Diabolus in pellicula. Scavo nell’occulto di "L’arcano incantatore"
Andrea Scarabelli«Una fola esoterica delle nostre campagne»: così nel 1996 i titoli di testa annunciano nelle sale cinematografiche L’arcano incantatore, un’autentica fiaba occulta che ci conduce nel mondo dello spiritismo e della demonologia, del Medioevo (per quanto ambientato nel XVIII secolo) e del fantastico, tra le brume di un castello dove un sacerdote scomunicato pratica magia cerimoniale. Alla rocca giunge il giovane Giacomo Vigetti, chiamato a sostituire lo scritturale Nerio, morto in singolari circostanze. Sin dal principio il suo è un viaggio iniziatico, molto simile a quello compiuto da Jonathan Harker nel Dracula di Stoker (1897): entrambi si articolano in due fasi – la prima in compagnia di altri viaggiatori e la seconda in solitaria – ed entrambi sono caratterizzati dalla presenza di messaggi provenienti dall’aldilà e dal dono di talismani protettori. Inoltre, il viaggio dello scritturale inizia di fronte a una civetta – animale misterico come pochi altri1 – in un ampio salone che fu l’ultima dimora di Jacopone da Todi.
Non ci troviamo più, insomma, nelle distese padane di La casa dalle finestre che ridono (1976), ma nell’oscurità di un maniero che si fa soglia tra due mondi, limes tra aldiquà e aldilà, ortodossia e spiritismo – autentica ossessione di Pupi Avati, che tra l’altro aveva già messo in scena una seduta spiritica in Thomas… gli indemoniati (1969). Una specie di terra di nessuno in cui finiscono i reietti, le converse cacciate dai conventi ma impossibilitate a tornare a casa, vecchi sacerdoti in odore di magia nera e giovani seminaristi libertini. Qui il sole sferzante è sostituito dal tenue baluginio di candelabri che illuminano immense biblioteche traboccanti di capolavori dell’esoterismo, messe insieme dal misterioso “Monsignore” nel corso di una vita, simili a quelle evocate da Mircea Eliade in Il segreto del dottor Honigberger2 e da H. P. Lovecraft in Il caso di Charles Dexter Ward3: immensi labirinti borgesiani che in qualche modo materializzano i dedali interiori di Nerio/Monsignore.
Il Medioevo, d’altronde, ha sempre guidato l’immaginazione di Avati. Lui stesso l’ha dichiarato, aggiungendo come L’arcano incantatore sia stato «frutto di un lunghissimo e intenso lavoro di ricerca e documentazione»4. Molti dei suoi elementi sono autentici – in primis, il libro attorno a cui ruota la narrazione, la Pseudomonarchia daemonum del medico e demonologo olandese Johann Weyer (1515-1588), allievo del Cornelio Agrippa di De Occulta Philosophia5, che frequentò tra il 1530 e il 1534 e di cui sempre difese la memoria. Weyer è passato alla storia per il suo De praestigiis daemonum et incantationibus ac veneficiis, concluso agli inizi del 1562 e pubblicato a Basilea l’anno successivo.
Giudicato da Freud tra i dieci libri più importanti di sempre, il De praestigiis dimostrava come le streghe fossero innocenti. In opposizione al Malleus Maleficarum di Sprenger e Kramer (1487), criticava i processi alle streghe da un punto di vista teorico, rifiutando l’idea stessa di strega (una donna la cui immaginazione era infestata dai demoni), metodologico, puntando il dito contro gli approcci utilizzati dagli inquisitori, e giudiziario6. Se era d’accordo con i teorici della stregoneria – che si basavano sull’Agostino di De Civitate Dei contra paganos, De divinatione daemonum e De doctrina Christiana – secondo cui i demoni erano angeli caduti, aggiungeva come i loro poteri fossero talmente smisurati da non sapere che farsene dell’aiuto di uomini e donne, dirimendo la questione dei famigerati “patti” una volta per tutte. Tradotto in tedesco e in francese, del libro uscirono otto edizioni, mentre l’autore era in vita, di volta in volta arricchite con dettagli processuali e appendici. Ecco i suoi argomenti, stando alla divisione in sei volumi del 1566: 1) poteri diabolici; 2) maghi; 3) streghe; 4) indemoniati e vittime di malefici; 5) guarigione degli indemoniati; 6) punizioni da infliggere a streghe e maghi.
