"Il cuore altrove". Candida me capiet, capiet me flava puella
Mariangela Sansone
Bologna evocata come un ricordo lontano, virato nelle sfumature cangianti del grigio, quello tipico delle vecchie fotografie di una volta, consunte dal tempo e dalle mani che troppe volte le hanno manipolate per guidare lo sguardo verso un’indimenticabile emozione. Quelle stesse fotografie della Bologna di un tempo andato e le immagini della vita in movimento dei primi anni Venti scorrono nei titoli di testa di Il cuore altrove (2003). La storia è quella di Nello, trentacinque anni, professore romano di greco e latino, che ottiene la sua prima cattedra in un liceo bolognese ed è pertanto costretto a lasciare la città natale accompagnato dal beneplacito dei genitori, in particolare del padre Cesare Balocchi, sarto pontificio e viveur, dedito ai piaceri amorosi sotto lo sguardo sornione, ma attento, della moglie.
Nello è timido, impacciato. «Di genio ne avrebbe fin troppo… ma gli manca una dea che sappia essere compagna fedele e appassionata per l’intera esistenza»: così Cesare lo presenta in una lettera al convitto che ospiterà il suo figlio ormai unico, dopo la morte del fratello gemello. Il ragazzo avverte il peso della responsabilità di dover ereditare la bottega dei genitori e trovare una donna per mettere al mondo un erede della famiglia Balocchi. Ne è spaventato, è un onere troppo pesante per lui, abituato a vivere tra le lettere e gli autori del passato, imbarazzato alla sola idea di dover insegnare in un collegio misto. Novello compagno di stanza è il rumoroso Domenico Ricciò, barbiere e parrucchiere da uomo, esatta antitesi del posato professore, che tenta da subito di aiutarlo a superare i timori nei confronti del gentil sesso presentandogli la ragazza che si occupa della manicure nel suo negozio – sfacciata e smaliziata, ma che liquida velocemente il giovane pavido – e poi la sorella «non vedente!» della sua florida e procace amante. Ma questa volta è il ragazzo a trovare la donna priva di qualsiasi attrattiva.
I giorni scorrono tra i versi di Lucrezio e Ovidio, sospesi tra la ricerca del significato della vita e al contempo della morte, interrogandosi sui motivi che spinsero al suicidio il primo, il giovane poeta latino, tra gli animi più sensibili e misteriosi di tutta la letteratura classica che, da sempre, esercita un certo fascino sul professore. Forse ciò che seduce la mente di Nello è proprio quel limbo pacifico, sul crinale tra l’esistenza e la sua negazione, in continuo bilico tra gioie e dolori che danno senso alla vita o, al contrario, la privano di ogni significato e valore: «Tu esperta musa Calliope mostrami il cammino verso il candido traguardo dell’ultima meta», recita uno dei versi del De rerum natura di Tito Lucrezio Caro.
Eppure per Nello, nel profondo del suo cuore, c’è qualcosa da cercare spasmodicamente, quel qualcosa che regala all’esistere una luminosità particolare e unica: il senso della vita altro non è che l’amore. «Candida me capiet, capiet me flava puella» (Una fanciulla dal colorito chiaro mi conquisterà, una fanciulla bionda): i versi degli Amores di Publio Ovidio Nasone stampati nella mente, la ricerca di un amore puro e assoluto infervora il giovane Balocchi. Un sentimento dirompente che divampa quando nella sua vita irrompe Angela Gardini, rampolla della Bologna bene, conturbante e pericolosa, divenuta cieca in seguito a un incidente. Angela è una furia tempestosa, sconvolge la vita di Nello che, totalmente rapito dalla sua freschezza, se ne innamora perdutamente. Il professore è uno strumento nelle mani della giovane Gardini, ancora presa dal suo ex fidanzato, dileguatosi dopo l’improvvisa cecità e prossimo a convolare a nozze. L’illusione di un amore, l’idea di essere ricambiato nel suo sentimento, spingono Nello a portare avanti la storia, nata malsana, lasciando alla ragazza piena libertà di umiliarlo e usarlo nell’intento di ingelosire l’uomo che l’ha abbandonata e di tornare in quella società borghese di piccoli scandali, pettegolezzi e chiacchiere sussurrate che era solita frequentare prima dell’incidente. Tutto gioca a sfavore del professore, messo in guardia dal padre di lei e da coloro che la conoscono, ma ormai accecato a sua volta da quel sentimento che annebbia lo spirito e fa scoppiare il cuore: ama incondizionatamente di un amore a senso unico, devastante.
