
Kathy aveva inviato un messaggio a Phil: «Sto entrando in sala operatoria, spero non sia colpa mia se ti sei ridotto così».
Phil posò il telefono sul tavolo. Era rannicchiato in un angolo del suo sottoscala nell’ultima parte di Notown, sotto una finestra dalla quale non entrava mai luce.
Phil Taverner viveva al numero 7 di Hyrt Street. Con lui bivaccavano altre tre persone. Il sole a Notown non si vedeva mai. Una città creata nel 2104 su un’unica strada lunga diciassette miglia. All’ultimo ghetto viveva Phil, con i suoi compari tossici. Mescalina, eroina, LSD, erano le droghe predilette da Phil, che si guadagnava da vivere compiendo piccole truffe.
Piatti marroni abbandonati nel lavandino, una luce fiacca che non penetrava mai, un vecchio urlava per strada in preda a un attacco di panico, i led di Los Angeles lontani centotrenta e passa miglia. E tra quei led c’era pure Kathy, ricoverata al Los Angeles Hospital, in attesa di un cuore nuovo. Un piccolo topo grigio, intanto, circumnavigava il sottoscala alla ricerca di qualcosa.
«Phil, dio mio, sei più brutto del solito! Nessuno lo direbbe che in un tempo lontano hai provato a fare l’attore. L’attore di cosa, poi?».
«Sì, un tempo lontanissimo. Lasciami in pace».
Phil stava parlando a Felix, l’unico della casa con cui ogni tanto, quando gli andava a genio, scambiava due parole.
«Porca puttana, Phil. Kathy, perché non sei da Kathy?».
«Cosa ci vado a fare?».
«Ma che… Cristo, Phil! Kathy sta per ricevere un cuore nuovo».
«Felix, ho distrutto tutto. Tutto quanto. Guardami, guardati. Guarda questa casa del cazzo. Ti sembro una persona che potrebbe essere amata da una come Kathy? Io non posso darle niente».
«Io però posso darti qualcosa, amico mio» aggiunse Felix.
«Cosa?».
«Una roba nuova, potentissima. Me l’ha data Ulrich poco prima di morire. Si chiama Mexal».
«La roba di Ulrich mi spaventa. Quale effetto farebbe?» rispose Phil scettico.
«È come un mix tra LSD e Mescalina. Una bomba allucinogena che ti manda direttamente in paradiso o al fottuto inferno» Felix fece il gesto dell’aeroplano che vola verso chissà cosa.
Phil si grattò con forza i pochi peli che aveva sotto al mento e guardò in alto. In alto non c’era niente. In basso non c’era niente. Ovunque c’era il niente. Questo pensò Phil.
«Non lo so, Felix. Non so se mi va».
Dietro quel “non so se mi va” c’era tutta la preoccupazione per l’operazione di Kathy. Ma meglio non far notare le tue insicurezze agli altri, diceva sempre Phil; aspetteranno solo il momento giusto per approfittarne.
«Ma che cazzo ti sta succedendo? Metti in bocca questa pasticca e fatti il segno della croce». Phil lo faceva sempre: ogni volta che ingeriva una droga, si faceva il segno della croce.
Prese la Mexal di colore giallo acceso e se la mise in bocca. Lasciò nuotare la pasticca nella saliva.
«Tra quanto tempo sentirò qualcosa?» chiese.
«È la prima volta anche per me, amico mio».
Erano le 19.03 e il cielo era una cloaca grigia. Guardando quel cielo, Phil pensava a Kathy. Al suo cuore acciaccato dalla malattia. E al fatto che ogni volta che prendeva una pasticca era come se la stesse uccidendo. È come se uccidessi la donna che amo ogni giorno, è una vita troppo dura, pensò Phil. Poi cominciò a sentirsi la testa pesante.
Eccoci, si disse Phil. Qualcosa sta succedendo. Kathy, ti sto uccidendo. Anche oggi.
* * *
Si chiamava Grand Hotel California. Nel corridoio del quarantunesimo un cameriere di nome Rob, che quella mattina aveva litigato con la moglie per colpa del suo vizio di giocare pesante al casinò, bussò alla stanza numero 561. Era la più grande dell’hotel, con spa privata, terrazzo panoramico e rifiniture in oro. Bussava con forza, ma nessuno aprì. Due ragazzi gli passarono accanto e lo spinsero. Gli cadde l’ennesimo bicchiere di champagne che portava in quella camera. Mentre si chinava per raccogliere i cocci di vetro, qualcuno aprì la porta e trovò Rob accovacciato per terra che se la prendeva con Dio.