L’edizione del 1577 (anno in cui esce anche il De lamiis, che sviluppa le tesi del terzo tra i libri citati) reca una novità, sin dal titolo: De praestigiis daemonum & incantationibus ac veneficiis libri sex, postrema editione quinta aucti & recogniti. Accessit Liber apologeticus, & Pseudomonarchia daemonum7. Vi si affaccia, per la prima volta, il “libro maledetto” dell’Arcano incantatore, che qualche ingenuo crede tutt’ora trattarsi di uno pseudobiblium… Il testo collocato in appendice da Weyer è una lunga lista di demoni «sottratta all’archivio degli acherontici servitori»8 e redatta – come si legge nell’introduzione – a partire da un misterioso Officium spirituum, vel, Liber officiorum spirituum, seu, Liber dictus Empto. Salomonis, de principibus & regibus dæmoniorum. A celarsi dietro questa lunga designazione è in realtà il più celebre Lemegeton9, o Piccola chiave di Salomone, ampiamente noto nel Cinquecento.
Tuttavia, vi sono parecchie differenze tra l’originale e la trascrizione di Weyer. Anzitutto, la Pseudomonarchia omette di riportare i sigilli dei demoni, presenti nel Lemegeton, che annovera tra l’altro 72 entità, laddove la seconda ne include solo 69, di cui uno, Pruflas, assente nella Piccola chiave. Infine, la Goethia – sezione del Lemegeton da cui Weyer ha tratto i demoni – si apre con una sezione dedicata all’evocazione e al trattamento degli spiriti, assente nella Pseudomonarchia. Quali sono le ragioni di questi tagli? È Weyer stesso a rivelarcelo: «Affinché qualche indiscreto, troppo preso dalla curiosità, non osi imprudentemente imitare, […] in modo da eliminare completamente l’occasione del peccato»10.
Inutilizzabile a fine operativo, la Pseudomonarchia Daemonum farà ripetutamente capolino nella letteratura fantastica. Un esempio? Nel 1921 il cinquantunesimo demone del catalogo darà il nome al romanzo Gomòria di Carlo H. de’ Medici, presentandosi incarnato in una donna misteriosa. Nell’introduzione al romanzo può leggersi: «Giovanni Wierus di Brabante […] ha lasciato, oltre alle sue poderose opere di occultismo, anche un curioso trattato: Pseudomonarchia daemonum. […] In questo trattato l’inventario della falsa monarchia di Satana è minutamente steso come se l’autore lo avesse potuto consultare sul posto»11.
Grazie all’impegno di Mondadori, l’estratto del De praestigiis invade le librerie italiane nel 1994. È tradotto e curato da Pietro Pizzarri, studioso di angelologia e demonologia, nonché ideatore di una curiosa edizione del Necronomicon, lo pseudobiblium di Lovecraft12. Ebbene, due anni dopo questa prima – e unica – edizione italiana, lo troviamo in L’arcano incantatore, usato da Monsignore per cifrare le sue missive e da Nerio per compiere evocazioni e materializzazioni. Lo rivelano gli appunti rinvenuti da Vigetti nella sudicia soffitta dove viveva lo scritturale, vere e proprie citazioni del libro di Weyer. «Il primo re da evocare si chiama Bael, ed è il potere d’Oriente», esordisce una delle note luciferine di Nerio, parafrasando la Pseudomonarchia, che afferma: «Il primo re – che è del potere d’Oriente – si chiama Bael. Appare con tre teste di cui una è simile a rospo, un’altra a uomo e una terza a gatto. Parla con voce roca»13. Mentre un’altra trascrizione recita: «Il principe da evocare è Barbas, che è terzo nella gerarchia». Conosciuto anche come Marbas, il demone dell’Arcano incantatore – inutile dirlo – è il terzo citato nella Pseudomonarchia14.
