L’eterno richiamo all’orrore è una sirena cui Avati non può sottrarsi. Riecheggia nelle cavità più tumultuose del suo animo e ne solletica le ancestrali paure con matematica puntualità. Come un metronomo che frusta e scandisce un’ossessione profonda, richiama l’autore alle sue origini esperienziali (le terrificanti tradizioni orali del Polesine), alla sua formazione letteraria esoterica (da Il mattino dei maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier in giù) e al suo cinema più traumatico (il gotico padano) una volta al decennio, punteggiando una carriera all’insegna della drammaturgia agrodolce con affondi verticali nell’inquietudine, nel mistero, nel sangue. Da sempre razionalmente intenzionato a prendere le distanze dal genere, Avati ne è irresistibilmente attratto a livello inconscio e preterintenzionale, secondo il principio magnetico proprio dei protagonisti di queste storie al nero: come lo Stefano di La casa dalle finestre che ridono (1976), lo Stefano di Zeder (1983), la “Lei” di Il nascondiglio (2007) e il Furio Momenté di Il signor Diavolo, l’autore fiuta il pericolo (l’insuccesso al botteghino) e avverte il disagio (il confronto con i propri fantasmi), ma non può fare a meno di restare, continuare, andare fino in fondo. Così, dopo la cocente delusione economica di Il nascondiglio, nel 2016 torna a scrivere un copione all’insegna del terrore assieme al fratello Antonio e al figlio Tommaso. La storia è stuzzicante, ma acerba: la struttura drammaturgica embrionale e l’ingenuo e anacronistico epilogo – un parto demoniaco che occhieggia fuori tempo massimo a Rosemary’s Baby. Nastro rosso a New York di Roman Polanski (1968) – determinano ben sei rifiuti di altrettanti distributori, che suonano le campane dell’allarme. Ma Avati ha ormai sentito il richiamo, quel richiamo, e deve trovare il modo di trasformare in materia filmica la sua rinnovata ossessione. Nel 2018 Il signor Diavolo diventa così un romanzo1, avente una struttura ben più solida dello script d’origine e un finale enigmatico, buio, sospeso, con il protagonista – un ispettore del Ministero di Grazia e Giustizia mandato a Venezia per indagare sulle presunte responsabilità del clero nell’omicidio di un ragazzino compiuto da un coetaneo, plagiato dalle teorie del sagrestano e di una suora – rinchiuso nelle viscere della chiesa dall’ambiguo sagrestano e la conferma di una teoria oscena: nella vittima, effettivamente, albergava il Diavolo.
Dal romanzo a un nuovo script il passo è breve, istintivo, inevitabile. I tre Avati elidono le prime 40 pagine del romanzo – corrispondenti all’amara e traumatica backstory sentimentale del protagonista – e modificano nuovamente il finale, inserendovi un colpo di scena spiazzante: poco prima che la lapide a centro navata si richiuda, precipitando Furio nel buio della morte, di fronte ai suoi occhi appare il piccolo Carlo (l’accusato di omicidio), i cui denti – simili a quelli del maiale – ne rivelano la natura demoniaca. È una chiusa disturbante, apocalittica, disperata, che riafferma la viscerale predisposizione dell’autore all’orrore e le sue straordinarie capacità drammaturgiche nell’architettura del mistero.
