema, in una barzelletta che non fa ridere, mostrandone l’inconsistenza e l’inutilità. Nel 2007, a vent’anni da Soul Crusher, il primo disco dei White Zombie, Rob Zombie uccide finalmente il proprio Samuel Loomis.
Cast & Credits
Titolo originale: Halloween; regia: Rob Zombie; sceneggiatura: Rob Zombie; fotografia: Phil Parmet; scenografia: Anthony Tremblay; montaggio: Glenn Garland; musiche: Tyler Bates; interpreti: Scout Taylor-Compton (Laurie Strode), Malcolm McDowell (Dr. Samuel Loomis), Brad Dourif (Lee Brackett), Tyler Mane (Michael Myers), Daeg Faerch (giovane Michael Myers), Sheri Moon Zombie (Deborah Myers), Danielle Harris (Annie Brackett), William Forsythe (Ronnie White), Udo Kier (Morgan Walker), Danny Trejo (Ismael Cruz), Tom Towles (Larry Redgrave), Hanna Hall (Judith Myers); origine: Usa, 2007; durata: 109’/121’ (unrated director’s cut); home video: dvd e Blu-ray Warner/Key Films; colonna sonora: Halloween, Hip-O.