La poesia è quella lieve di chi dipinge con candore e pudicizia l’animo umano, come Avati sa fare con grande maestria e delicatezza. È il lirismo mesto e soffuso del quotidiano, di chi ha il “cuore altrove”, lontano dal comune sentire, in precario equilibrio tra miraggio e realtà; il protagonista è affascinato dal sogno che culla, protegge e rincorre, sempre e comunque. Avati tratteggia i personaggi della sua storia in punta di matita e dalle pagine emergono creature quasi sveviane. Nello è molto vicino all’Emilio Brentani di Senilità, che «a trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto»1, ma al contrario del Brentani è un delizioso sognatore, la cui esistenza è venata da un continuo senso di incertezza. Come l’Angiolina sveviana, anche Angela è totalmente concentrata su di sé: cieca non solo a causa della malattia, ma anche per scelta, è incapace di vedere oltre, noncurante dei sentimenti altrui, indolente e disinteressata di tutto ciò che non faccia parte del suo ristretto mondo. «La cosa che più mi manca da quando sono cieca è il potermi guardare ogni giorno», confessa a Nello, incantato davanti a quel mistero femminile così raggiante, così vivo, pur riconoscendone una certa meschinità.
Avati si approccia ai personaggi con grazia e tenerezza, ne racconta i fremiti e le palpitazioni, le gioie, le illusioni. Con dolcezza e rispetto canta la fragilità dell’animo di Nello e l’energia sfrontata della capricciosa Angela, senza mai eccedere abdicando a facili moralismi. Una malinconica primavera è la protagonista di questo racconto avatiano. La primavera di un individuo che scopre l’amore e il sesso, con le illusioni e le disillusioni che spesso si accompagnano ai sentimenti, soprattutto se non condivisi. La primavera di una creatura fedele a se stessa, che canta fuori dal coro, ma si batte per i suoi desideri e ama senza riserve. Tra la rimembranza e i racconti di un tempo, Il cuore altrove è la triste chimera di un uomo e del suo abbaglio affettivo, il racconto struggente di chi rincorre a occhi chiusi l’amore. Il professore è cieco alle avvisaglie della ragione e l’unica parola che ascolta è il battito del suo muscolo cardiaco sulle struggenti note di Riz Ortolani, una lirica che si fa ancora più alta, traboccante di tenerezza, nella notte d’amore in cui «non sono mai stato così felice» e in quel finale che commuove sciogliendo il cuore mosso da palpiti febbrili ma rivolto a un altrove, l’impossibile altrove del professor Nello Balocchi.
Note
1 Svevo Italo, Senilità, Dall’Oglio, Milano 1971, p. 11.
CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Simona Migliotti; costumi: Mario Carlini, Francesco Crivellini; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Neri Marcorè (Nello Balocchi), Vanessa Incontrada (Angela), Sandra Milo (Arabella), Giulio Bosetti (dottor Gardini), Nino D’Angelo (Domenico), Giancarlo Giannini (Cesare Balocchi); produzione: Antonio Avati per DueA Film, Rai Cinema; origine: Italia, 2003; durata: 107’; home video: Blu-ray inedito, dvd 20th Fox; colonna sonora: ConcertOne (compilation Riz Ortolani. La rivincita di Natale/Il cuore altrove).