«Chi è lei?» disse l’uomo, che indossava una vestaglia rossa con ricami color ocra.
«Sono… sono Rob, signore».
«Rob chi?».
«Signore, è la sesta volta che le porto da bere. Non mi riconosce?».
«Non ti ho mai visto» rispose l’uomo.
«Sig. Taverner, si sente bene? Ha gli occhi rossi ed è molto pallido».
Rob consegnò il vassoio nelle mani di Phil Taverner, che richiuse la porta e si voltò verso uno specchio. Si toccò più volte gli occhi, non credendo a ciò che vedeva. Era in forma, muscoloso, con tanti capelli sulla testa e una barba rasata al punto giusto. Dalla vestaglia aperta si intravedeva il pene, anche quello più in forma del solito. Poi si girò verso la camera e vide quattro donne dormire sul letto gigantesco posizionato al centro della stanza. Taverner sentì una suoneria squillare. Era il suo telefonino. Lo prese dalla tasca della vestaglia e rispose.
«Sig. Taverner, l’appuntamento è confermato alle 16.00 in punto al Grand Hotel California? Piano 2, sala eventi» era la voce di una donna. Squillante, con dizione perfetta.
«Lei chi è?» disse Taverner.
«Sig. Taverner, le ricordo che abbiamo un incontro importantissimo tra poche ore».
«Io… io non so a cosa tu ti stia riferendo!» e staccò il telefono. Corse in bagno e si sciacquò la faccia con violenza. Si guardò di nuovo allo specchio. Questo Mexal è potentissimo, si disse. Sembra la fottuta realtà delle cose. Intanto una delle ragazze si era svegliata. Si avvicinò a lui e, senza dire una parola, gli spostò la vestaglia, afferrò il pene e cominciò a succhiare. Il telefono di Taverner cadde per terra. Cristo, pensò, dove sono finito? La ragazza intanto lo guardava negli occhi e sorrideva. Quando concluse, chiese a Taverner se si sentisse bene.
«Sei pallido» gli disse.
«Mai stato meglio» rispose. «Però, non so dove mi trovo. Sai dirmelo?».
«Tu, Phil Taverner, attore hollywoodiano, sei in questa stanza con me a scoparmi per bene da ieri sera» disse la ragazza.
«Io un attore?» rispose Taverner.
«Sì, e anche piuttosto bravo. E adesso vestiti che hai un appuntamento per il prossimo film di Roger Santana, il più importante regista degli ultimi anni. Quasi quasi potrei innamorarmi di te».
Taverner se la scopò con tutta l’energia che aveva in corpo. Poi si buttò sotto la doccia e i pensieri gli accavallarono le sinapsi: Il mondo è ai miei piedi. Sono diventato Dio sulla terra. «Felix ti amo!» cominciò a urlare sotto la doccia.
Taverner non sapeva a cosa associare quello stato di realtà oltre la vita, ma pensò che non era importante. Era importante godere, si disse.
L’attore uscì dalla doccia, si vestì con i migliori abiti trovati nell’armadio, baciò la sua nuova amica e si avviò verso l’ascensore posizionato accanto a una finestra. Chiamò l’ascensore e si voltò a guardare fuori. Intravide una scritta enorme su un edificio bianco: Los Angeles Hospital. L’ascensore era arrivato ma Taverner restò imbambolato. Kathy! pensò. È giorno, quindi avrà finito l’operazione. E io di lei non so nulla. Prese il telefono e nella sua rubrica c’erano solo numeri di star del cinema, ma non conosceva nessuno. Guardò sulle app di Neurochat, ma niente. Né di Kathy, né di Felix, neppure degli altri coinquilini vi era traccia.
Devo andare all’ospedale. Devo sapere come sta.
Gli arrivò un messaggio vocale della sua assistente: «Signor Taverner, in ritardo catastrofico, posso sapere dove…». Staccò l’audio e rimise il telefono in tasca. Fece velocemente le scale fino al piano zero. Sudato fradicio, si tolse la giacca.
Kathy, vengo a prenderti.
* * *
Taverner trovò il suo velivolo appena fuori dall’hotel. In pochi secondi si ritrovò sul parcheggio del Los Angeles Hospital.
«Sono Phil Taverner» disse alla ragazza nella hall dell’ospedale.
«Lei è Phil Taverner?» rispose quella, spalancando la bocca.
«Sì, sono io».