Sono tutte faglie aperte sull’Altrove. In L’arcano incantatore si celebrano le nozze chimiche tra naturale e sovrannaturale, dimensioni reali e fantastiche a un tempo, nonché sempre realizzabili praticamente – ossia magicamente. La loro compresenza, che oscura la fiaccola di una Dea Ragione che vorrebbe tutto rischiarare, ha sempre affascinato Avati, cosmonauta di una «dimensione ultra-reale». A venticinque anni, come lui stesso ha rivelato a Claudio Bartolini e Ruggero Adamovit, «leggevo e rileggevo Il mattino dei maghi, un’antologia di eventi che hanno a che fare con l’inesplicabile, ma sono storicamente accertati. Si tratta di fatti storici che i due autori, Louis Pauwels e Jacques Bergier, raccontano perché non si spiegano»15. Sono i “fatti maledetti” di cui ha parlato George Langelaan (tra le fonti di Il mattino dei maghi), raccolti in magnifiche enciclopedie dell’immaginario come Il libro dell’inspiegabile (1977) di Jacques Bergier, The Book of the Damned (1919), Lo! (1923), New Lands (1931) e Wild Talents (1923) di Charles Fort16, la mitica rivista «Luce e Ombra», i reportage di Abraham Merritt sulle colonne dell’«American Weekly», gli studi di Colin Wilson e i Misteri d’Italia (1978) di Dino Buzzati.
Quelli appena citati sono solo esempi di un sovrannaturale che nella visione del mondo di Avati si salda a un cristianesimo antico e antimoderno, ancora aperto al mistero e non livellato a vacuo moraleggiare, come sembra andare di moda da qualche tempo a questa parte tra le alte gerarchie ecclesiastiche. Ecco perché amava leggere Cristina Campo, che si batté, inascoltata, contro il riformismo ecclesiastico, difendendo la dimensione rituale e liturgica della Chiesa dalle selvagge modernizzazioni del Concilio Vaticano II. «Il mio Dio» afferma il regista, «è misterioso, imperscrutabile, un Dio preconciliare»17. Un dio veterotestamentario, in grado di operare prodigi, aprendo nella realtà squarci di assoluto: «Sono stato educato a vedere il religioso come qualcosa di diverso, che non si muove nella nostra dimensione ma un po’ più in alto, e vive in un interregno tra la terra e il cielo o tra la terra e l’inferno. In ogni caso, ha una certa consuetudine con un altrove»18.
Una dimensione centrale nel film di cui stiamo parlando, come rilevato da Avati stesso: «L’arcano incantatore è decisamente metafisico, quello che maggiormente si confronta con una dimensione altra e ha degli intrecci che sono insondabili», vivendo «a stretto contatto con il soprannaturale e il misterioso»19. Al pari dell’oscura rocca di Monsignore, nelle sue parole lo schermo diventa soglia tra due mondi, o meglio tra due dimensioni, tra due modi di vivere la realtà – che è una, e una soltanto. Sembra di risentire le parole di Antonin Artaud, che in Sorcellerie et cinéma (1927) scriveva programmaticamente: «Il cinema è essenzialmente rivelatore di una vita occulta, con la quale ci mette direttamente in relazione. […] La nostra epoca è assai propizia per gli stregoni e per i santi, più propizia di quanto non sia mai stata. Tutto un mondo intangibile prende corpo. […] Se il cinema non vien fatto per tradurre i sogni o tutto ciò che nella veglia è in comunicazione con il Regno dei sogni, allora non ha senso»20. Idee che ci riportano direttamente ad Avati, secondo cui, al di là dello spavento e del colpo di scena, l’essenza del cinema di paura ha a che fare con un «un altrove in cui cercare una paura che non è razionale, realistica, riscontrabile nella vita». Un’esperienza che trascende il presente, rompendo i sigilli del qui e ora: «I film più spaventosi che andavamo a vedere da ragazzi […] alludevano a mondi fantastici e misteriosi in cui soprattutto l’aldilà veniva sempre evocato»21.