Dalla carta allo schermo il passo è, se possibile, ancor più breve. Avati riconvoca i luoghi, i volti e le figure del suo miglior gotico padano e ripercorre à rebours il tragitto che lo conduce, ancora una volta, alle pendici delle sue paure. Si gira soprattutto tra le paludi di Comacchio (luoghi di La casa dalle finestre che ridono) e Venezia (città di mistero e ancestrale fascinazione), con collocazione storica nei primi anni Cinquanta e campionario di atmosfere che, tra nebbie e dominanti plumbee, avvicina la messa in scena a L’arcano incantatore (1996). Accanto ai giovani protagonisti, a Gabriel Lo Giudice e a una Chiara Caselli mai così enigmatica e seducente si muovono gli attori della factory, in un affascinante viaggio nella memoria del gotico padano: il funereo esorcista interpretato da Alessandro Haber spalanca voragini mistery, il tetro sacerdote cui presta il volto Lino Capolicchio precipita la rappresentazione del clero nella punitiva oscurità preconciliare tanto “cara” all’autore, il maligno sagrestano di Gianni Cavina va a rimpolpare le fila degli ecclesiastici ambigui e deviati del terrore avatiano. La macchina da presa adotta costantemente sguardi dal basso, da una parte deformando goticamente le prospettive – come già in Il nascondiglio, e anche in questo caso il grandangolo aumenta la straniante decostruzione spaziale – e dall’altra contrappuntando lessicalmente le visioni di un Diavolo che, come detto, si fa bambino. Ad accompagnare l’austero impaginato visivo, una soundtrack (a firma Amedeo Tommasi, compositore della prima stagione di incubi avatiani2) fatta di sonorità stridenti e disturbanti, con improvvisi sobbalzi a spezzare le catene di un’opprimente inquietudine. E a saldare il côté rétro alle esigenze di contemporaneità del mercato, ecco il montaggio in costante andirivieni temporale (tre livelli di narrazione) di Ivan Zuccon e le scardinanti irruzioni splatter e gore di Sergio Stivaletti, consumate tra fiotti di sangue e primi piani su volti di cadaveri deorbitati.
Le campagne assolate e cocenti, il clero rituale e punitivo, l’insinuazione del soprannaturale e dell’imponderabile. E poi, ovviamente, le fole contadine, trait d’union di tutto il cinema del terrore avatiano e legame indissolubile con la tradizione orale e rurale del Delta Polesano. A Lio Piccolo (borgo della laguna veneta) il tempo è immobile, imprigionato nella ragnatela di superstizioni e credenze popolari che lo costringono a una stasi che odora di maledizione.
«Nella cultura contadina il maligno viene associato col deforme»: inevitabile, dunque, che il piccolo Emilio, bimbo con peli duri «come quelli del maiale», sia considerato – anche e soprattutto dalla chiesa – il malefico frutto di un accoppiamento insano, mostruoso. «È nato così per lo sperma del verro»: i dialoghi di Il signor Diavolo – come quelli di ogni precedente atto del gotico padano – sono irrorati dalle malsane credenze di un mondo che non c’è più, se non nella memoria di chi, come Avati, lo ha esperito direttamente. Un mondo sospeso, concreto eppure trascendente, abominevole eppure sublime, tramandato dai nonni ai nipoti riunitisi attorno a un focolare, in un’educazione alla paura d’altri tempi. E ritrasmesso da Pupi Avati al suo pubblico riunitosi di fronte a uno schermo, in un’educazione alla paura insospettabilmente contemporanea e innegabilmente affascinante.
Note
1 Avati Pupi, Il signor Diavolo, Ugo Guanda Editore, Parma 2018.
2 Amedeo Tommasi ha firmato le colonne sonore di Balsamus. L’uomo di Satana (1968), Thomas… gli indemoniati (1969), La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1975), La casa dalle finestre che ridono (1976), Tutti defunti… tranne i morti (1977) e Le strelle nel fosso (1978).
CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati, Antonio Avati, Tommaso Avati; sceneggiatura: Pupi Avati, Antonio Avati, Tommaso Avati; fotografia: Cesare Bastelli; scenografia: Giuliano Pannuti; costumi: Mary Fassari; montaggio: Ivan Zuccon; musiche: Amedeo Tommasi; interpreti: Gabriele Lo Giudice (Furio Momentè), Filippo Franchini (Carlo Mongiorgi), Massimo Bonetti (giudice Malchionda), Lino Capolicchio (Don Zanini), Chiara Caselli (Vestri Musy), Gianni Cavina (sagrestano), Alessandro Haber (l’esorcista), Andrea Roncato (professor Rubei); produzione: DueA Film, Rai Cinema; origine: Italia, 2019; durata: 90’; home video: inedito; colonna sonora: inedita.