«Conosco a memoria tutti i suoi film».
«Senta, mi deve aiutare. È una questione di vita o di morte. In questo ospedale stanno operando – oppure lo hanno già fatto – una ragazza di nome Kathy. Un’operazione al cuore delicatissima. Quello che volevo dirle è che sono disposto», e tirò fuori il libretto degli assegni, «a donare a questo ospedale, subito, immediatamente, centocinquantamila dollari, affinché Kathy sia trattata nel modo migliore possibile. In più, solo per lei, qui ci sono mille dollari per il disturbo» e prese dalla tasca il portafogli. Lo aprì e prese due banconote da cinquecento.
«Kathy?» disse la ragazza dopo un momento di esitazione.
«Kathy Spark» rispose Taverner, poggiando la mercanzia economica.
Dopo un paio di minuti di attesa la ragazza alzò gli occhi dal pc e guardò Taverner: «Non mi risulta alcuna Kathy Spark ricoverata da noi».
«Come no? Sono sicuro che è ricoverata proprio qui».
«No, Mr. Taverner, non c’è alcuna Kathy» disse con tono deciso la ragazza.
Taverner non rispose. Si voltò e cominciò a camminare. Salì le scale fino al terzo piano ed entrò nel reparto di cardiochirurgia vascolare. Vide subito un dottore.
«Ehi» disse Taverner. «Mi indichi la stanza di Kathy Spark, per favore».
«Ma lei è Phil Taverner!».
«Sì, sono io. Mi indichi la stanza di Kathy Spark, per favore» ripeté.
Pochi secondi di attesa.
«No, non c’è nessun paziente che corrisponde a questo nome. Però se vuole, e se le va, possiamo farci una foto per i miei figl…».
Taverner spinse via il dottore e aprì tutte le porte del reparto.
«Ma lei non può comportarsi così!» iniziarono a urlare gli infermieri.
«È Phil Taverner, ve lo giuro» urlava il medico.
Taverner spintonava chiunque fosse sul suo cammino.
Aprì l’ultima camera del reparto e vide una ragazza mora, di spalle, in posizione fetale.
«Kathy, sei tu?» la girò di scatto, ma non era lei.
«Chi è lei?» urlò la donna.
Taverner venne inseguito dalla sicurezza e dagli infermieri del reparto. Iniziò a correre e scendere le scale dell’ospedale. Ansimava, ma si rese conto di avere molte più energie di quanto ne avesse mai avute. Rampa dopo rampa, arrivò al giardino. Ritornò al parcheggio per velivoli e si chiuse nell’abitacolo del suo aereo.
Com’è possibile, dov’è Kathy, dov’è? pensò. Sono venuto a trovarla qui prima dell’operazione. Non possono averla spostata. Non possono! Tutto questo, cazzo, tutto questo è… impossibile.
Poi alzò la voce, come se stesse parlando con Dio: «Per una volta, cazzo, per una volta, fammi vivere un momento felice, una sola volta, una-sola-volta».
Tolse gli occhiali da sole e pensò cosa fare per trovare Kathy. L’unica soluzione era recarsi all’anagrafe di Los Angeles.
* * *
«Allora, forse non le è chiaro». Taverner diede un pugno sulla scrivania del funzionario più alto in grado della Contea di Los Angeles. «Io vi rovino! Non avete idea di chi sono».
«Signor Taverner, sarà anche un uomo potente, ma noi qui di Kathy Spark abbiamo soltanto un certificato di nascita. Non sappiamo che fine abbia fatto».
L’ufficio di Antonio Garcia era molto grande. Aveva due dipinti dei primi anni 2000 attaccati alle pareti. Una tv in realtà aumentata grande centoquaranta pollici. Una vasca dove accogliere le prostitute e un tavolo da poker sempre pronto. Eppure, la moglie gli diceva di sentire sempre la puzza di Messico sotto le sue braccia.
Imbambolato davanti alla gigantesca tv di Antonio Garcia, dopo qualche minuto di silenzio Taverner disse: «Cosa devo fare? Mi dia un consiglio».
«Dove ha visto per l’ultima volta Kathy?».
«A Notown».
«Io le consiglierei di andare lì. Forse a Notown c’è qualcuno che sa dove si trova».