Ecco le vere radici del film del 1996, autentico quanto tragico iter iniziatico di Nerio che, dal rinvenimento casuale degli Arcani Maggiori alla Pseudomonarchia, ricevuta da un libraio tedesco, giungerà in un castello in cui tutto parla un linguaggio alchemico: dal buio delle fughe dei saloni (Opera al Nero, nigredo) alle vesti bianche e ai sudari (Opera al Bianco, albedo), fino al sangue del sacrificio ultimo (Opera al Rosso, rubedo). Per poi risorgere nell’ultima scena innanzi agli occhi allucinati di Vigetti, inservibile caput mortuum, scarto alchemico di una trasmutazione avvenuta, in una dimensione mediana ed ermetica, di cui L’arcano incantatore è immaginifica rapsodia. Ma qui lo schermo tace, e noi con esso, poiché, come recita la Pseudomonarchia Daemonum, riportando un’antichissima sapienza, «tu che operi il segreto dei segreti mantieni il segreto su queste cose»22.
Note
1 Sull’argomento cfr. Cattabiani Alfredo, Zoario, Mondadori, Milano 2001.
2 Ultima ed. it.: Edizioni Bietti, Milano 2019.
3 Ultima ed. in Lovecraft Howard Phillips, Tutti i racconti, Mondadori, Milano 2017.
4 Adamovit Ruggero, Bartolini Claudio, Il gotico padano. Dialogo con Pupi Avati, Bietti, I Libri di INLAND, Milano 2019.
5 Ultima ed. it.: Edizioni Mediterranee, Roma 2011.
6 Cfr. Hoorens Vera, Why did Johann Weyer write De praestigiis daemonum?, in «Low Countries Historical Review» vol. 129, 2014, pp. 3-24; Valente Michaela, Johann Wier. Agli albori della critica razionale dell’occulto e del demoniaco, Olschki, Firenze 2003.
7 Cfr. Hoorens Vera, op. cit., p. 6.
8 Weyer Johann, Pseudomonarchia Daemonum, a cura di Pietro Pizzarri, Mondadori, Milano 1994, p. 23.
9 Ora in Sabellicus Jorg, Magia pratica, vol. I, Edizioni Mediterranee, Roma 2001, pp. 87-134.
10 Weyer Johann, op. cit., p. 24.
11 De’ Medici Carlo H., Gomòria, Cliquot, Roma 2018, p. 12.
12 Pizzarri Pietro, Necronomicon, Atanòr, Roma 1993. L’autore ha confessato di aver ideato lui stesso questa versione, «riposo della mente» e blague. Cfr. Fusco Sebastiano, Storia del Necronomicon, Venexia, Roma 2002, p. 324.
13 Weyer Johann, op. cit., p. 24.
14 Ivi, p. 25.
15 Adamovit Ruggero, Bartolini Claudio, op. cit., p. 166.
16 Di questi libri è stato tradotto solo Il libro dei dannati (ultima ed. it.: Armenia, Milano 2001).
17 Adamovit Ruggero, Bartolini Claudio, op. cit., p. 166.
18 Ivi, p. 156.
19 Ivi, p. 190.
20 Ora in Artaud Antonin, Œuvres complètes, Gallimard, Parigi 1978, vol. III, pp. 66-67. Cfr. Cigliana Simona, Due secoli di fantasmi, Edizioni Mediterranee, Roma 2018, pp. 219-230.
21 Adamovit Ruggero, Bartolini Claudio, op. cit., p. 192.
22 Weyer Johann, op. cit., p. 58.