Taverner non voleva ammetterlo neanche a sé stesso, eppure aveva paura di tornare a Notown. Ormai era nel pieno della follia che riguardava la sparizione di Kathy, ma non aveva dimenticato gli effetti meravigliosi della Mexal: tutto avrebbe potuto essere solo un sogno, un’allucinazione incredibilmente somigliante alla realtà. E se poi, tornando a Notown, torno a essere il tossico di sempre? E se poi incontro Felix e il mio sogno svanisce? Come sempre, il senso di colpa era come un anaconda che lo stava stritolando, ma i suoi pensieri erano reali.
* * *
Quando Taverner atterrò a Notown, sembrava non fosse successo niente, dal Mexal in poi.
Qui non cambia mai un cazzo, che città di merda! E pensare che fino a poco fa ero a L. A. a vivere il mio sogno. Trovo Kathy e poi fuggo verso Los Angeles. Questa città è stata la mia condanna, la mia rovina.
I tossici sbucavano come ratti dagli scantinati chiedendo soldi, ma lui si dileguò. Trovò un angolo isolato e si sedette su una panchina. Mani fra i capelli, si tolse gli occhiali neri e li attaccò al primo bottone della camicia. Accanto a lui sedeva un uomo con una barba lunga fino al petto.
«Dopo l’operazione non sei mai venuto a trovare Kathy» disse il barbone. Taverner si girò lentamente e lo guardò.
«Ulrich, sei tu?» disse Taverner.
«Cento punti per te».
«Felix mi aveva detto che eri morto. E poi mi ha dato una pasticca di Mexal. Da allora non ho capito più niente».
«Sì, ci credo, amico mio».
Ulrich era seduto con le gambe accavallate e il braccio sinistro disteso sullo schienale della panchina.
«Diamine, che coppia siete tu e Felix! Mi viene da ridere a pensarvi insieme».
«Cosa hai detto prima di Kathy?» chiese Taverner.
«Dopo l’operazione non l’hai cagata di striscio. Se l’è presa un bel po’».
Taverner esultò dentro. Finalmente pensò, qualcuno che mi conferma che Kathy è stata operata e sta bene. Poi, forse, cominciò a capire. L’effetto del Mexal sta svanendo, quindi tutto sta per tornare alla normalità. Purtroppo.
«Mi dispiace se la sia presa. Voglio andare a trovarla e rimediare» disse Phil, disteso in viso.
Ulrich bevve un sorso di succo a mirtillo con ghiaccio.
«Per dirle cosa, Phil? Ormai è tardi. All’improvviso diventa sempre tardi».
«Voglio provarci» disse.
«Bene». Ulrich posò il bicchiere e si voltò. «Ecco dove devi andare, proprio lì» e indicò il cimitero di Notown. «Kathy è morta venti giorni fa, tre giorni dopo l’operazione. Cazzo, Phil. Dov’eri? Era la donna della tua vita e tu l’hai abbandonata così. Dio mio. Sei una forchettata di brodo!».
Phil guardò in cielo e si alzò dalla panchina. Si voltò verso Ulrich.
«Ubriacone del cazzo, dimmi come si esce da questo Mexal. L’hai inventato tu! Saprai come uscire dal trip».
Ulrich ricominciò a bere il succo di mirtillo. Beveva un sorso e si fermava per ridere a crepapelle. E le sue risate sembravano martellate sull’acciaio per Phil, che pensò di essere morto anche lui.
«Ulrich, stammi a sentire. Dov’è Felix?».
Ulrich, dal ridere, sputò il succo di mirtillo sulla faccia di Phil.
«Non mi riprendo, cazzo» e rideva. «È morto anche lui, Phil. Sono tutti morti».
Le risate di Ulrich erano così violente che spaventavano i pochissimi uccelli presenti a Notown.
«E vuoi sapere qual è la cosa più divertente, Phil?» disse Ulrich.
«Cosa?».
«È che… li hai uccisi tu! Con il Mexal puoi scegliere, amico mio: o la vita che hai sempre desiderato o chi ami. Non si può avere tutto, Phil. Ora sta a te decidere. Vuoi essere l’uomo desiderato dalle donne, ciò che hai sempre desiderato? L’attore amato da tutti? Bene, prendi il Mexal e lo sarai. Ma dovrai rinunciare a chi ami».
Phil si allontanò lentamente, facendo piccoli passi a ritroso.
Il respiro cominciava a farsi lunghissimo. Il cuore batteva così forte da sentirlo sui polsi. Dalle tempie scendeva sudore ghiacciato.
Phil Taverner svenne.
Il rumore della sua caduta uccise i minuscoli filamenti d’erba che per miracolo crescevano sull’asfalto di Notown.